ALESSANDRO ORSINI, “GRAMSCI E TURATI. LE DUE SINISTRE”, Rubbettino

Questo libro si propone di ricostruire i modelli pedagogici alla base delle due principali culture politiche della sinistra, rappresentate da Gramsci e da Turati. Mentre moriva in esilio, Filippo Turati era descritto da Palmiro Togliatti come un uomo spregevole. La sua figura, ricoperta di discredito, è rimasta nell’ombra. Antonio Gramsci, invece, è stato celebrato come uno dei padri nobili della sinistra democratica italiana. La sua riflessione è stata paragonata da Benedetto Croce a un messaggio pedagogico universale di amore e di comprensione verso le ragioni degli avversari. La documentazione esistente è in grado di confermare il giudizio del senso comune e della storiografia dominante? Gramsci educò a rispettare o a disprezzare gli avversari politici? È stato un teorico della pedagogia della tolleranza o dell’intolleranza? Ha tessuto l’elogio dell’ascolto o dell’insulto? E Turati? È stato davvero uno “zero” in fatto di teoria politica, come scrisse Togliatti? Attraverso il metodo dell’analisi culturale comparata, l’autore esplora l’intera opera gramsciana, ponendo a confronto il progetto educativo dei riformisti con quello dei rivoluzionari.   Gramsci                                           /  Turati 1 Chiusura alle idee dell’“altro”      1 Educazione al dialogo 2 Disprezzo degli avversari              2 Rispetto degli avversari 3 Elogio dell’insulto                          3 Condanna dell’insulto 4 Celebrazione della violenza         4 Rifiuto della violenza 5 Intolleranza                                    5 Tolleranza 6 Attacco personale                         6 Rifiuto dell’attacco personale 7 Principio di Autorità                      7 Libertà di critica 8 Sottomissione all’ortodossia       8 Diritto all’eresia di Partito 9 Culto di Lenin                                 9 Rifiuto della cultura leninista 10 Dittatura del partito unico      10 Pluralismo dei partiti SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

ASSEMBLEA COSTITUENTE SEDUTA DEL 26 giugno 1946

Giuseppe Saragat è eletto Presidente dell’Assemblea costituente il 25 giugno 1946, con 401 voti su 468 votanti. Il giorno successivo pronuncia un vibrante discorso di insediamento. Presidente. (Segni di viva attenzione). Onorevoli colleghi! Nel memorabile discorso pronunciato il 9 marzo di quest’anno alla Consulta Nazionale, a chiusura della discussione della legge sull’Assemblea Costituente, il Presidente Vittorio Emanuele Orlando, ringraziando l’Assemblea per le espressioni di affetto da cui si sentiva circondato, le interpretava come un omaggio rivolto non alla sua persona, ma al rappresentante di una generazione che aveva contribuito a creare la storia dello Stato d’ltalia dal principio del secolo sino al 1922. E il Presidente Orlando, commentando il distacco tra quella generazione e la giovane classe politica che sorge, lamentava giustamente la mancanza di quei gradi intermedi che rendono impossibile una recisa contrapposizione tra giovani e vecchi. Nell’ostacolo posto alla continuazione della classe politica il Presidente Orlando ravvisava il più irreparabile forse fra i delitti del fascismo. Nella manifestazione di fiducia dell’Assemblea Costituente verso la mia persona sia permesso a me di ravvisare un omaggio a quella generazione intermedia la cui assenza, come classe politica, si fa duramente sentire nella vita del Paese. È un omaggio verso coloro che, giovani nel 1922, hanno raccolto con le loro deboli forze, ma con una fede stimolata dall’esempio dei loro padri, la fiaccola della libertà e della giustizia. Molti di questi giovani ne sono stati arsi ed è per questo che pochi sono i superstiti: tutti ne sono stati illuminati. Ma voi, onorevoli colleghi, avete anche voluto onorare il rappresentante modesto di un movimento politico che alla difesa dei diritti delle libere assemblee ha offerto l’anima ardente di Filippo Turati e il sangue generoso di Giacomo Matteotti. (Vivi applausi). Infine, col vostro voto avete voluto sottolineare l’apporto decisivo che le classi lavoratrici hanno dato alla sacra causa della libertà della Patria. (Applausi). Se attorno a me si sono raccolti i vostri suffragi e se ho quindi l’immeritato onore di presiedere questa Assemblea, penso anche che ciò si debba al fatto che gli uomini vengono giudicati più per quello che si attende da loro che per quello che sono, più per quello che si crede potranno fare che per quello che già hanno fatto e fanno. Non so se la vostra attesa sarà giustificata; so pero che osserverò in modo assoluto la più scrupolosa obiettività ed imparzialità. Tutore dei diritti di ognuno, richiederò egualmente da ognuno l’adempimento dei suoi,doveri. Altissimi sono i vostri diritti. Voi rappresentate il popolo italiano in virtù di un responso democratico, che è la consacrazione di un quarto di secolo di lotte per la difesa della libertà umana. Le formule giuridiche, in virtù delle quali i liberi comizi sono stati convocati, non sono che la traduzione, nel solenne linguaggio del diritto, di quel più alto diritto umano che ha la muta eloquenza delle sofferenze soffocate delle generazioni, che si scrive col sangue versato per la buona causa, e che la storia, giudice lento perché ha di fronte a se l’eterno, nel giorno segnato dal destino corona con una sentenza irrevocabile. Il 2 giugno è stato il grande giorno del nostro destino. La vittoria della Repubblica è la sanzione di un passato funesto, è la certezza di un avvenire migliore. Ma questa vittoria ha un significato ancora piu alto. Essa rappresenta il patto solenne stretto da tutti gli italiani di rispettare la legalità democratica. In questo patto, che vincola tutte le donne e tutti gli uomini della nostra terra, è il segreto dell’avvenire della Nazione. Senza l’adesione di tutto il popolo ai principi della democrazia politica, non soltanto non è possibile alcun progresso umano, ma le stesse conquiste legateci da secoli di storia sono insidiate e minacciate di rovina. Voi, eletti dal popolo, riuniti in questa Assemblea sovrana, dovete sentire l’immensa dignità della vostra missione. A voi tocca dare un volto alla Repubblica, un’anima alla democrazia, una voce eloquente alla libertà. Dietro a voi sono le sofferenze di milioni di italiani; dinanzi a voi le speranze di tutta la Nazione. Fate che il volto di questa Repubblica sia un volto umano. Ricordatevi che la democrazia non è soltanto un rapporto fra maggioranza e minoranza, non è soltanto un armonico equilibrio di poteri sotto il presidio di quello sovrano della Nazione, ma è soprattutto un problema di rapporti fra uomo e uomo. Dove questi rapporti sono umani, la democrazia esiste; dove sono inumani, essa non è che la maschera di una nuova tirannide. (Applausi). Ecco perché, oltre che sui problemi della struttura politica dello Stato repubblicano, voi vi piegherete su quello della struttura sociale del Paese. Nel grande moto che spinge le classi diseredate a rivendicare un destino meno iniquo voi non vedrete una minaccia per la libertà, ma, al contrario, la forza motrice del progresso, solo che venga disciplinato dalla saggezza dei legislatore e non venga ostacolato dall’egoismo dei ceti privilegiati. (Applausi). Nella Repubblica democratica la libertà politica e la giustizia sociale trovano il terreno su cui possono integrarsi in una sintesi armoniosa. Tutta la vostra saggezza di legislatori sarà quindi orientata alla ricerca della formulazione più efficace atta a tradurre in termini concreti queste esigenze fondamentali di ogni consorzio civile ed a favorirne la pratica realizzazione. Se vi porrete su questo piano, le divergenze ideologiche che possono sussistere tra di voi si concilieranno nell’ambito dei diritti imprescrittibili della persona umana e delle società naturali in cui essa vive. Egualmente la concretezza di questi diritti riceverà possente rilievo dalla loro correlazione con le norme che voi elaborerete intorno ai fondamenti strutturali dello Stato repubblicano, avendo presente che la democrazia si crea nella misura in cui la separazione fra il popolo e l’apparato dei pubblici poteri progressivamente scompare. Ma, oltre all’elaborazione delle leggi fondamentali dello Stato repubblicano, altri doveri vi sovrastano. In primo luogo quello di offrire al Paese, pur nelle necessarie e feconde divergenze, l’esempio della concordia e del più alto civismo. Poiché, più che dalle leggi scritte nei testi fondamentali, la democrazia diviene una realtà vivente ad opera …

