“IO SONO UNO CHE NON NASCONDE LE SUE IDEE”

di Greta Merati Luigi Tenco era un cantautore scomodo. Molti dei suoi brani sono stati censurati dalla Rai in quanto considerati “troppo politicizzati.” Il 27 gennaio del 1967 Luigi Tenco veniva trovato senza vita nella sua camera d’hotel a Sanremo, dove partecipava al Festival. Sulla sua morte tante ombre. Ci si è spesi in innumerevoli ipotesi sul “mistero” della camera 219 e sono ancora molte le incertezze. La riesumazione del corpo nel 2006 e due sentenze della magistratura confermano si sia trattato di un suicidio, ma numerose controinchieste sembrano mettere in dubbio che Tenco si sia tolto la vita, depresso perché il suo brano venne scartato. Si è scritto di tutto, dall’omicidio politico, passionale o ancora che sia stato ucciso per soldi o per sapere troppo. Per i 50 anni dalla sua morte è appena uscito il libro di Aldo Colonna, Vita di Luigi Tenco, che avvalora proprio questa tesi dell’omicidio. Oltre ogni valida ipotesi, dietrologia o congettura la sola cosa indiscutibile è che risulta difficile interpretare il suo suicidio come un atto estremo di una persona che non sapeva perdere, come molte critiche asserivano. Tenco infatti ha sempre preso le distanze dalle logiche concorrenziali e speculative che toccano il mondo della musica. Non si conquistava il pubblico accondiscendendo nel provocargli soddisfazioni facili e tantomeno stava a giochi competitivi ed alla corruzione dei concorsi, lui cantava per comunicare. Tenco, nella lettera d’addio che la perizia calligrafica conferma abbia fatto proprio lui, scriveva: Io ho voluto bene al pubblico italiano e gli ho dedicato inutilmente cinque anni della mia vita. Faccio questo non perché sono stanco della vita (tutt’altro) ma come atto di protesta contro un pubblico che manda “Io, tu e le rose” in finale e una commissione che seleziona “La Rivoluzione.” Spero che serva a chiarire le idee a qualcuno. Ciao. Luigi Il cantautorato progressista, la cosiddetta scuola di genovese, negli anni ‘60 rispecchiava una società in mutamento, ma la società nell’immaginario di Tenco era forse un po’ diversa, era oltre il suo tempo. In più situazioni si è dichiarato deluso dal sistema che lo circondava, e non si riferiva soltanto al mondo della musica. Luigi Tenco incarnava quel progressismo non di certo inedito negli anni delle grandi rivoluzioni culturali precedenti al sessantottismo, ma unico per i temi trattati e per come veicolava i suoi messaggi nella musica. Luigi faticava a definirsi un cantante, in un’intervista rilasciata a Sandro Ciotti nel 1962 affermava che la sua più grande ambizione fosse di farsi capire dagli ascoltatori, “cosa che non è ancora successa”. L’impressione è che usasse la musica come mezzo per arrivare alle persone con i suoi messaggi densi di ideali. Del resto cos’è la musica leggera, il “pop all’italiana,” se non ciò che vuole arrivare alle masse, al più ampio raggio possibile di persone? Spesso con la fama si corre però il rischio di essere fraintesi — e questo Luigi non lo sopportava. Le sue canzoni, spesso dedicate impropriamente dagli ascoltatori alle fidanzate al solo udire della parola “amore”, venivano di frequente equivocate. Nei testi in cui l’autore si rivolgeva alla donna cercava in realtà di scostarsi dalle serenate edulcorate che rappresentavano l’innamoramento. In pezzi come Ballata dell’amore o Se fossi una brava ragazza Tenco prende le distanze da certi vincoli culturali nel corteggiamento ed al comportamento rigidamente conforme ai due ruoli di amanti. A proposito di ruoli di genere e controcultura degli anni sessanta: come non ricordare Giornali Femminili, un pezzo fortemente dissacrante. Nella canzone Tenco ironizza sul ruolo dei media nello stabilire a cosa deve interessarsi la donna in quanto tale: i problemi di cuore, il lusso, la bellezza, ma mai le questioni piú grandi, “trasformare la scuola, abolire il razzismo, proporre nuove leggi, mantenere la pace.” Luigi era un personaggio scostante, sicuramente disinteressato a conquistarsi il pubblico. Era incapace di scenderci a compromessi, ad eccezione di una volta: il fatidico festival di Sanremo del 1967 in cui portò Ciao amore, ciao con Dalida. Il pezzo originariamente s’intitolava Li vidi tornare, ma dato il forte messaggio antimilitarista Tenco decise di ammorbidire i toni slittando sull’emigrazione italiana per non incorrere alla censura. Niente da fare, non è stato comunque apprezzato dalla giuria e questo fu frettolosamente interpretato da molti come il motivo per cui poi si sarebbe sparato alla tempia. Luigi Tenco era un cantautore scomodo Molti dei suoi brani sono stati censurati dalla Rai in quanto considerati “troppo politicizzati.” Rimarcava costantemente il tema delle uguaglianze, come in uno dei suoi pezzi più noti, Cara maestra: “quando entrava in classe il direttore tu ci facevi alzare tutti in piedi, e quando entrava in classe il bidello ci permettevi di restar seduti.” Emblematiche ed antisistema furono La ballata della moda, palese sbeffeggiamento alle dinamiche del marketing e Ognuno è libero, in cui trapela il disprezzo alla superficialità ed al consumismo. Lo chiamavano “il ragazzo col sax,” ma agli esordi oltre che suonare nelle band Tenco aveva scelto Scienze Politiche. La scelta del percorso di studi è stata sicuramente determinante per la politicizzazione dell’artista. Sono in molti a considerarlo comunista anche se altrettanti ricordano che dopo gli eventi in Ungheria stracciò la tessera del partito. Dalida, celebre cantante francese amante di Tenco, in un’intervista al settimanale Oggi del 1987, prima di togliersi la vita, come Tenco, dichiarò: “Luigi mi disse che nel 1964 abbandonò il partito comunista… perché diceva che i rossi si erano completamente sbiaditi.” Forse per questo poi si iscrisse al partito socialista con l’intenzione di militarvi, tant’è che arrivò a chiedere alla Dischi Ricordi, con cui aveva un contratto, di non comparire col suo nome per non subire danni d’immagine in qualità di studente di Scienze Politiche ed iscritto al PSI, pubblicò infatti numerosi brani sotto pseudonimo. Come molti artisti di sinistra Tenco era schedato negli archivi del Sifar ed inserito nella “lista nera” del governo democristiano dell’epoca in quanto elemento considerato sovversivo. Nella lettera lasciata prima di togliersi la vita Tenco esprimeva la sua speranza nell’utilità del suo gesto, voleva essere finalmente compreso. Indubbiamente era provato dalla delusione per un mondo che non lasciava …

LE LATTINE D’OLIO RACCONTANO L’ITALIA – Collezione Museo Guatelli

di Maria G. Vitali-Volant* Un filo d’olio… Le lattine d’olio (e il loro imballaggio) sono un originale tassello nella storia dell’emigrazione italiana nel mondo e emblematiche del nostro ricchissimo patrimonio culturale e imprenditoriale. La collezione Guatelli di lattine d’olio d’oliva e il suo museo a Chiusanico (Imperia), un esempio dell’industria e delle tecniche italiane d’eccellenza. L’imballaggio fa parte della nostra cultura, ne diventa un elemento importante, un’icona del nostro tempo. La storia degli imballaggi è collegata anche nel nostro paese ai cambiamenti del sistema economico. La rapidità della crescita dell’Italia, dalla fine del XIX° secolo ad oggi, ha comportato un rivoluzionamento delle economie tradizionali, dei mercati e, di conseguenza, della struttura stessa del sistema produttivo e della sua distribuzione sul territorio. È cambiato il modo di vivere, di rapportarsi con il territorio e quindi di consumare. Le distanze sono aumentate, le merci, prodotte in un luogo, vengono trasportate altrove per essere consumate, le persone vivono in un posto e lavorano in un altro. Si ridisegnano così i meccanismi di produzione, di circolazione e di consumo dei prodotti e, di conseguenza, dei loro imballaggi. Che cos’è l’imballaggio? In sintesi è qualcosa che permette lo spostamento nel tempo e nello spazio del consumo di un bene. Ma non solo. Oltre le funzioni strettamente strutturali, l’imballaggio è un ‘mezzo’ per comunicare, per entrare in relazione con il consumatore e fornirgli tutte le informazioni necessarie alla conoscenza del prodotto che contiene. Al volgere del Ventesimo secolo le tecniche di produzione si erano tanto sviluppate da consentire la realizzazione di contenitori in ogni forma e materiale, utili non solo a vendere il prodotto ma capaci di rispondere a nuove esigenze, a modificare la propria immagine in relazione alle condizioni socioeconomiche contingenti e all’orientamento dei diversi movimenti estetici. L’involucro può essere definito una “ricerca di forme tridimensionali, capaci di contenere in maniera opportuna, funzionale ed estetica” un bene destinato alla vendita; ma i termini opportuno, funzionale ed estetico assumono nel corso del secolo differenti significati. All’inizio del Novecento si chiede alla confezione di proteggere il contenuto durante il trasporto e di presentarlo all’ipotetico acquirente con un vestito elegante, che ne esalti la forma e soddisfi il desiderio visivo. La bellezza è una prerogativa assolutamente necessaria per l’involucro che, lungi dall’essere considerato entità comunicativa, viene sentito ancora come un oggetto totalmente indipendente dal contenuto: l’uno da consumare, l’altro da collezionare. In questo senso è da “leggere” la collezione Guatelli a Chiusanico in provincia di Imperia. In un antico frantoio del Seicento circa 6.000 lattine che contenevano olio d’oliva sono in mostra per evocare i consumi degli emigrati italiani di questo prezioso elisir del ricordo e materia prima che gli italiani consumano da sempre con cura e attenzione cosi’ come tutti i popoli “mediterranei”. Come in uno “studiolo” di antica memoria, ritroviamo le immagini della nostra storia in un luogo costituito come teatro che concentra saperi tenendoli insieme in maniera virtuale. La lattina d’olio rappresenta il significante, l’effimero contenitore di un senso; è come la olla olearia del mondo antico, ma, meno anonima, essa veicola un messaggio, racchiude ancora un filo d’olio che ci lega al nostro passato di migranti, cosi’ come legava allora gli espatriati alle loro tradizioni e culture. Una motivazione in più per fare di questo “Museo” di cultura materiale più di una curiosità: è anche un viaggio nelle nostre abitudini e nei nostri gusti, nonché nel nostro ieri. Questi “oggetti” sono un’eccellenza italiana che va dalla fine del XX° secolo ai giorni nostri. Da dove vengono? Da tutto il mondo perché seguirono gli emigrati italiani nelle loro erranze. Dice Tiziana Guatelli proprietaria della omonima collezione: “Sono sempre stata attratta, fin da bambina, dai colori e dalle immagini delle scatole in latta e questa passione ha accompagnato tutta la mia vita. Poi, dopo l’incontro con mio marito Riccardo Guatelli, erede di una delle storiche aziende produttrici di latte d’olio di Imperia, questo interesse è andato aumentando. È per questa ragione che abbiamo deciso di realizzare, nel 2006, nell’entroterra di Imperia, all’interno di un frantoio del XVII secolo il Museo della latta d’olio. Nella nostra avventura siamo stati affiancati da molti amici che hanno voluto condividere con noi questa passione: gli eredi della famiglia Renzetti che ci hanno donato un buon numero di pezzi, la dottoressa Daniela Lauria che, coadiuvata da Antonella Tallone, ha studiato e catalogato la collezione che attualmente consta di ben 6 000 imballi. Il prestigio della nostra raccolta sta nel fatto che si tratta dei primi “cliché” che dovevano servire come riferimento per la tiratura dell’intera produzione che costituiscono una chiara testimonianza di come, a cavallo tra Ottocento e Novecento, in Liguria, in particolare nella città di Imperia, a seguito dell’incremento della produzione dell’olio di oliva, sorsero stabilimenti che fornivano imballaggi in banda stagnata litografata per l’industria esportatrice italiana. Le lattine di olio erano destinate sia alle famiglie, ma soprattutto agli emigrati, i quali, giunti nel nuovo paese, richiedevano questo fondamentale ingrediente della cucina italiana. Nostalgici della patria, non si accontentavano della solita latta, la volevano bella e decorata con i simboli dell’Italia. Anche il famoso regista Premio Oscar Francis Ford Coppola, grande appassionato di storia dell’emigrazione italiana, venuto a conoscenza della nostra collezione, ne ha voluto alcuni pezzi che ha collocato in California presso la sua tenuta di Napa Valley e ogni anno sono visitati e apprezzati da moltissime persone. Pertanto mi sento di affermare con grande orgoglio che la nostra collezione aggiunge un originale ma importante tassello nella storia dell’emigrazione italiana nel mondo.” ***** LA STORIA (Si ringrazia la professoressa Daniela Lauria, curatrice scientifica della Collezione Guatelli, per il prezioso aiuto) Nei primi anni del Novecento, in Liguria si registrò un forte incremento nella produzione di olio d’oliva, fenomeno dovuto all’introduzione della chimica nel settore alimentare, che permise di rendere commestibili anche quegli oli che risultavano essere inadatti al consumo alimentare. Imperia, in questa nuova realtà, rivestì un ruolo di primissimo piano, in quanto nell’arco di pochi anni, si concentrarono i più importanti stabilimenti per la produzione e la …