AUTONOMIA, UNITA’ E CHIARIFICAZIONE

Tratto dalla relazione indroduttiva al 41° Congresso del PSI, Torino 29 marzo-2 aprile 1978 – Bettino Craxi Abbiamo insistito e insistiamo sulle caratteristiche autonome della nostra azione e sulla natura autonoma, non subalterna, non sussidiaria, del nostro ruolo nel movimento operaio e dei lavoratori, nella sinistra italiana. Senza una nitida e rigorosa affermazione della nostra identità non riusciremo a rovesciare le tendenze negative e a uscire da una crisi che per tanti aspetti ci mortifica e che per altri ci ha indotto a molte riflessioni autocritiche e che però consideriamo tutt’altro che irreversibile. Ricaviamo dalla nostra storia, dalle nostre tradizioni, dalle molteplici esperienze condotte dal nostro Partito nel trentennio della vita repubblicana, i tratti della nostra autonomia, la giustificazione del nostro ruolo, l’individuazione delle nostre prospettive future. Sono i lineamenti di un Partito ancorato al socialismo occidentale per comune origine e per comune tradizione democratica. Un Partito che lotta per cancellare i tratti classisti della società capitalistica e per accelerarne il superamento senza cadere nei vizi e nelle degenerazioni della società burocratica. Siamo in questo senso un Partito progressista e riformatore. Un Partito aperto a tutte le esperienze e a tutti gli apporti che possono approdare al terreno del socialismo nella democrazia e nella libertà. Consideriamo estranei alla realtà e all’accettabilità della trasformazione socialista nel nostro Paese tutti i principali postulati della teoria leninista e del tutto inattuali le implicazioni storiche che ne derivano per tanta parte alla sinistra italiana. La questione non riguarda la rivoluzione bolscevica e ciò che ne è derivato. Riguarda noi ed il nostro socialismo. Né la teoria del potere, né quella dello Stato, né quella dell’economia, né quella del Partito, né quella dell’imperialismo possono indicarci le vie maestre del socialismo nel nostro Paese. Su questo terreno si è sviluppato con grande ricchezza di elaborazione il filo del revisionismo socialista e la critica socialista si è fatta più incalzante. Essa mira a stimolare il processo revisionistico dei comunisti che ristagna. Se esso rimane a metà del guado rischia di impantanarsi nei suoi limiti e nelle sue contraddizioni. La nostra posizione nella sinistra corrisponde ad una idea di unità e di chiarificazione. Abbiamo salutato la tendenza che ha preso il nome di eurocomunismo come un fatto importante e positivo e ne abbiamo accreditato il valore, e sottolineato tutte le potenzialità positive ai fini di una nuova e più compatta realtà della sinistra europea. Assistiamo oggi ad una disarticolazione di questo fenomeno ed alla sua crisi oramai evidente. La improvvisa svolta del Partito comunista francese e la rottura deliberatamente provocata dalla unità delle sinistre con le conseguenze che ne sono derivate e che non erano difficili da prevedersi, risponde ad una logica estranea ad una possibile strategia socialista e della sinistra nell’Europa occidentale e può essere piuttosto collocata in altre logiche. In Francia non sono bastati anni di unità di azione, un programma comune, il vaglio di promettenti prove elettorali ad impedire un ritorno virulento ad un passato di settarismo e di dogmatismo di classico stile internazionalista. La campagna di accuse, di sospetti, di processi all’intenzione, imbastita contro Francois Mitterrand e i compagni socialisti francesi li ha posti in una posizione di grande difficoltà. I compagni francesi si sono difesi, hanno conservato ed anzi accresciuto la loro forza; non hanno potuto evitare lo sfondamento elettorale del blocco conservatore ed il fallimento del disegno alternativo. Ciò introduce un fattore e una difficoltà nuova in quel processo di convergenza tra «eurosocialismo» ed «eurocomunismo» e che era stato auspicato con particolare chiarezza dal segretario del Partito comunista spagnolo Santiago Carrillo quando indicava il movimento socialista occidentale come l’interlocutore principale e indicava una politica di convergenze verso di esso come la tendenza naturale dell’eurocomunismo. Nella nuova situazione si accrescono le responsabilità dei comunisti italiani posti al bivio tra un ennesimo tentativo di unire diverse e contrastanti impostazioni strategiche in una zona grigia in cui prevalgono le ambivalenze e le ambiguità, o riprendere con forza e con convinzione la via della revisione lungo un cammino già del resto illuminato da lucide ed anticipatrici analisi di intellettuali comunisti italiani. L’affermazione del compagno Berlinguer «siamo e resteremo comunisti» è una affermazione puramente retorica. Nessuno chiede di rinnegare le tradizioni o di mettere in causa le denominazioni storiche. Ciò che si chiede è che nella sostanza vada avanti il processo di trasformazione e di accostamento alle impostazioni del socialismo occidentale. Non è del resto una pretesa assurda se devo prestar rilievo a quanto scrive Paolo Spriano nella sua Storia del Partito Comunista Italiano riferendo che Togliatti stesso non escludeva nel ’44 una evoluzione in senso laburistico della esperienza comunista italiana. Noi non intendiamo riaprire il capitolo di aspri conflitti concorrenziali tra socialisti e comunisti anche se non possiamo rinunciare a considerare legittimo e necessario il riequilibrio delle forze nell’ambito della sinistra. Noi siamo spinti a tenere viva e critica un’esigenza di chiarificazione nella convinzione che dal successo di molte delle ragioni che facciamo valere dipende l’avvenire di tutta la sinistra italiana, l’avvenire ed il successo di tutte le forze della riforma e del progresso. Dalla difesa della identità del Partito e dalla vitalità che sapremo imprimere al ruolo che ne deriva dipende in grande misura il successo dell’imponente lavoro che ci aspetta per estendere e consolidare il nostro insediamento nella società, per portare la presenza socialista in una molteplicità di aree sociali e istituzionali nelle quali siamo o assenti totalmente o insufficientemente e male rappresentati. Nella politica di autonomia e di iniziativa del Partito non c’è posto per divagazioni terzaforziste, o per progetti unificazionisti. Abbiamo risposto con rispetto alle esigenze altrui ma in modo negativo a tutte le sollecitazioni che in modo diretto ed indiretto ci sono state indirizzate in questo senso. I problemi della cosiddetta area intermedia non sono omogenei e comunque investono in modo tutt’affatto particolare il Psi, Partito medio ma non intermedio. Siamo certo interessati a frenare lo sviluppo bipolare, attorno ai due maggiori Partiti ma ci proponiamo di farlo radicando ancora più la nostra presenza nel terreno storico e di classe …

FILIPPO TURATI «RIFARE L’ITALIA!»

Discorso pronunziato alla Camera dei Deputati il 26 giugno 1920 sulle comunicazioni del governo (Ministero Giolitti), 1920. dall’introduzione di Aldo G. Ricci all’edizione Talete, 2008 Uno dei testi più importanti della tradizione socialista italiana, ispirato al metodo delle riforme possibili e condivise con i settori più dinamici e aperti del mondo imprenditoriale e dei tecnici, è certamente il famoso discorso pronunciato da Filippo Turati alla Camera il 26 giugno del 1920, un discorso dal titolo quanto mai emblematico e destinato a essere più volte ripreso, «Rifare l’Italia». Il discorso è accompagnato da due testi politicamente importanti e utili per inquadrarlo nel dibattito tra le correnti socialiste del tempo: il primo è l’intervento pronunciato da Turati al convegno di Bologna, nell’ottobre del 1919 (Socialismo e massimalismo), nel quale il leader riformista segna le distanze dalla componente maggioritaria massimalista, che in attesa di una improbabile rivoluzione spontanea condannava il partito all’inazione, e l’altro è il discorso del 19 gennaio 1921 al congresso di Livorno (Socialismo e comunismo), dove Turati saluta con inconfessata soddisfazione l’uscita della frazione comunista dal Partito Socialista. (…) All’indomani della fine del conflitto, Turati è uno dei pochi leader del socialismo italiano a non soffrire del complesso «sovietico». Fare in Italia come in Russia è una parola d’ordine che gli ispira orrore e che continuerà a stigmatizzare negli scritti e nei discorsi, senza curarsi delle reazioni che tali posizioni provocano in una base ormai fortemente suggestionata dal mito dell’Ottobre russo. Negli anni precedenti la guerra, la sua «sintonia asimmetrica» con l’azione politica di Giolitti aveva consentito al movimento operaio di raggiungere una serie di importanti conquiste sociali e normative che il leader liberale di Dronero è ben lieto di favorire, convinto com’è, fin dalle sue prime esperienze politiche, che il miglioramento delle condizioni delle classi lavoratrici e lo sviluppo della scolarizzazione non solo rappresentino in se stesse delle conquiste di civiltà, ma favoriscano alla lunga il consolidamento dello stesso regime democratico-liberale, legando alle istituzioni quelle masse proletarie che solo in minima parte erano state coinvolte nel processo unitario e poi nel consolidamento dell’Italia come Stato moderno. Con questa strategia, l’accordo di fondo di Turati è completo, al di là delle schermaglie d’occasione e dei contrasti spesso più apparenti che reali. Il leader del riformismo (…) non pensa più che a un programma minimo di conquiste sociali debba poi seguirne uno massimo, ovvero la fuoruscita dal sistema capitalista, per usare un termine ancora recentemente usato con gran sussiego da molti maîtres à penser della sinistra italiana. Egli ha messo a fuoco che, come afferma Bernstein, «il movimento è tutto», ovvero quello che conta è la direzione che caratterizza i cambiamenti introdotti dalle riforme (…) Turati non ha fretta di vedere il proletariato italiano, attraverso il suo partito di riferimento, ovvero il partito socialista, approdare alla gestione diretta del potere. (…) Sostituire la borghesia nell’impresa di gestire le contraddizioni, in particolare dell’infuocato dopoguerra, appare a Turati non solo sbagliato, ma pericoloso per il futuro stesso del socialismo, che non può, a suo modo di vedere, diventare il cane da guardia di un capitalismo in difficoltà. In questa prospettiva va inquadrata anche l’incomprensione del Nostro nei confronti del Fascismo montante, che gli fa sottovalutare l’opportunità di sostenere Giolitti nel programma di riforme da lui stesso delineato al momento della formazione del suo ultimo governo. (…) Ma resta convinto che al futuro appuntamento con gli impegni di governo il partito socialista dovrà presentarsi a ranghi compatti, maggioritario e fortemente saldato al movimento sindacale. L’adesione di una minoranza riformista a un governo Giolitti gli sembra un controsenso, ovviamente perché sottovaluta l’impatto politico più che numerico di tale scelta. E’ questo il contesto in cui nasce «Rifare l’Italia». Un contesto di ripetute tentazioni ministeriali, di offerte a mezza bocca e di rifiuti ufficiosi. (…) Di fronte alla rapida caduta di Nitti, per l’improvvida decisione di aumentare il prezzo del pane, e al reincarico a Giolitti, che si presenta alla Camera il 24 giugno, con un discorso prevalentemente improntato al risanamento fiscale, che ha perduto quegli accenti riformatori di ampio respiro che avevano caratterizzato il programma enunciato a Dronero nella campagna elettorale dell’anno precedente, Turati decide che è arrivato il momento di pronunciare l’intervento a cui sta lavorando ormai da diverse settimane, soprattutto per sollecitazione della Kuliscioff. Il discorso del 26 giugno 1920 rappresenta comunque il massimo sforzo del leader del riformismo socialista per dare una risposta concreta ai bisogni di un Paese uscito radicalmente trasformato dai quattro anni di guerra: (…) un paese, soprattutto, che si presenta in preda a una profonda crisi morale e civile, che alterna scioperi privi di contenuti (le polemiche di Turati contro la «scioperomania» sono infinite) a occupazioni di terre e stabilimenti realizzate senza alcuna strategia politica (la fallimentare occupazione delle fabbriche, neutralizzata da Giolitti, sarebbe avvenuta nell’autunno successivo), in attesa di una rivoluzione salvifica che non si sa né chi dovrebbe fare né come potrebbe essere realizzata. «Rifare l’Italia», scritto in poco più di un mese, ma pensato certamente da molto più tempo, vuole essere la risposta riformista a tutto questo. Come è stato detto, non è un programma di legislatura, ma un disegno complessivo di trasformazione del Paese che può essere realizzato solo da una o più generazioni di volenterosi, mobilitati tra imprenditori, tecnici e operai. Il discorso è allo stesso tempo un invito alle forze migliori del mondo liberale (Turati pensa a un impossibile connubio Giolitti-Nitti) perché superino le rivalità e collaborino alla salvezza dell’Italia, ma è anche un sonoro rimprovero al nullismo propositivo del minimalismo socialista, unito all’invito a sostenere quelle forze liberali che fossero in grado di farsi carico delle esigenze del momento. (…) All’appuntamento del 26 giugno 1920, Turati si presenta con un bagaglio di documentazione ragguardevole, accumulata attraverso la lettura di opere di autori stranieri del dopo-guerra destinate in seguito a diventare dei classici ma soprattutto utilizza molte delle conclusioni formulate da Walther Rathenau nel suo saggio «L’economia nuova», scritto nel 1918 e pubblicato in Italia l’anno successivo, in favore di un’economia …