L’ITALO-MARXISMO DI ANTONIO LABRIOLA

Antagonista di Turati, sul piano teorico, meno su quello politico, non essendo stato per suo carattere e per la sua professione un militante della politica, fu il filosofo Antonio Labriola. La contrapposizione durò poco più di un decennio per la morte di Labriola nel 1904. Labriola è stato considerato per lungo tempo il caposcuola di quello che si potrebbe definire l’”italomarxismo“, una scuola di pensiero che, da lui a Gramsci, ha innervato l’ideologia marxista nella particolare situazione di sviluppo cultura nazionale e, in specie, della ricerca filosofica. Filosofo di professione, infatti, Labriola scoprì Marx abbastanza tardi quando era già avanzato nell’età: nel 1890, dopo essere stato un hegeliano ed un herbertiano. Avendo studiato in modo approfondito la dottrina di Marx, si dette a divulgarla dalla cattedra dell’università di Roma e in conferenze sulla “genesi del socialismo moderno“, sulla “storia generale del socialismo” e sulla “interpretazione materialistica della storia“. La compiuta elaborazione del suo pensiero, interpretazione creativa, non scolastica, della teoria di Marx, è affidata ad opere che divennero famose come In memoria del Manifesto dei comunisti, Del materialismo storico e Discorrendo di socialismo e di filosofia, oltre che negli Scritti vari, raccolti e pubblicati da Benedetto Croce. Labriola è stato definito contraddittoriamente da alcuni come un “marxista puro“, addirittura più “marxista di Marx“; da altri un “revisionista“. In realtà lo stesso Labriola volle rispondere ai suoi critici del tempo, precisando che “avendo accettato la dottrina del materialismo storico, io l’ho esposta tenendo conto delle condizioni attuali della scienza e della politica e nella forma che conviene al mio carattere“. Un carattere, va detto per inciso, che non fu facile e che lo condusse a polemiche e a giudizi particolarmente aspri e a volte ingiusti nei confronti di molti esponenti del socialismo italiano dei suoi tempi. Specie nel fitto carteggio che egli intrattenne con Engels, rivolse strali pungenti, a volte col disprezzo elitario cui si sentiva autorizzato dalla sua dottrina e dalla sua acuta intelligenza, contro gli esponenti del nascente Partito socialista, primo tra i quali il Turati. Queste polemiche possono essere considerate la parte più caduca della sua opera. Ben altro peso e rilievo conservano invece i saggi suddetti, nei quali “si preoccupò in sostanza di dare un assetto organico al materialismo storico rifacendone la genesi, svolgendololo alla luce di nuove esperienze e depurandolo dalle contaminazioni operate dai seguaci incauti e dai ciarlatani della scienza“. In questo sforzo esegetico e interpretativo Labriola si mantenne (e tale volle essere) perfettamente ortodosso alla dottrina marxista. E sicuramente, in base a ciò, può considerarsi come l’artefice di quella scuola di “italomarxismo” che tanti epigoni doveva avere in quei tanti “italomarxisti” che egli, almeno per la sua dottrina, la sua intelligenza, e la sua onestà, non meritava di avere. Labriola rimase fino alla sua morte (1903) fuori del Partito socialista, alla cui costituzione si era rifiutato di partecipare, ritenendola immatura alla luce della sua analisi (astratta) delle condizioni storiche della società italiana. Questo suo atteggiamento fece discutere, e fa ancora oggi discutere, seppure ormai in sede storiografica. Un altro atteggiamento che suscitò infinite polemiche fu quello da lui assunto, in dissonanza con tutta la cultura socialista del tempo, sulle vicende coloniali Italiane di quegli anni. Quest’atteggiamento derivò anch’esso dalla sua analisi storica e socio-economica dell’Italia secondo la quale l’espansione coloniale era indispensabile allo sviluppo del capitalismo italiano e, di conseguenza, del movimento operaio. Probabilmente gli acri giudizi di Labriola su uomini e cose del socialismo di allora furono eccessivi o addirittura errati, come nel caso di Turati o di altri leader socialisti. Certamente ingiusta e non rispondente al vero è la descrizione da lui fatta in una lettera ad Engels della composizione del Partito socialista di allora come un assemblaggio “di studenti fuori corso, di artigiani autodidatti, di viaggiatori di commercio, di giocatori di carte e di biliardo, di avvocati senza clienti“. In realtà la concezione che del partito ebbe Labriola risentiva della sua impostazione totalizzante della classe e del partito come “altro da sé” della società capitalistica da trasformare mediante la rivoluzione. Non è escluso che in questa concezione si riversassero anche i risultati delle sue ricerche storiche sui movimenti ereticali del Medioevo. Labriola sapeva anche distinguere tra il movimento reale di classe che era combattivo e prorompente in quella fase storica e le deformazioni e deviazioni presenti nelle strutture di partito che non alteravano però la sostanziale vitalità dell’esperienza politica socialista. Di fronte alla nascita del PSI, Labriola ricavò “una sorta di pessimismo della volontà che lo portava a considerare la sua lotta teorica, i suoi studi di allora sul Manifesto (connessi al suo stesso insegnamento) in alternativa alla lotta politica attiva…“. In quelle circostanze, in cui erano operanti “i fabbricanti di cooperative pagati dai prefetti, tutti i negoziatori di voti socialisti, e tutti i filantropi affamati” il socialismo italiano non gli pareva “il principio di una vita, ma la manifestazione estrema della corruzione politica e intellettuale del paese. Egli continuava, nonostante tutto, a fare il fiancheggiatore attivo del movimento socialista, come appare da una sua lettera del 24 luglio 1892, ma era condizionato da una visione che accentuava i dati dell’arretratezza sociale e della stessa crisi morale post-risorgimentale“. La sua idea era quella di creare un partito operaio e marxista, piccolo e omogeneo, nettamente distinto dagli anarchici come dai radicali. In fondo il PSI rispondeva a tali requisiti, ma per Labriola era prevalente il suo dissidio con Turati. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

LA FUGA DI TURATI IN CORSICA

Nella foto, da sinistra: Da Bove, Turati, Carlo Rosselli, Pertini e Parri. Novembre 1926 – L’Italia é sotto il pieno controllo del regime fascista. Turati vive nel suo appartamento a Milano, sorvegliato dalla polizia. L’anno precedente é morta la sua amata compagna, Anna Kuliscioff. Medita il suicidio. Tra gli esponenti superstiti dell’Aventino Turati é certamente il più autorevole e quindi il più odiato tra gli squadristi. L’iniziativa di fuggire non nasce da Turati, ridotto all’ombra di se stesso, ma da Carlo Rosselli, brillante intellettuale, membro dell’esecutivo del Partito Socialista Unitario, ormai clandestino.  Rosselli, per eludere la sorvegliatissima frontiera svizzera, decide di farlo espatriare via mare in Francia. L’11 dicembre 1926 Turati viene condotto in gran segreto a Savona e da lì, con una pericolosa traversata notturna sul motoscafo “Oriens”, viene accompagnato da Riccardo Bauer, Ferruccio Parri, Italo Oxilia, Lorenzo Da Bove, Carlo Rosselli e Sandro Pertini a Calvi, in Corsica. Il locale circolo repubblicano non appena apprese la notizia dello sbarco di una personalità così autorevole si affrettò a improvvisare una cerimonia di benvenuto. Nonostante la terribile notte appena trascorsa, Turati non si sottrasse, in un impeccabile francese tenne un breve discorso di ringraziamento: descrisse l’Italia in catene, inneggiò alla lotta per la libertà e salutò con riconoscenza la libera terra di Francia. Il giorno seguente, dopo che il governo francese aveva accolto la loro richiesta di asilo politico, Turati e Pertini si imbarcarono sul postale per Nizza, Rosselli, Parri, e il resto dell’equipaggio dell’”Oriens” fecero invece rotta per l’Italia. Raccontò Sandro Pertini: “Rosselli toglie il tricolore che avevamo issato a bordo, e lo agita. E’ l’estremo saluto della Patria per Turati ed anche per me. Turati con gli occhi pieni di lacrime mi disse: ‘Io sono vecchio, non tornerò più vivo in Italia’. Rimanemmo sul molo finché potemmo vedere i nostri compagni. La mattina dopo ci imbarcammo sul traghetto per Nizza e di lì proseguimmo per Parigi dove trovammo Nenni, Modigliani, Treves e tanti altri. Turati mi offrì la sua assistenza economica, ma io rifiutai e decisi di guadagnarmi da vivere facendo i lavori più umili”. I giornali francesi, al contrario di quelli italiani che relegarono la notizia a un trafiletto nelle pagine più interne, diedero grande risalto alla fuga di Turati. Nei primi tempi del suo soggiorno parigino il grande vecchio del socialismo italiano fu conteso dalla stampa di sinistra. In una intervista rilasciata all’organo radicale “Oeuvre“, negò di aver lasciato Milano perché la sua vita era in pericolo: “Non avrebbero osato toccare il vecchio Turati. Solo che avevo nell’ingresso di casa mia poliziotti in continuazione (…). Alla fine mi sono sentito soffocare. Non ne potevo più di vivere così. È per questo che sono partito”. Alla domanda se prevedesse di poter rientrare in patria in tempi brevi rispose: “Ho lasciato laggiù i miei, la mia casa, i miei libri. È stato uno sradicamento. L’ho fatto, rassegnato a non vederli sicuramente più”. Lettera di Sandro Pertini a Filippo Turati Nizza, 23 dicembre 1927 Maestro, domani è l’anniversario sacro della nostra partenza da Savona ed io voglio ricordarlo con Lei! Rammenta, maestro, l’interminabile attesa lungo la stradale di Vado? ‘Mi sembra di essere tornato in trincea’ mi disse Parri. Ricordo che Rosselli, appena usciti dal porto, si chinò a baciarla. lo rimasi sino all’ultimo a contemplare la mia città. Si ricorda maestro, il nostro interrogatorio alla Capitaneria di Calvi ? ‘Chi è il comandante del motoscafo?’. ‘Moi, Filippo Turati’. Ed in quei giorni i nostri grandi amici, come noi, ricorderanno e molto parleranno del Maestro lontano. Li sentirà vicini a Lei e con essi Ella sentirà pure l’ ottimo Da Bove ed anche Pertini ‘il mozzo della imbarcazione Turati’. Sandro Pertini   Turati a Calvi L’11 dicembre 1926, dopo una clamorosa fuga in motoscafo, organizzata da Carlo Rosselli, Pertini e Parri, Turati sbarca nel porto di Calvi, in Corsica. Gli viene concesso immediatamente l’asilo politico dal governo francese. “Mi si chiede da varie parti perché ho lasciato l’ltalia di soppiatto, come un ladro; mi si chiede se le minacce fasciste mettevano veramente la mia vita in pericolo. La vita? Ma che cosa è la vita per un vecchio combattente quasi settuagenario, che cos’è la vita quando il lavoro di cinquanta anni sembra fuggirsene per sempre, quando non c’è più libertà di pensiero, né libertà di stampa, né tribuna parlamentare. Ho capito che l’ostaggio doveva liberarsi con i propri mezzi e seguir la strada già percorsa dai suoi amici. Mi sono ricordato  che c’era un vecchio paese di libertà al quale quattro rivoluzioni e il sacrificio di un sangue generoso hanno permesso di diventare padrone di se medesimo e di riservare l’ospitalità repubblicana ai proscritti di ogni altro paese. Eccomi dunque qui. Abbiamo pietosamente raccolto la nostra bandiera strappandola agli insulti delle camicie nere. Questa bandiera noi vogliamo spiegarla davanti ai moltissimi operai e contadini italiani che vivono in Francia: stendardo di speranza, di ripresa e di rivincita. I lavoratori italiani sanno benissimo quel che essi gli devono: quarant’anni di progresso sociale, lo scambio della servitù economica contro una condizione di libertà e di dignità, l’iniziazione alla vita politica”. Filippo Turati da una raccolta di Nicolino Corrado SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