FILIPPO TURATI «SOCIALISMO E MASSIMALISMO»

Discorso tenuto il 7 ottobre 1919 al Congresso socialista di Bologna, ed. dalla Frazione di Concentrazione socialista 1919. “… nella presente situazione italiana, la dittatura del proletariato non può essere che la dittatura di alcuni uomini sopra ed eventualmente contro, la grande maggioranza del proletariato. (…) la miseria, il terrore, la mancanza di ogni libero consenso (basti ricordare che in Russia non esiste libertà di stampa, il diritto di riunione è conculcato, il lavoro è militarizzato) (e i piú presi di mira dalla persecuzione governativa sono i socialisti di tutte le scuole) e infine la pretesa irrazionale di forzare l’evoluzione economica, tutto ciò ha portato e porterà ineluttabilmente lo scoraggiamento di qualsiasi attività produttiva e avverrà questo paradosso: che un paese così vasto, ricco di tutte le risorse, che ha l’enorme vantaggio di non essere tributario dell’estero, che quindi non può essere boicottato, che ha dovizia di miniere, di cereali, di ogni ben di dio, che avrebbe potuto, con sapiente gradualità di provvedimenti, diventare l’antesignano della nuova civiltà, per avergli imposto una rivoluzione ad oltranza per la quale è manifestamente immaturo, dovrà varcare attraverso una infinita odissea di dolori, forse di ritorni verso il passato, e nel miglior caso dovrà soffrire, per l’adattamento necessario al nuovo regime, decenni di patimenti e di povertà, mentre fin d’ora è costretto a creare una immensa macchina militaristica, quale non ha alcun altro Stato, e che è un permanente pericolo per qualunque presente o futura democrazia! Ma, checché sia per essere della Russia, quel che è incontestabile è che le condizioni della Russia non le abbiamo in Italia! In Italia noi possiamo procedere per una via radicalmente diversa, senza passare per quei dolori e per quegli orrori. Ecco perché la teoria della violenza – se anche fosse plausibile in Russia – non si potrebbe applicare in Italia. (…) noi allontaniamo dalla rivoluzione le stesse classi proletarie. Perché è chiaro che, mantenendole nell’aspettazione messianica del miracolo violento, nel quale non credete e pel quale non lavorate se non a chiacchiere, voi le svogliate dal lavoro assiduo e penoso di conquista graduale, che è la sola rivoluzione possibile e fruttuosa. Perché chi aspetta con cieca fede il terno al lotto, non si rimbocca le maniche e non s’industria di prepararsi il pane quotidiano. In altri termini, voi uccidete il socialismo, voi rinunziate all’avvenire del proletariato. Il massimalismo è il nullismo; è la corrente reazionaria del socialismo. Filippo Turati da una raccolta di Nicolino Corrado SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

CRITICA SOCIALE

La rivista “Critica Sociale” venne fondata a Milano il 15 gennaio 1891 da Filippo Turati, come continuazione di “Cuore e critica” (fondata nel 1886 da Arcangelo Ghisleri). Tra il 1891 ed il 1898 la rivista fu testimone della presenza politica e dell’autonomia del socialismo italiano.  Nacque in questo periodo la polemica contro gli anarchici e gli operaisti e nello stesso tempo iniziò l’opera di promozione dell’autonomia nei confronti della sinistra borghese, repubblicana e radicale. Il 1º gennaio 1893 “Critica Sociale”, che aveva pienamente accettato il programma del Partito dei Lavoratori Italiani approvato nell’agosto del 1892 al Congresso di Genova, cambiò il sottotitolo della testata “Rivista di studi sociali, politici e letterari” in “Rivista quindicinale del socialismo scientifico” ed iniziò ad affrontare tutti i gravi problemi pubblici degli anni Novanta (scandali bancari, repressione dei fasci siciliani, guerra di Abissinia, moti popolari per il pane) con articoli di forte denuncia. In occasione dei Moti di Milano, il 1º maggio 1898 la rivista venne sequestrata e quindi chiusa dalle autorità a causa della condanna del suo direttore, Filippo Turati; le uscite ripresero dopo più di un anno, il 1º luglio 1899. La rivista diventò l’espressione della tendenza riformista all’interno del Partito Socialista Italiano. Nota Carlo Lacaita che grazie alla sua rivista, presto riconosciuta come la maggiore palestra di idee e di discussione aperta, di analisi dei problemi italiani e di informazione sulle concrete esperienze europee, Turati esercitò una notevole influenza su larghi ambienti intellettuali. “Critica Sociale” contribuì a formare, come ha scritto Gaetano Arfé, “il primo e più omogeneo quadro dirigente che il partito socialista abbia avuto, quello che si troverà a costituire il nucleo della corrente riformista e, fino al fascismo, lo stato maggiore del movimento operaio”. Vi furono pubblicati scritti di autori come Luigi Einaudi, Friedrich Engels, Gabriele Rosa, Corso Bovio, Giovanni Merloni, Giovanni Montemartini, Claudio Treves, Leonida Bissolati, Carlo Rosselli, Alessandro Levi, Giacomo Matteotti e di molti altri protagonisti del pensiero socialista e dell’azione riformista. Il giurista Sabino Cassese ha messo in risalto che “chi ha letto la sua rivista [di Turati], ha visto quanti pseudonimi erano presenti in calce agli articoli che vi erano contenuti: erano di alti funzionari amministrativi. Quindi si era creato un flusso di conoscenze, un rapporto che andava a beneficio della Pubblica Amministrazione e del corpo politico, che così conosceva i fatti amministrativi”. Tra il 1902 ed il 1913 la rivista affrontò i problemi della scuola, discutendo il ruolo degli insegnanti, la loro organizzazione, l’edilizia scolastica, l’igiene e la refezione scolastica e contestò il bilancio del ministero della guerra. “Critica Sociale” adottò, nel discutere di letteratura, una metodologia critica positivista e marxista e, convinta dell’efficacia del libro, dell’istruzione e delle biblioteche, offrì ai lettori, indifferentemente, i versi sociologici di Pietro Gori accanto alle poesie di Ada Negri e alle pagine di narrativa di Italo Svevo. Dopo la marcia su Roma (28 ottobre 1922) e la presa del potere dei fascisti, “Critica Sociale” venne sottoposta a censure e sequestri. Gli ultimi articoli militanti uscirono all’indomani dell’assassinio di Giacomo Matteotti (10 giugno 1924). Alla fine dell’anno 1925 “Critica Sociale” si rifugiò sul terreno culturale-ideologico, ma viene comunque soppressa con la legge fascista che vietava la stampa d’opposizione. L’ultimo fascicolo, il n. 18-19, riporta la data 16 settembre – 15 ottobre 1926. “Critica Sociale” riprese le pubblicazioni nel 1945 con l’autorizzazione del comando alleato in Italia. La dirigevano Antonio Greppi, il futuro primo sindaco di Milano dopo la Liberazione, e Ugo Guido Mondolfo, che la “ereditò” direttamente da Filippo Turati a Parigi (dove uscì un unico numero per impedire che alcuni esponenti vicini al PCI si impossessassero della testata). Non era una rivista di partito, anche se al primo congresso del PSI dopo la Liberazione (aprile del 1946 a Firenze) “Critica Sociale” presentò una mozione contro la fusione tra comunisti e socialisti. Appoggiando Giuseppe Saragat con un apporto del 14 per cento circa di voti congressuali, diede un contributo che permise a Saragat di vincere il congresso e di proporre un più blando “patto di unità d’azione” tra PSI e PCI. Nel 1947 a Palazzo Barberini, Saragat uscì dal PSI rifiutando la lista unica tra PCI e PSI per il Fronte Popolare, che si stava organizzando per le elezioni politiche del 1948. Da allora la rivista fece riferimento a Giuseppe Faravelli e, poi, a Beonio Brocchieri della sinistra del PSDI di Saragat, scontando un certo isolamento politico che porterà alla crisi della casa editrice durante gli anni ’70. Fu Bettino Craxi, appena eletto segretario del PSI nel 1976, a voler raccogliere le azioni della casa editrice di “Critica Sociale” per impedirne la scomparsa. La rivista sostenne sempre la linea “autonomista” del nuovo leader socialista, impegnandosi in modo particolare sul terreno della solidarietà ai gruppi del dissenso anti-sovietico nei paesi dell’Est europeo. La direzione di Ugoberto Alfassio Grimaldi (1974-81) dette alla rivista un notevole rilancio, caratterizzandola anche con una maggiore apertura verso argomenti culturali. Una nuova interruzione delle pubblicazioni si registrò nel biennio 1992-’94, in seguito allo scioglimento del PSI. “Critica Sociale” riprese le pubblicazioni dal 2000. L’attuale direttore è Ugo Finetti. Nel 2011, in occasione dell’anniversario dei 120 anni dalla sua fondazione (15 gennaio 1891 – 15 gennaio 2011), “Critica Sociale” ottenne il riconoscimento dell’Alto Patronato della Presidenza della Repubblica da parte di Giorgio Napolitano. L’anniversario fu celebrato nel segno della comune radice con il 150 anniversario dell’Unità d’Italia. Sotto questo aspetto, “Critica Sociale” è stata riconosciuta come una fonte preziosa di documentazione del processo di costruzione della società italiana post-unitaria. da una raccolta di Nicolino Corrado SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