NASCITA, ASCESA E DECLINO DI UN’UTOPIA

di Pierfranco Pellizzetti E’ l’dea “manchesteriana” dell’alleanza fra salario e profitto contro la rendita. Una parola d’ordine lanciata nel ’72 da Agnelli, propagandata da Scalfari, accarezzata da Amendola, sepolta il 20 giugno 1976 La storiografia analizza e ricostruisce le origini intellettuali, l’elaborazione ideologica e la cultura dei vincitori. Oggi si comincia a prestare attenzione anche ai sistemi intellettuali degli sconfitti. E’ possibile e utile andare ancora un poco più in là e tentare di portare alla luce il filo di elaborazione di un’idea che neppure è riuscita ad arrivare allo scoperto del dibattito ufficiale? Possibile e utile non sappiamo, certo difficile e con sempre dietro l’angolo il rischio di fare un processo alle intenzioni o, peggio ancora, della fantapolitica a-ritroso. Eppure, negli anni passati, c’è stato un focolaio di elaborazione, singolare ed autonoma rispetto alle altre elaborazioni che in quel periodo muovevano i propri passi verso la luce della cronaca e del dibattito pubblico, un’”utopia perduta” che in vari rivoli scorreva come un fiume carsico sotto la pelle della società culturale e politica italiana e che, se pure talvolta è comparsa alla superficie, non è riuscita a trovare un vero e proprio alveo esterno in cui fluire stabilmente. Segnali repentini ci avvertono della presenza di questa “utopia perduta” di cui non ricostruiamo i connotati e le tappe se non azzardando ipotesi non suffragabili con pezze d’appoggio sicure e con prove men che sommarie. La tesi è che nel corso degli ultimi tre lustri sia venuta articolandosi una meditazione che analizzava la società secondo categorie produttivistiche, discriminando i gruppi sociali in parassitari e non, per ipotizzare un’alleanza tra i ceti produttivi finalizzata alla razionalizzazione del modello socio-economico. Quando l’avvocato Gianni Agnelli alla fine del ’72 lancia lo slogan del «profitto e salario contro la rendita» la sensazione che si riceve non è di trovarsi davanti a un’improvvisazione, ma all’apparire temporaneo e repentino di uno sbocco all’esterno del fiume sotterraneo cui facevamo riferimento, Agnelli e il suo entourage: ecco già una prima posta da cui tentare di centrare la nostra fata Morgana. Scrive Valerio Castronovo che «nell’ultimo decennio, fra il 1961 e il 1971, era andato riducendosi progressivamente il peso quantitativo dei ceti produttivi… di qui la proposta di un’”alleanza”- fra grande industria e sindacalismo operaio da opporre ai settori improduttivi (…) insomma una sorta di “lega di Manchester” contro la rendita» (1). Dove nascono, e con quale percorso le tesi manchesteriane raggiungono l’ambito Fiat? E’ un caso che Luigi Spaventa, quando recentemente osservava che – dapprima i salari erodono i profitti essi poi subiscono la stessa sorte per colpa delle rendite, chiamasse a padre nobile del proprio discorso Claudio Napoleoni? (2) Napoleoni dopo Agnelli. Forse, questi due autorevoli personaggi sono i capi del filo che tentiamo di dipanare. Il punto di partenza potrebbe fornircelo Manin Carabba quando ricorda l’opposizione teorica alla proposta di “politica dei redditi”, che già nel lontano ’63 Ugo La Malfa tentava di far adottare alla prima coalizione di centro-sinistra, si raccoglieva attorno alla Rivista trimestrale diretta appunto da Claudio Napoleoni insieme a Franco Rodano: «In un paese come l’Italia, caratterizzato dalla presenza di “rendite” speculative e di una distorta struttura dei consumi, una concezione meccanica della “politica dei redditi” avrebbe contribuito a rendere non modificabili tali caratteristiche» (3). Nascerebbe qui, certo ad un livello ancora magmatico, un primo utilizzo politico della distinzione tra produzione di risorse e consumo improduttivo delle stesse che poi, in modi più articolati e finalizzati politicamente, vi ritroviamo in ambito Fiat. Quale può essere stato il tramite? La Rivista trimestrale raccoglie cattolici-comunisti, il tramite potrebbe ben esserlo un cattolico ex comunista, il direttore della Fondazione Agnelli Ubaldo Scassellati. La faccenda continua ad essere enigmatica, e ne parliamo con un personaggio enigmatico: Gianni Baget Bozzo. Effettivamente, attorno ai primi anni ’50, si era costituito a Roma un gruppo informale di studio con lo stesso Baget Bozzo, Napoleoni e Scassellati attorno al filosofo Felice Balbo (esperienza di cui i rotocalchi parleranno nei toni esoterico-scandalistici del “cinque per cinque”) e che poté fungere da centro di coagulo intellettuale, centro di collegamento, tra personaggi diversi nelle loro vicende successive. E’ la Fondazione Agnelli del cattolico Scassellati l’incubatrice delle elaborazioni manchesteriane? Le singolari teorizzazioni di Balbo, in particolare la sua visione “dell’autonomia dell’economico” potrebbero essere l’elemento ideologico di partenza per chi lavorava all’elaborazione di un’ideologia industriale. Certo è che una linea di ricerca che divide piuttosto che unificare e che enfatizza l’aspetto produttivistico sembra in distonia con il tradizionale pensiero cattolico difficilmente omogeneizzabile ad una visione efficientistico-quantitativa neo-capitalistica. Del resto, le testimonianze di chi visse l’esperienza della Fondazione Agnelli di quegli anni parlano di “grande confusione“. Tratto da Critica Sociale del 25 luglio 1978 SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. 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LA GRANDEZZA DI FILIPPO TURATI

di Giuseppe Saragat Discorso pronunciato nel 1957, in occasione del centenario della nascita, pubblicato nel libro “Filippo Turati – scritti e discorsi (1878 – 1932)” Editore Guanta – 1982 Pensare a Turati nel centenario della sua nascita, che coincide con eventi straordinari in un mondo lanciato verso un destino più misterioso di quello del satellite artificiale che oggi lo sorvola, è come immergersi in un’atmosfera limpida e serena che ci restituisce il senso dei valore imperituri della vita. Turati è stato per la mia generazione e per quella che l’ha preceduta, la personificazione vivente e respirante dell’onestà intellettuale, del coraggio morale, dell’intelligenza e dell’umanità. I principi che reggevano la sua vita e facevano di lui un maestro dell’azione erano quelli che tutti gli uomini onesti fanno propri, solo che in lui splendevano di una luce più viva, perché portati più in alto. La sua vita fu tutto un apostolato in difesa della classe lavoratrice, della giustizia e della libertà. Un suo allievo ebbe a dire che la sua figura fisica, morale, intellettuale e politica aveva lineamenti così decisi, che pochi tratti bastavano per abbozzarne un profilo somigliante. Chi ha avuto la fortuna di conoscere Filippo Turati ha potuto comprendere qual è la natura dei valori umani, che distinguono gli uomini veramente grandi dagli altri. Tutti i suoi sentimenti ci erano familiari, nulla in lui ci era estraneo, eppure tutto si dilatava in lui in proporzioni che davano ai sentimenti più comuni qualcosa di solenne e di esemplare. Era questa vastità del suo volume umano che ci colpiva con forza irresistibile e ce lo faceva amare come un capo indiscusso, come un maestro di vita. Niente c’era in lui di aulico. “La sua andatura semplice e frettolosa di brav’uomo che ha tante cose da fare e che non ha proprio il tempo, e tanto meno l’intenzione, di atteggiarsi a grand’uomo” – come la vide un suo discepolo – era l’espressione fedele della sua innata semplicità. Ma, di fronte a quegli occhi che Treves vide come quelli di un fauno buono, dove l’ironia sprizzava piena di pathos, piena del tragico umano, allora ci sentivamo commossi e travolti da un senso di devozione filiale. Da questa sua umanità profonda derivava la sua potenza oratoria, enorme potenza, come disse Treves, che trattava il dolore, l’eroismo, il sacrificio come materia solida, e ne faceva zampillare tutto lo spirituale. Da dove veniva quest’uomo? Qual è stato il significato della sua azione e perché oggi noi socialisti democratici italiani lo veneriamo più che mai come il Maestro dei Maestri? Turati, nato a Canzo nel 1857, aveva ereditato tutti gli impulsi morali, di cui fu fervido il Risorgimento nazionale. Gli ideali del Risorgimento erano ormai realizzati, ma nei giovani generosi gli impulsi morali permanevano, tesi verso compiti e doveri nuovi. Quale dovere nuovo poteva con maggior forza assalire la coscienza di un giovane intelligente, colto, generoso, se non quello della lotta per l’emancipazione delle classi povere? Il Risorgimento lasciava dietro di sé immensi compiti da risolvere, tremendi problemi insoluti, e, primo tra tutti, quello della secolare miseria. Ancor oggi questo problema domina la scena sociale della nostra Patria. Turati intuì per primo che la classe lavoratrice non avrebbe potuto affrontare le sue lotte senza un partito politico, ispirato ai principi del socialismo e della libertà. Turati è stato il protagonista della lunga lotta, che portò, verso l’ultimo decennio dell’altro secolo, alla fondazione del partito della classe lavoratrice. A quest’opera insigne egli si accinse con entusiasmo romantico e con una lucida e razionale visione delle cose. Le sue origini culturali lo portavano infatti al di là degli impeti lirici di un’anima piena di pathos, verso una concezione positiva della vita sociale, e questa concezione era arricchita dalla viva corrente del pensiero marxista. È stato detto che Turati non era marxista, perché gli sarebbero sfuggite le premesse dialettiche di quella filosofia. Se il marxismo è – come io credo – nella sua essenza sintesi di pensiero liberatore con azione liberatrice, e se la dialettica si risolve nella raffigurazione logica di questo processo, che è tutt’uno con lo svolgersi degli eventi umani, ossia con la storia, nessuno fu più marxista di Turati. Certo, il suo istintivo buon senso e la sua profonda umanità lo portavano a respingere, ancor meglio, a escludere dal suo pensiero quella grottesca caricatura della dialettica, la quale ha imperversato e ancora imperversa tra gli interpreti totalitari del marxismo. Tale assurda dialettica riduce tutti i problemi della storia ad una meccanica sequenza di tesi, antitesi e sintesi, che pare fatta apposta per fornire ai violenti ed ai tiranni lo strumento logico per giustificare i loro diritti. Il suo marxismo, che ha trovato un’alta sistemazione teorica nell’opera del suo illustre allievo, Rodolfo Mondolfo, presiedette alla creazione del primo partito della classe lavoratrice italiana. Nel 1892, vincendo le resistenze corporativistiche e gli infantilismi bakuniniani, il nuovo partito sorgeva, ancorato ai principi fondamentali della coscienza di classe e della libertà umana. Fin da allora però il partito fu insidiato dalla tendenza centrifuga di questi due ideali, che solo una profonda coscienza socialista può mantenere in un’armonica unità. V’erano coloro che intendevano il socialismo un puro atto di ribellione contro la società esistente, e da questa convinzione deducevano conseguenze volontaristiche, rivoluzionane, giacobine. Per costoro la violenza, più che la grande “levatrice” era la grande generatrice della storia. Per Turati il socialismo appariva come il processo di liberazione della società umana da tutte le limitazioni che la immiseriscono, come il processo di creazione di una società in cui tutti i valori dell’uomo potranno spiegarsi nella loro pienezza. Turati, in altri termini, anticipava nella sua coscienza la visione del mondo nuovo, che le lotte di classe dovevano creare. La lotta di classe, nell’atto stesso in cui s’urtava contro il mondo esistente, si nobilitava di quegli ideali che dovevano essere realizzati. Turati e i suoi discepoli portavano nella lotta non soltanto la tensione dell’urto momentaneo, ma soprattutto la visione dei fini per cui la lotta era necessaria; la violenza appariva quindi a costoro inadeguata …