ECCO LA COSTELLAZIONE DOMINANTE

Dopo il tentativo di golpe del generale Kornilov e con il mutare brusco dello scenario in Russia, la Conferenza “social-diplomatica” promossa dal Soviet a Stoccolma s’inabissa in un mare di veti incrociati: «Non si può fare a meno di riconoscere che il tentativo è definitivamente fallito», constata Angelica Balabanoff in un taglio basso di prima pagina che appare sull’ADL del 15 settembre 1917 (“Intorno alla mancata conferenza di Stoccolma“). Le ragioni del falli­mento stanno nelle pressioni esercitate dai governi belligeranti sulle delega­zioni “social-patriottiche” dei loro paesi. Le quali, in base ai più diversi calcoli strategici e alle più varie dinamiche politiche interne, non ritengono ancora «giunto il momento di parlare di pace», nota la Balabanoff, con amarezza. Accanto al testo della Dottoressa, un trafiletto a centro pagina (“Fino ad oggi“) s’incarica di squadernare i numeri sanguinosi della guerra. Le perdite umane si attestano a 9.750.000 morti: «Una media cioè di 264.000 al mese, 8.700 al giorno… 5.000.000: ciechi, sordi, muti, monchi di braccia, di gambe. Frutto magnifico, e magnifico testimonio, domani, della civiltà borghese» (ADL 15.9.1917). È il “suicidio dell’Europa” di cui aveva scritto Maksim Gor’kij. E le proporzioni di questo macello, già tutte mostruosamente novecentesche, non può che far apparire surreale la paralisi delle coscienze di cui l’esito della Conferenza di Stoccolma è espressione. Surreale, ma anche coerente con la logica della guerra: «Come conciliare le sincere aspirazioni alla pace dei delegati russi colle mire apertamente imperialiste dei delegati inglesi e collo sfrenato social-imperialismo dei delegati francesi?» (ADL 15.9.1917). La Balabanoff non dimentica Lugano, dove nell’autunno 1914, alla Conferenza pacifista convocata dai socialisti italiani, russi e svizzeri, i compagni francesi si erano presentati in divisa militare. Ora la situazione patisce tuttavia un ulteriore degrado. «Se non è possibile una intesa fra i rappresentanti della stessa coalizione, come sperare che la si possa raggiungere fra rappresentanti di coalizioni divise da fondamentali quistioni d’interesse?» (ADL 15.9.1917). La guerra si approssima al lugubre traguardo dei dieci milioni di morti, ma neppure in paesi tra loro alleati, come la Francia e la Gran Bretagna, la sinistra riesce a individuare un bandolo comune per ritessere la tela della pace. A fronte di ciò gli zimmerwaldiani spingono a tutto gas sulla “rivoluzione mondiale“. È una strategia della deterrenza, potremmo dire, che mira sul breve periodo alla salvaguardia della Rivoluzione russa in pericolo, sul medio periodo a “convincere” le borghesie nazionali che solo la pace potrà evitare un vasto contagio rivoluzionario, e che sul lungo periodo fungerà da banca mondiale del contro-potere operaio. Nell’immediato, in parallelo alla linea della deterrenza panrivoluzionaria, si rafforza il partito filo-bolscevico, cioè la propensione per quella “pace separata” originariamente percepita in aperta contraddizione con l’universalismo zimmerwaldiano. In Russia la situazione precipita ogni giorno di più: «Riga è caduta nelle mani dell’esercito imperialista di Germania. Le truppe del Kaiser marciano verso Pietrogrado. Korniloff, il generalissimo russo che doveva difendere la patria contro l’invasore nemico, tenta il colpo di stato, di sciogliere il governo provvisorio per afferrare nelle sue mani il potere, e marcia verso Pietrogrado alla testa delle sue truppe. Il governo provvisorio si dimette cedendo a Kerenski la dittatura» (ADL 15.9.1917). A questo punto due grandi esponenti del socialismo e del femminismo europeo – non solo Angelica Balabanoff, quindi, ma anche Clara Zetkin – spezzano una lancia a favore di Lenin. In un articolo pubblicato al seguito di quello della Dottoressa Angelica, la Zetkin evidenzia il senso della svolta. Gli interessi della Rivoluzione antizarista (di Febbraio) inducono il grosso degli “internazionalisti” a convergere con la “estrema sinistra” dei bolscevichi, e ora tutti «nonostante alcune divergenze di idee, sono concordi nella lotta di principio contro ogni offensiva e per la pace immediata» (ADL 15.9.1917). Dopo l’Offensiva Kerenskij, la formula vincente è ora “pace immediata”, in rima neppur tanto occulta con la “pace separata” che si prometterà a piene mani nei proclami d’autunno per gli operai e i soldati del Soviet di Pietroburgo e che, dopo la presa del Palazzo d’Inverno, troverà attuazione a Brest-Litovsk, nel trattato del febbraio 1918 stipulato tra la Russia e gli Imperi Centrali. D’altronde – argomenta la redazione in un fondo dal titolo “Il delitto del social-patriottismo in Russia” – siamo giunti al momento delle scelte: «Germania e Russia di fronte. Kerensky e Korniloff petto a petto. Invasione straniera e guerra civile in patria. Ecco il quadro. Disordine nei servizi pubblici, scarsità di viveri, situazione economica minacciosa. Ecco il quadro completato.» (ADL 15.9.1917). Le “divergenze” di chi, come Rosa Luxemburg, vede il leninismo instradarsi irreversibilmente nella trappola di una “dittatura sul proletariato“, finiscono in secondo piano, insieme alla parola d’ordine della “pace universale“. Dopo l’Offensiva Kerenskij, la formula vincente è ora “pace immediata“, in rima neppur tanto occulta con la “pace separata” che si prometterà a piene mani nei proclami d’autunno per gli operai e i soldati del Soviet di Pietroburgo e che, dopo la presa del Palazzo d’Inverno, troverà attuazione a Brest-Litovsk, nel trattato del febbraio 1918 stipulato tra la Russia e gli Imperi Centrali. Il testo redazionale, non firmato (e quindi attribuibile al direttore Francesco Misiano), evidenzia il punto di saldatura della strategia zimmerwaldiana con la centralità della Rivoluzione russa (di Febbraio): «I gazzettieri di tutto il mondo al servizio delle borghesie ve lo dicono chiaro e netto (…) La voce borghese, impaurita della rivoluzione russa, preoccupata d’uno sviluppo epidemico in tutti gli altri paesi (…) la voce borghese, anche quella dell’Intesa, non nasconde le sue gioconde soddisfazioni nell’annunziare l’avanzata tedesca da un lato, quella di Korniloff dall’altro e in costui, in questo traditore della patria e della rivoluzione, pone tutte le sue speranze. E si comprende: per la borghesia dell’Intesa, la Germania è un pericolo, è un nemico. Ma la rivoluzione è un pericolo di gran lunga maggiore» (ADL 15.9.1917). Ed ecco la costellazione dominante del secolo breve – la “rivoluzione conservatrice” in traiettoria di collisione con la “rivoluzione mondiale” – eccola che si staglia già all’orizzonte del cielo notturno. Presiederà allo scatenamento della Seconda guerra mondiale. Ma questo “dopo”, perché il suo primo …