BORGHESIA: FASCINO DISCRETO DELLE ETICHETTE

di Pierfranco Pellizzetti Guido Carli nega che una parte della borghesia produttiva possa darsi un ruolo innovativo, sottraendosi alla «solidarietà di classe». La borghesia italiana, però, è sempre stata nazionalista, opportunista o settaria Tesi: i ceti sociali sono portatori di interessi specifici che tendono ad organizzarsi secondo rappresentazioni culturali orientate da valori. Tradotto in italiano: gruppi di cittadini uniformati da ruolo e status sociale sono omogenei anche per interesse e cultura. In uno schema siffatto sarebbe attuabile l’operazione illuministica di ridisegnare la geografia politica partendo dall’individuazione degli orientamenti reali, seguendo il senso delle nervature con cui i gruppi si innestano nel tessuto sociale. Ma quando si scende dall’astratto al concreto, il quadro nazionale viene totalmente modificato da viscosità e ritardi culturali che producono false rappresentazioni, da luoghi comuni consolidati che determinano errate identificazioni ed alimentano solidarietà infondate; spesso l’emergere di realtà nuove non viene percepito come tale (né — sovente — loro stesse riescono a percepirsi tali) e — quindi —lo si tende ad “inscatolare” in vecchi schemi; un ruolo negativo giocano — infine — tutte le operazioni culturali di retroguardia volte a fornire valori devianti ai gruppi sociali in travaglio davanti un problema di auto-identificazione. Ricorrendo ad un vecchio e cinico adagio cavouriano (conservateurs dans le coeur, radicaux pour peur), il presidente della Confindustria Guido Carli suole svilire lo sforzo, di una parte della borghesia produttiva, di darsi un ruolo innovativo coerente con i propri interessi reali (se ha un senso la tradizionale polemica imprenditoriale nei confronti del parassitismo e del capitalismo assistenziale). Se ne deduce che, per il presidente della Confindustria, una scelta di tipo progressista (che, nel caso italiano, significa volta a razionalizzare un capitalismo atipico) equivarrebbe a puro e semplice gattopardismo. Ma la singolare critica interviene ancora al livello dell’individuazione degli interessi reali cosicché la valorizzazione del termine conservateur nella citazione cavouriana rivela le perplessità di Carli nei confronti di un progetto che comporta l’uscita di un segmento di borghesia (appunto, produttivo-imprenditoriale) dalla più generale e tradizionale solidarietà di classe (appunto, borghese-conservatrice). Perplessità oneste e legittime. È chiaro che una borghesia progressista attenta al fondamentale problema della propria specificità non può essere socialista o populista. I valori rivoluzionari (radicali) borghesi sono la mobilità ed il pluralismo e la tradizione che li elabora è quella liberale. Dall’Einaudi della bellezza della lotta (recupero del valore del conflitto) al Pannunzio della lotta contro i “padroni del vapore” (riproposizione di una moralità laica) vi è tutta un’elaborazione liberal-progressista che può essere punto di riferimento per una militanza insieme borghese e a sinistra. Ma il termine “liberale” si presta ad operazioni culturali svariate e dubbie. Portiamo ad autorevole esempio quanto ha recentemente scritto lo storico Rosario Romeo (e lo facciamo con qualche timore vista la ben nota attitudine dell’illustre storico a prendere a schiaffoni l’interlocutore troppo critico o irrispettoso): «Molto si parla, negli ambienti di sinistra, delle recenti iniziative miranti ad organizzare in qualche modo la cultura “moderata”, che poi vuol dire liberal-democratica» (Giornale nuovo del 25 giugno scorso). Isoliamo la parte finale di questa frase: «moderata, che poi vuol dire liberal-democratica». Chi l’ha detto? Il pensiero liberal-democratico è “immoderata” scommessa sulla creatività di minoranze eretiche (il dissent di De Ruggiero) e sul ruolo innovativo della critica. Siamo dunque davanti ad una forzatura concettuale che rivela — in parte — il senso della più generale operazione portata avanti dai gruppi che si raccolgono attorno al quotidiano montanelliano: creare, in un quadro politico che tende a normalizzarsi attraverso l’accordo di vertice della corporazione partitica (ipotesi consociativa), un’opposizione (per ora aventiniana) alla destra del regime, auto-proclamatasi liberale e che coaguli il malcontento dei benpensanti. Se questa opposizione è liberale, chi non vi aderisce — argomenterebbe Croce — liberale non è: fascino discreto delle etichette. Proseguendo in tema di etichette, osserviamo come (per quanto attiene l’evocato moderatismo) la storia nazionale insegni che “moderato” è proprio il conservatorismo della parte meno forcaiola della borghesia. Ma se il nostro paese una classe dirigente liberale, rare eccezioni a parte, non ha mai saputo esprimerla, altrettanto, rare sono le posizioni schiettamente conservatrici. Si è sempre abbondato — invece — in borghesie trasformistiche, nazionalistiche, opportuniste (perché fifone) o settarie (perché ignoranti); le posizioni sono sfumate e polivalenti, giustificabili, sempre, mediante acrobazie lessicali —al limite dell’appropriazione indebita — del tipo “liberal-democratico ovvero moderato“. A questa logica del camuffamento si ispira anche il tentativo dei montanelliani di presentare come liberali e, al tempo, moderate un insieme di pregiudiziali anti-progressiste di una borghesia assetata di impossibili ritorni centristi, strutturalmente obbligata ad arroccarsi davanti ad ogni sfida. Ceti di cui Tocqueville direbbe: «non hanno capito niente, non hanno scordato niente». Se riesce questo tentativo di opporre alla logica normalizzante della corporazione politica la logica reazionaria del ritorno ad un (ipotetico) buon tempo antico, si finirà per “schizzare” ai margini del dibattito ogni posizione innovativo-riformista, lasciando — conseguentemente — uno spazio immenso ed inquietante alla non-logica del rifiuto del sistema inteso come unica opposizione possibile. In uno scenario così compresso vi sarebbero difficoltà quasi insuperabili per il tentativo di ridisegnare la geografia politica italiana partendo da quelli che sono gli interessi reali presenti nella società civile. Sarebbe ulteriormente rallentata la maturazione di una moderna borghesia liberal-progressista, adeguata ad una realtà di tipo industriale e portatrice di proprie ipotesi di trasformazione della società coerenti con i propri interessi reali. Tratto da Critica Sociale del 23 settembre 1977 L’immagine utilizzata è tratta da un’opera dell’artista Roberto Finessi SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

LA CRESCITA DEL PARTITO

A Bologna, dove si riunisce il V congresso (18-20 settembre 1897) c’è una grande novità: da molti mesi, dal Natale dell’anno precedente, i socialisti vantano un loro quotidiano, l’Avanti! , diretto da Bissolati, che già s’è distinto come bandiera di libertà e di emancipazione sociale e ha già conquistato molti elettori, anche tra il pubblico non socialista. Inoltre, nelle elezioni politiche del marzo dello stesso 1897, il partito è stato premiato per la sua opposizione condotta contro la politica antipopolare del Di Rudinì, raddoppiando quasi i suoi suffragi: ha ottenuto 130.000 voti, sono stati eletti 15 deputati. Anche la sua organizzazione è più forte. Dai dati offerti al congresso dalla relazione Dell’Avalle, risultava che gli iscritti erano passati da 19.121 a 27.281, mentre le sezioni erano salite a 623. Di pari passo con la crescita del partito e del suo elettorato si irrobustisce la tendenza democratica nell’ambito del socialismo di contro a quelle estremistiche, la cui consistenza è dovuta alla presenza della repressione del governo nelle campagne e specie nel Mezzogiorno. La posizione “transigente“dell’ala che si chiamerà “riformista” tende a farsi luce nel gruppo parlamentare e nel partito. La caduta di Crispi diede conferma e forza all’azione dei socialisti che vi si richiamavano. Al congresso di Firenze (26 maggio-4 giugno 1896) si appalesò il contrasto tra l’ala “intransigente” capeggiata dal Lazzari, che rigettava le tesi democratiche e quindi la politica delle alleanze, e l’ala turatiana. Il contrasto non s’acuì e prevalse un ordine del giorno di centro presentato da Enrico Ferri che ottenne 147 voti favorevoli, 71 contrari ed una astensione. Sul piano delle alleanze sociali, il VI congresso discusse il problema dell’azione socialista nelle campagne, dove il PSI dimostrava una notevole capacità di espansione, e in particolar modo il problema della “piccola proprietà lavoratrice“. Fu accolta la tesi di Bissolati che, innovando lo schema teorico marxista, individuava nella creazione delle cooperative agricole un fertile terreno d’intesa tra il movimento contadino con i piccoli proprietari agricoli. Per il gruppo parlamentare socialista, che fu sempre ispirato alle concezioni riformiste, “la democrazia è il punto di partenza, il socialismo il punto di arrivo“. Respingendo le suggestioni rivoluzionarie degli estremisti, il gruppo parlamentare fece del Parlamento la sede più feconda dell’evoluzione sociale, civile e politica del paese, operando per la crescita e l’affermazione di tutto il mondo del lavoro. Tra il V e il VI congresso, molti avvenimenti scossero la società italiana ed impegnarono i socialisti in una dura difesa della libertà e delle prime conquiste sociali. Nel Parlamento e nel paese essi dovettero condurre una lotta intransigente contro le repressioni autoritarie dei Crispi dei Di Rudini e Pelloux, che erano rivolte a colpire le organizzazioni socialiste, e con esse tutte le forze democratiche e le stesse organizzazioni sociali dei cattolici. I parlamentari socialisti pagarono un duro prezzo per la difesa della libertà. Oltre al Costa – che nel 1889 era stato incriminato, dichiarato decaduto dal seggio e condannato – anche altri deputati socialisti conobbero in quegli anni il carcere e vennero processati e condannati. Il 9 maggio 1898, insieme ai provvedimenti che decretavano lo stato di assedio e la sospensione della libertà di stampa, il generale Bava Beccaris fece arrestare i deputati socialisti Turati, Bissolati, Morgari e il repubblicano De Andreis. Con loro finirono in carcere altri dirigenti del PSI, tra cui Anna Kuliscioff. Turati e De Andreis furono condannati ciascuno a 12 anni di carcere; a pesanti pene detentive anche gli altri. Verranno liberati a seguito dell’amnistia politica, reclamata dalle petizioni popolari. Nel novembre 1898, contro le misure repressive delle libertà di associazione, di sciopero, di stampa presentate dal primo ministro, il generale Pelloux, insorsero i parlamentari socialisti, radicali e democratici, con alla testa Bissolati, Prampolini e Ferri. Per la difesa delle prerogative democratiche del Parlamento contro la decretazione d’urgenza – che troverà la sanzione anche della Corte di Cassazione – essi adottano la tattica dell’ostruzionismo. La battaglia dura parecchi mesi. Il 30 giugno 1898, avendo il presidente della Camera tolto la parola a Prampolini, che ne aveva diritto, lo stesso Prampolini, Bissolati ed altri deputati rovesciarono le urne in cui si deponevano le schede per la votazione. Si andavano creando, su questo terreno di lotta, le condizioni per un rapporto politico positivo tra i socialisti e le altre forze costituzionali, che mostravano una crescente ostilità alla linea reazionaria. Sciolta la Camera, nella consultazione che si tenne nella prima domenica di giugno, i socialisti videro premiata la loro coerente iniziativa in difesa della democrazia e dei lavoratori: i consensi più che raddoppiati portarono in Parlamento 32 deputati socialisti, al posto di 15 uscenti. Per la prima volta sono eletti due operai: il biellese Rinaldo Rigola e il genovese Pietro Chiesa. Un successo elettorale ottenne anche l’opposizione costituzionale di Giolitti e di Zanardelli. Ciò permise di prefigurare una nuova situazione parlamentare favorevole a un’intesa tra i socialisti e queste forze, isolando in Parlamento i conservatori e i reazionari. Il programma minimo e il compromesso con Giolitti Nel VI congresso socialista svoltosi a Roma dall’8 all’11 settembre 1900 si delinea una frattura tra l’ala riformista favorevole alla collaborazione con le altre forze democratiche e l’ala estremista, guidata da Arturo Labriola, che invece vuole una opposizione intransigente e il virtuale isolamento del PSI. Turati, appena uscito dal carcere, dichiarava che l’intesa con i settori democratici doveva ormai essere considerata come “il principio di una nuova fase dell’esistenza del partito socialista“. I fondamenti della nuova politica socialista sono: democratizzazione; fabianesimo economico; libertà politica. Questa linea si concretizza nella presentazione di un documento, con le firme di Turati, Treves e Sambucco, approvato pressoché all’unanimità, che contiene il “programma minimo” del partito, il programma cioè che servirà da guida per il PSI in tutta la sua azione politica e parlamentare. Il “programma minimo” era un programma di “governo” dei socialisti; esso doveva indicare la larga corrente di trasformazioni che debbono avvenire nello Stato moderno perché il proletariato divenga sempre più capace di far valere la sua forza economica e politica nella marcia verso il socialismo. Le …

L´ECCIDIO DI SAN FERDINANDO DI PUGLIA – 9 febbraio 1948

I giornali del 9 febbraio 1948 uscirono con la notizia in prima pagina della convocazione dei comizi e l´inizio della campagna elettorale. Il ministro degli Interni Scelba si era recato dal presidente della Repubblica per la firma del decreto che fissava per il 18 aprile le elezioni dei deputati e dei senatori. In verità la propaganda per quelle che furono chiamate “le elezioni della paura” era già cominciata da qualche mese. Il paese spaccato in due: da un lato da Democrazia Cristiana e i partiti che sostenevano il quarto governo a guida De Gasperi, socialdemocratici e repubblicani; dall´altra i comunisti e i socialisti riuniti nelle liste unitarie del “Fronte Democratico Popolare per la pace, la libertà e il lavoro”, nato ufficialmente a Roma nel dicembre del 1947 in un convegno alla presenza di Togliatti, Di Vittorio, Longo, Lizzardi, Basso. Per presentare il nuovo soggetto politico, anche a San Ferdinando come in molti altri centri d´Italia era stata organizzata per l´8 febbraio 1948 una manifestazione del Partito Comunista e del Partito Socialista. Quello stesso giorno, una domenica, era annunciata nel centro ofantino la visita pastorale del vescovo di Trani e gli stessi dirigenti comunisti e socialisti avevano liberamente optato di spostare l´iniziativa di costituzione del Fronte al giorno successivo, lunedì 9, per evitare qualsiasi turbamento dell´ordine pubblico. Il timore di incidenti non era infondato. A San Ferdinando agivano numerosi gruppi di destra, radunati attorno alla sezione dell´Uomo Qualunque, che trovavano protezione e sostegno non solo negli agrari del posto ma nella stessa coalizione di destra che reggeva l´amministrazione comunale, e nel corpo dei vigili notturni, delle guardie campestri e delle guardie giurate. Tra loro ex fascisti, qualunquisti, monarchici, che avevano già annunciato come avrebbero mal tollerato la manifestazione di comunisti e socialisti se questa avesse assunto caratteristiche di massa e larga partecipazione popolare. Un proposito chiaramente intimidatorio che aveva indotto i promotori a recarsi presso la caserma dei carabinieri, nel primo pomeriggio del 9 febbraio, per chiedere un dispiego di forze che garantisse lo svolgimento pacifico della manifestazione. Già nel corso della riunione con le forze dell´ordine, giunsero in caserma la notizia dei primi disordini. La situazione stava già precipitando. Essendo stato vietato il corteo, le cellule del Partito Comunista si erano organizzate in modo da assicurare l´affluenza in piazza Matteotti, luogo prescelto per il comizio, attraverso un primo raduno presso le singole sezioni del partito, con l´esposizione e lo sventolio delle bandiere rosse, e un successivo a simultaneo concentramento nella piazza da parte di tutti i militanti, in modo da mostrare la grande forza organizzativa. Ma prima ancora che il piano si completasse, erano cominciati gli assalti e le azioni delle squadracce fasciste e qualunquiste, che puntavano a impedire la manifestazione che si annunciava imponente. Le cariche colpirono le singole sezioni, i loro vessilli, i militanti lì radunati. Le minacce e le azioni violente erano accompagnate da spari di mitra e pistole. In vari punti della città si registrano aggressione e lavoratori, uomini e donne, selvaggiamente bastonati. Scattarono le prime denunce ma i carabinieri si astennero scientificamente da qualsiasi intervento che poteva assicurare il regolare svolgimento del comizio del Fronte Democratico Popolare e l´incolumità dei partecipanti. La situazione sarebbe anzi di lì a poco degenerata. L´aggressione al capocellula Francesco Frascolla da parte di alcuni squadristi, ferito gravemente alla testa, e la sua conseguente difesa –lo sparo di un colpo d´arma da fuoco che colpì ad una natica uno degli assalitori- scatenò la violenta rappresaglia dei fascisti. Dove aver appiccato un rogo in piazza con le bandiere rosse requisite negli assalti alle sezioni del Pci, assaltarono la cellula numero 9, quella di Frascolla, a colpi di mitra e pistola. L´assalto fu esteso alla sede dell´Anpi e della Camera del Lavoro. A morirei in seguito ai violenti scontri furono quattro lavoratori: Giuseppe De Michele, Nicola Frantone, Vincenzo De Niso, Giuseppe Di Troia. Non fu risparmiato nemmeno il piccolo Raffaele Riontino, di 7 anni, trovato senza vita sotto un tavolo nella sede dell´associazione partigiani, dove aveva inutilmente cercato riparo. Altri 10 lavoratori, tutti militanti comunisti, rimasero feriti. Lo squadrista assassino che aveva avuto il coraggio di infierire su un bambino di 7 anni, aveva gridato “Por i rpudd ma luè da nend!”…anche i piccoli dobbiamo eliminare… La stampa italiana diede notevole risalto ai fatti di San Ferdinando, in seguito dei quali in provincia di Foggia fu proclamato l´11 febbraio 1948 uno sciopero generale. I fascisti e i qualunquisti, gli agrari, sostenuti nella loro versione dei fatti dalla Gazzetta del Mezzogiorno, rivendicavano la legittima difesa e le provocazioni violente dei socialcomunisti come causa scatenante degli incidenti verificatisi. Tutta la stampa governativa e gli stessi esponenti politici nazionali avvaloravano la tesi dei provocatori e fomentatori comunisti. Forti le denunce che si levarono dai dirigenti del Pci, su tutti Di Vittorio, che ben conosceva la forte influenza esercitata dal fascismo agrario nelle zone del Basso Tavoliere. L´azione giudiziaria nei confronti dei responsabili dell´eccidio durò 7 anni, fino alla definitiva sentenza della corte d´Appello di Bari del 2 marzo 1955. Alla fine furono 28 gli imputati accusati a vario titolo di lesioni, omicidio e concorso in omicidio. Le pene maggiori per 7 di essi, con condanne da 17 ai 26 anni di reclusione. Non venne però riconosciuto il reato di strage. Fonte: CGIL Foggia SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