UN SIMBOLO, UNA STORIA, UNA MISSIONE

C’era una volta un simbolo che ha accompagnato la storia del Novecento e, in Italia ha sempre contraddistinto le lotte dei lavoratori, le loro conquiste in campo sociale e civile, la difesa della democrazia, sin dalla nascita: con la Resistenza e la Costituzione. Quel simbolo fu adottato, per la prima volta, dal Partito Socialista che, anche grazie ad esso, nel 1919, raggiunse il massimo dei consensi mai raggiunti in Italia. Purtroppo ciò non bastò ad arginare la reazione clerical-fascista, anzi, la scatenò fino al punto che alla fine venne vietato, come quello di ogni altro simbolo di partito, e come la democrazia stessa che, in Italia, venne sepolta da venti anni di dittatura e da tre guerre rovinose, l’ultima delle quali ridusse il nostro Paese in macerie, portandoci ad avere una sovranità limitatissima. Ciò che ci impedì di metterci seduti e di farci dettare la Costituzione da chi, pur liberandola, invase l’Italia, fu la lotta di liberazione: la Resistenza fatta, nella maggior parte dei casi, anche in nome di quel simbolo, da brigate partigiane che pagarono il tributo più alto, in termini di sangue e di morti, per la riconquista della libertà. Quel simbolo, per più di 40 anni, è stato quello della sinistra e dell’opposizione alla continuità di un regime clericale, in cui è perdurata la collusione tra mafie, clientele e corruzione. In nome di quel simbolo, della tradizione e dei valori che esso rappresentava, sono stati varati lo Statuto dei Lavoratori, la scuola media unica, la nazionalizzazione dei servizi essenziali, il divorzio, è stato combattuto il terrorismo, è stata combattuta fino al martirio la mafia, si è difeso il potere d’acquisto dei lavoratori, si sono svolte lotte decisive, in campo nazionale ed internazionale, contro la riduzione della libertà e contro l’umiliazione della giustizia sociale. Ad ammainare per primi quella bandiera furono i socialisti di Craxi, in nome di un socialismo riformista che è penosamente affondato, pur nel suo tentativo, a tratti anche riuscito, di modernizzare sul piano economico e sociale l’Italia, di accreditarsi come partito di governo, nelle corruttele e negli scandali, forse meno eclatanti di quelli odierni, ma sicuramente non meno rovinosi per una intera storia e per una identità condivisa nelle lotte per una democrazia socialmente avanzata. Sarà per l’ironia della sorte, oppure per una vendetta del destino, ma da quando i socialisti hanno abbandonato quel simbolo, sono risultati sempre meno credibili, sempre più minoritari e sempre più dispersi, fino all’insignificanza attuale. Stessa sorte, mutatis mutandis, è accaduta a quello che è stato a lungo il partito che ha esaltato maggiormente quel simbolo, durante gli anni della Resistenza, della stagione Costituente e dell’opposizione democratica all’unico partito legittimato a governare da un mondo bipolare, in cui le sovranità degli stati erano state già decise dopo la guerra a tavolino, una volta per tutte. Quel simbolo, che fu del partito che, più di altri, seppe denunciare sul nascere il degenerare della politica in affarismo autoreferenziale, in cerca anch’esso di potere a tutti i costi, pur non essendo esente da compromessi e da assetti consociativi ed autoreferenziali, è stato anch’esso abbandonato quando quello stesso partito decise di cessare di esistere e di realizzare un connubio definitivo con coloro a cui, da sempre, si era opposto, ma con i quali, aveva pur tuttavia cercato un compromesso di potere, per altro fallito con la morte di Moro. La fine di quel simbolo nel Partito Comunista, ha decretato, di nome e di fatto, la fine del tentativo di realizzare un progetto di riformismo rivoluzionario (così lo chiamava Lombardi che mai avrebbe rinunciato a quel simbolo, pur essendo di estrazione azionista), tale da scardinare alla radice i meccanismi con cui l’Italia è tenuta serva umile ed obbediente, mediate una selezione spietata dei suoi quadri dirigenti, in nome del servilismo verso un sistema endemicamente corrotto ed inefficiente. La sovranità di un grande paese, dalle immense risorse cultuali e civili, infatti può essere limitata fino ad annullarla, solo quando si forma e di promuove una classe dirigente di ignoranti, di corrotti, di ricchi esecutori di ordini stabiliti per impedire che, già sul nascere, emergano forze e risorse nuove, tali da cambiare l’assetto dell’Italia. Quando qualche intellettuale cosciente ed organico, come Pasolini, sfugge a questa tattica preventiva o quando qualche magistrato come Falcone e Borsellino riesce a smascherare il perverso ed endemico livello di collusione raggiunto con le stesse istituzioni dello Stato, allora li si elimina senza alcuno scrupolo, né per loro né per gli eventuali “danni collaterali”. La perversa mutazione antropologica che ha trasformato un popolo non ancora prostrato ed avvilito dal clerical-fascismo in una massa di atomi umani che girano prevalentemente intorno ad identità virtuali, suscitando solo reazioni a catena mediatiche, buone solo per gli uffici di statistica e pubblicitari, per incrementare le loro strategie di vendita e il loro profitto, è coincisa con quella di un partito che, da fiero oppositore ed assertore di una imprescindibile questione morale, è divenuto, miseramente e nei fatti contingenti, uno dei massimi rappresentanti di un trasformismo che affonda squallidamente in una palude di corruttele ed immoralità. Ad opporglisi vi è un movimento, che, pur mettendo al primo posto l’incorruttibilità dei suoi membri, e specialmente dei suoi rappresentanti parlamentari, stenta a mettere in primo piano oltre alla questione morale che è pur sacrosanta, quella sociale, altrettanto decisiva ed indissolubile rispetto ad essa. Il movimento grillino appare infatti piuttosto disarticolato, se non distante, rispetto a questioni come la tutela dei diritti nel campo del lavoro, le lotte sindacali, gli scioperi e, più in generale, ad una alternativa di sistema rispetto agli assetti in cui il turbocapitalismo oggi tende ad affermarsi. C’era dunque una volta un simbolo che rappresentava anni fa tutto questo: la falce e martello, buttata quella, purtroppo, il gorgo in cui antichi e consolidati valori sono stati inghiottiti e “rottamati“, si è fatto sempre più rovinoso e veloce. E’ singolare il fatto che la sua ultima apparizione risalga, sul piano internazionale, ad una visita del Papa in Bolivia, quando gli fu offerto un crocefisso con l’immagine …

SE E’ NECESSARIO SI MUORE CON LA SEMPLICITA’ DI UN GRAMSCI

Carlo Rosselli commemora Antonio Gramsci il 23 maggio 1937 a Parigi Il 27 aprile 1937 Antonio Gramsci moriva a Roma, vittima dei duri anni di prigione fascista, diciassette giorni dopo questo discorso Carlo e Nello Rosselli furono uccisi in Francia su mandato di Mussolini. Gramsci e Mussolini: quale contrapposizione tra di loro! Non solo di destino e di fede politica, ma di tempra morale. Sono due mondi che si contrappongono, due concezioni antitetiche della vita e dell’uomo. L’uno, Mussolini, esteriore, irrazionale, improvvisatore, demagogo, avventuriero, traditore dell’ideale della sua giovinezza, trionfante sulle piazze, con tutta una schiera di poliziotti per salvarlo dall’odio del popolo. L’altro, Gramsci, intimo, riservato, razionale, severo, nemico della retorica e di ogni tipo di faciloneria, fedele alla classe operaia nella buona come nella cattiva sorte, agonizzante in una cella con una schiera di poliziotti per sottrarlo alla solidarietà, all’amore del popolo. Per l’uno niente vale se non il successo, niente conta se non la forza. Purché si arrivi al vertice del potere, purché si domini, ogni mezzo è buono. Le idee, i principi, gli uomini non sono che mezzi per l’affermazione del proprio io, strumenti del successo individuale. Per l’altro al contrario niente vale se non la coerenza, la fedeltà a un ideale, a una causa che vive per sé medesima, indipendentemente dal successo, dall’interesse della propria persona; tutto è in lui ispirato da questo universalismo, da questo distacco che è proprio degli esseri superiori, nei quali il sociale prevale sull’individuale, l’altruismo e l’umano sull’egoismo e la bestia. L’ideale lo si serve, non ci si serve di esso. E, se necessario, si muore per esso, con la semplicità di un Gramsci, piuttosto che continuare a vivere perdendo la ragione di vivere. Chi dei due vincerà ? Non c’è che da tornare alla storia, alla vostra storia francese. Le dittature passano, i popoli restano. La libertà finirà sempre per trionfare. Centinaia, migliaia di giovani, formatisi alla scuola di Gramsci, di Gobetti, di Matteotti, riempiono oggi le prigioni e le isole d’Italia. Una opposizione nuova, una Italia nuova è in procinto, silenziosamente, di sostituirsi alla vecchia. Ciò che impressiona è la sua semplicità, la sua calma. Giovani, soprattutto operai, intellettuali partecipano alla lotta clandestina sapendo che un giorno la polizia verrà e li arresterà. Dopo uno, due, tre anni di isolamento, davanti al tribunale speciale. Nessuno parlerà di essi. Spariranno nel gorgo, entreranno nella grande legione dei precursori. In prigione, studieranno, divideranno fraternamente il poco di vettovaglie che l’amministrazione fornisce. Quando usciranno, ricominceranno. Qualche giorno fa il tribunale speciale ha condannato per la seconda volta un giovane compagno di nome Scala. Egli era stato arrestato una prima volta come studente, con altri studenti e condannato a cinque anni. Questa volta è stato condannato a dodici anni. E con lui c’erano degli operai. Il legame storico tra proletariato e intellettuali è fatto. E’ questa nuova opposizione, questa nuova Italia che vincerà finalmente il fascismo, che noi vi domandiamo di conoscere, di appoggiare, di difendere, compagni di Francia. Essa lotta non soltanto per la libertà d’Italia, essa lotta per la libertà e per la pace del mondo. Essa muore in prigione, essa muore, armi in mano, in Spagna. Ma essa vivrà domani, essa vincerà domani, quando sulle rovine del fascismo, sorgerà il mondo nuovo sognato da Gramsci. Fonte: ipensieridiprotagora SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

ROMA COSI’ NON L’AVEVO MAI VISTA». PASOLINI RACCONTA DI VITTORIO

“Non ho mai visto gente così, a Roma. Mi sembra di essere in un’altra città. Umilmente dimostrano quale sia la forza della coscienza. Dimostrano che la storia non ha mai soste”. “Salgo da Porta Pia, piano e un poco svogliato. L’atmosfera è com’è ai margini degli avvenimenti pubblici: tempestosa, senza colore e quasi senza suono. Cominciano a fermarsi i primi autobus, le automobili, isteriche, qua e là, protestano con angosciosi e brevi suoni di clacson. Guardo la gente, che va verso il Corso d’Italia, come me, o che resta lì, a Porta Pia: dei giovani che non distinguo bene si sono arrampicati sul monumento al bersagliere, lasciando sotto il piedistallo una frotta di motori. Ci sono soprattutto uomini anziani, operai e impiegati, e molte donne, umili e non giovani.C’è un vento magro di autunno, con una luce settentrionale, bianca e confusa. E un grande silenzio, che i rumori, attutiti e come laceri del traffico, rendono più strano. Ormai di qua e di là del Corso d’Italia le ali della folla sono fitte: nel centro della strada passano reparti di polizia: se ne vanno come inesistenti. Non c’è inimicizia tra loro e la folla. Tutto pare come sospeso, rimandato: anche io mi ritrovo solo con gli occhi, e come senza cuore, in pura attesa. Ma intanto attraverso gli occhi, il cuore si riempie.Non ho mai visto gente così, a Roma. Mi sembra di essere in un’altra città. Il Corso d’Italia è in curva, sotto le mura: e la folla che si assiepa ai margini è sconfinata. Un vecchietto si guarda intorno, intimidito, e dice a un suo compagno, che gli è accanto silenzioso: “Vengono spontanei….”. E guarda, umile, la folla degli uguali a lui. Vado ancora un poco avanti, sul largo marciapiede. Come vedo uno spiraglio, mi fermo, sotto un albero, mezzo spoglio, ormai, ma ancora pieno dell’estate romana che non vuol morire mai. Due uomini, non due ragazzi, vi si sono arrampicati, e stanno a cavalcioni dei rami in silenzio, con sotto, appoggiate al tronco, le loro biciclette. Passa di lì un giovanotto, un baldo giovanotto della campagna, e, col suo accento greve, avvicinandosi all’albero e guardando in alto pieno di speranza, dice: “Compagno, me dai na mano?”. Uno dei due sull’albero, in silenzio, piano piano, lo aiuta a salire. Davanti a me ci sono quattro o cinque uomini sui quaranta o cinquant’anni, operai, qualcuno con la moglie, che se ne sta un po’ in disparte, raccolta, quasi i funerali di Di Vittorio fossero una cosa che riguardasse soprattutto gli uomini. Cominciano in silenzio ad avvicinarsi le corone: una folla che passa attraverso la folla, sterminate l’una e l’altra. Migliaia e migliaia di uomini e di donne, quasi tutti vestiti con abiti che non sono di lavoro, ma neanche quelli buoni, della festa: gli abiti che indossano la sera, dopo essersi lavati dall’unto o dal fumo, per scendere in strada, sulla piazzetta. Non si vedono stracci, né i maglioni o i calzoni dell’eleganza romana della periferia. Tutti hanno facce forti, oneste, cotte dalla fatica e dagli stenti. Per me, è la prima volta che Roma si presenta sotto questa luce. Rovesciati qui, dal silenzio che ne avvolge le esistenze, che pure sono la parte più grande della città, umilmente dimostrano quale sia la forza della coscienza. Dimostrano che la storia non ha mai soste. Il romano anarchico, scettico, scioperato, leggero ha già acquisito questo volto, questa durezza, questa umile certezza. Io non so dire quanta parte abbia avuto, in questa evoluzione, l’uomo il cui corpo viene portato oggi al cimitero. Penso grandissima se questi uomini lo sentono con tanto spontaneo e sconcertante affetto. Penso che certo non c’è bisogno che nessuno glielo dica, che hanno perduto un fratello: tanto sono pieni di muta, disperata gratitudine. Passa la banda, passano altre corone, a decine e decine portate da operai, operaie, ragazzi. Ecco il feretro: molte braccia col pugno chiuso si tendono a salutare Di Vittorio, in un silenzio pieno come di un interno, accorante frastuono. Anche gli uomini che sono davanti a me, a uno a uno, alzano il braccio, a fatica, come se il pugno dovesse reggere un peso insopportabile, e restano così, con quel braccio teso in avanti, quasi ad afferrare, a trattenere qualcosa che loro stessi non sanno, una vita di lotta e di lavoro, la loro vita e quella del compagno che se ne va. Guardo quelle schiene un po’ deformate dalla fatica, sotto i panni quasi festivi, quelle spalle massicce, quei colli nodosi; sono uomini induriti da una infanzia abbandonata a se stessa, da un precoce lavoro, dalle continue difficoltà del sopravvivere, dalla rozzezza di un’esistenza ridotta ai puro pratico, e spesso solo all’animale, dalla corruzione dei quartieri dove vivono. Incalliti dappertutto. Ma come il feretro è appena passato, e le braccia tese s’abbassano, vedo dal loro atteggiamento che qualcosa accade dentro di loro. Uno, davanti a me, piega un poco la testa da una parte: vedo la guancia lunga, nera di barba e il pomello rosso. La pelle gli si contrae, come in uno spasimo: piange, come un bambino. Guardo anche gli altri. Piangono, con una smorfia di dolore disperato. Non si curano né di nascondere né di asciugare le lacrime di cui hanno pieni gli occhi”. «Vie nuove», n. 45, 16 novembre 1957» SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it