LA STORIA DI EMILIO LUSSU E JOYCE ALL’OMBRA DELLA LOTTA ANTIFASCISTA

di Silvia Ballestra Autunno 1932. Durante una visita al fratello Max deportato a Ponza con l’accusa di far parte del gruppo romano di Giustizia e Libertà, alla giovane Joyce Salvadori viene affidato un incarico: deve portare un documento scritto fitto fitto e contenente un progetto di evasione a Emilio Lussu e consegnarlo a lui e a lui soltanto. Joyce, ventenne, bellissima, alta, bionda, colta ed elegante, arrotola quella carta, la infila nel manico cavo della sua valigia in fibra e parte alla ricerca di mister Mill (questo il nome finto di Lussu che vive da clandestino). Inizia proprio così, esattamente come un romanzo, o come un film, la storia fra Emilio e Joyce. A quell’epoca Emilio Lussu è un personaggio davvero «leggendario». Valoroso capitano dell’eroica brigata Sassari nella prima guerra mondiale, tornato in Sardegna ha partecipato alla nascita del Partito Sardo d’Azione. Nel 1921, a trent’anni, è stato eletto deputato. Ma sono soprattutto i fatti avvenuti dopo la presa di potere di Mussolini a renderlo un essenziale riferimento: fiero oppositore antifascista, nel 1926 è stato aggredito a Cagliari da mille squadristi che l’hanno assediato con l’intento di farlo fuori. Da dentro casa, armato di fucile, ha tirato: un giovane fascista è morto e per questo, nonostante la legittima difesa, Lussu è finito prima al carcere duro – dove si è ammalato di polmonite cronica – e poi al confino. Da Lipari, la sera del 27 luglio del 1929, con Carlo Rosselli e Fausto Nitti, è riuscito a scappare a bordo di un motoscafo guidato da Dolci e Oxilia (durante questa rocambolesca, impossibile e spettacolare, fuga, è rimasto a terra Paolo Fabbri). Una volta arrivati a Parigi, accolti da Salvemini, gli evasi hanno potuto raccontare a tutta l’Europa cos’è il fascismo in Italia e cominciare a organizzare Giustizia e Libertà. Joyce Salvadori proviene da una famiglia «anglo-marchigiana». E’ nata a Firenze e da lì è scappata in Svizzera una sera del 1924, dopo che il padre e il fratello sono sopravvissuti miracolosamente a un pomeriggio di torture e violenze fasciste. Il padre Willie, infatti, uno dei primi laureati in Sociologia e libero docente all’Università, è vicino a posizioni socialiste nonostante la famiglia, ricchi proprietari terrieri di Porto San Giorgio, sia di orientamento opposto (per questo, lui e sua moglie Giacinta, hanno rotto coi nonni). Da quella terribile sera, la piccola Joyce, non ancora dodicenne, ha ricavato una radicale determinazione alla lotta contro la viltà e la violenza. Essere donna, si è detta, non è un privilegio o una scusa per non esporsi ai rischi e all’azione. Sulle rive del lago Lemano, Joyce frequenta la Fellowship School, un collegio libertario, cosmopolita e pacifista. Ogni tanto torna nelle Marche, dai nonni, e a Fermo consegue la licenza liceale da privatista. Scrive poesie e, diciassettenne, conosce Benedetto Croce che la accoglie con amicizia e la incoraggia pubblicandola sulla Critica . Nel 1931 decide di andare ad Heidelberg per studiare filosofia. Suoi professori sono Jaspers e Rickert e Joyce si mantiene lavorando come istitutrice. Grande però è lo shock quando, in primavera, determinata assieme agli studenti di sinistra a fare un contraddittorio con Hitler arrivato per un comizio, vede dispiegarsi in piazza la potenza militare e violenta dei nazi inquadrati sotto il palco. I suoi professori sembrano non rendersi conto di quello che sta succedendo, hanno un atteggiamento di sufficienza ma Joyce, che viene dall’Italia fascista, sa! Capisce. Li riconosce. E, compreso che la filosofia in quel momento è inane, decide di partire. E’ il 1932. Dunque, col suo messaggio nascosto in valigia, Joyce gira a lungo prima di riuscire a trovare Emilio: ha letto del famoso personaggio su tutti i giornali ma non sa che faccia abbia. Quando lui è passato a casa Salvadori in Svizzera, per portare una copia del suo libro La Catena , lei era all’estero. Ora lo cerca ovunque, a Parigi, in Belgio, in Alta Savoia. Alla fine, le fanno sapere, poiché Lussu è ad Annemasse a respirare aria di montagna, l’appuntamento è fissato a Ginevra, in casa del repubblicano marchigiano Chiostergi. L’incontro fra l’affascinante e «prestigioso rivoluzionario» e la ragazza «proletarizzata dalla lotta e dall’emarginazione economica e sociale» è assolutamente romantico e travolgente. «L’amore era stato immediato e totale, il colpo di fulmine dei romanzi dell’Ottocento.» Così racconta Joyce. «Nella deflagrazione interiore innescata dal primo sguardo c’era già tutto: dall’intensa attrazione fisica al sincero rispetto, dal bisogno d’affetto alla passione politica.» Una prima notte abbracciati in un letto a una piazza in una casa svizzera, un breve periodo insieme e poi la decisione di lasciarsi: Emilio non vuole, non può, impegnarsi in un rapporto. È malato, ha ventidue anni più di lei, è un rivoluzionario refrattario alla vita di famiglia. Si lasciano ma Joyce è convinta di essere la donna adatta per lui. Continuerà a sentire un richiamo fortissimo per quell’uomo così interessante, così completo, anche da molto lontano. Anche se la separazione è assai lunga e i contatti praticamente impossibili. Passano sei anni. Nel frattempo, Emilio è stato operato al polmone e ha trascorso molto tempo in sanatorio, a Davos, in Svizzera, dove ha scritto Un anno sull’altipiano. Dopo essere stato in Spagna a combattere con la brigata Garibaldi, è rientrato a Parigi con Nenni per i funerali dei fratelli Rosselli, il 19 giugno del 1937. Joyce, come si è detto, non ha mai smesso di pensare a lui. In quei lunghi anni è stata in Africa, in Kenia e nel Tanganica, dove ha lavorato come operaia in un’industria per la brillatura del riso. Tornata in Europa, non potendo rientrare in Italia per via dei documenti scaduti, è stata in Svizzera e poi a Parigi dove, da studentessa lavoratrice, si è iscritta alla Sorbona. Incontra Emilio e si rimettono insieme: stavolta per sempre e con l’obiettivo di costruire un tipo nuovo di unione, in cui la famiglia non sia una trappola ma semmai la base più solida anche per fare della robusta militanza. Eppoi una coppia felice non rientra negli schemi della polizia per cui all’epoca «un …