SOLO UNA CULTURA LAICA E SOCIALISTA PUO’ FAR SUPERARE LO STATO ATTUALE DI CONFUSIONE

“Sono oltre 20 anni che nel nostro paese la voce socialista non ha più la forza di una presenza sociale, culturale, e politica quale quella che abbiamo conosciuto. Tra le varie conseguenze c’è anche quella per cui dell’esistenza di una storia, di un pensiero socialista si è persa la memoria. Le nuove generazioni dovrebbero essere prese da una strana curiosità storica per – se non condividere – ma almeno conoscere questa storia. E questo è già un problema negativo che molti tendono coscientemente ad alimentare. Ma occorre aggiungere che i non pochi tentativi di correggere questa deriva, non sono stati e non sono tuttora, all’altezza di questa situazione. E tanto per evitare di cercare motivazioni poco convincenti di questa storia, sembra che vada ricordato come sia vero che esistono difficoltà del movimento socialista anche in altri paesi a noi confrontabili, ma non nei termini in cui la possiamo misurare da noi: la situazione italiana mi sembra del tutto anomala. Il fatto è che mentre tutti stanno festeggiando i 28 anni dalla caduta del muro, da noi si dovrebbe commemorare anche i 25 anni dalla chiusura del socialismo, cosa che non mi sembra ne banale e nemmeno rintracciabile in altri paesi. Ma di questo non si parla nemmeno tra noi.” “In effetti i due eventi – pur se non confrontabili sul piano storico – sono molto interconnessi nel senso che mentre dal primo evento si poteva immaginare che si potesse – tra l’altro – porre fine ad un lungo dibattito a sinistra con il riconoscimento sul campo delle ragioni del movimento socialista, in quello stesso momento si pensò bene di trasformare il PSI in un attore politico anticipatore di quei movimenti personali che avrebbero contrassegnato l’organizzazione politica nell’Italia della seconda repubblica, con tutte le logiche conseguenti anche sul piano etico, oltre che democratico, ma che con il socialismo hanno ben poca a che fare. Paradossalmente nel momento in cui i socialisti potevano finalmente dire di aver vinto, pensarono bene di occuparsi d’altro. Tutto questo offrì il destro agli ex comunisti per concludere che se era vero che il comunismo era morto, la socialdemocrazia stava molto male, scambiando – non so con quanta buona fede – il caso Craxi, opportunamente alimentato, ma non certo privo di colpe pesanti, con il movimento socialista. La conclusione logica di stampo liberista, le vediamo oggi al Governo, è il risultato di quelle vicende e della soluzione elaborata secondo il modello, senza storia e senza memoria, in stile “veltroniano”. Il punto di forza di questo modello sta nel fatto di avere sposato la teoria secondo la quale un partito di sinistra potrà andare al governo solo se si espande al centro e a destra. Una specie di canto delle sirena per tutti gli opportunismi, le approssimazione e quant’altro. Un’altra anomalia italiota sulla quale si potrebbe chiosare nel senso che in Italia una sinistra sarà al governo solo quando non sarà più tale. Il colmo dell’ipocrisia sembra si possa rintracciare nelle recenti commemorazioni di Berlinguer, assunto, pur con varie titubanze, come teorico dell’attuale compromesso storico e padre di questa seconda o terza repubblica. Una vittoria che probabilmente ora Berlinguer si guarderebbe bene dal condividere. Con il che noi dovremmo trovare una conferma per quella alternativa di sinistra, sconfitta sul campo ma che, oggi, dovremmo non commemorare, ma riprendere a approfondire. Potremmo concludere che per il bene del Paese siamo disponibili ad assumerci questo ruolo di testimoni gloriosi ma superati di una storia che ci ha lasciato indietro. Un sacrificio pesante, ma in cambio di una valore elevato. Purtroppo non è così perché tra le varie anomalie di questo Paese c’è, da un tempo altrettanto lungo, anche quella di una crisi economica, sociale e democratica che non è quella internazionale, ma è una crisi tutta nostra. Una crisi che ci condanna ad uno sviluppo costantemente inferiore a quello degli altri paesi avanzati, una crisi che non a caso è stata chiamata “un declino”. Una crisi che sappiamo essere complessa e strutturale o, come ormai si riconosce, “culturale”. E anche volendo, non è possibile separare queste due anomalie: l’eliminazione del pensiero socialista e la crisi culturale del Paese. Potremmo intanto verificare se su queste doppie e connesse anomalie siamo in linea generale d’accordo. Come, dunque, uscire da questa situazione è la questione che dovremmo affrontare ma che attualmente non sembra che abbia ancora una linea maestra d’uscita. Forse dovremmo mettere giù alcuni punti e incominciare a scambiarci delle libere riflessioni, costruire tra di noi una specie di Agorà. Ma purtroppo i tempi e le scadenze delle crisi non sono favorevoli ad una ipotesi del genere. Forse potremmo costituire un “sito” Agorà, critico verso tutte le scemenze che circolano e verso quei linguaggi che pensano di compensare la leggerezza del pensiero con la pesantezza delle parole. Tuttavia non credo sia utile spendere le nostre energie per chiosare le vicende politiche quotidiane, sarebbe una forma di autoesclusione senza nessun compenso. Dovremmo pensare di porre noi delle questioni intorno alle quali richiamare l’attenzione e un impegno sempre più diffuso, non come cattedre personali ma come visione di una società che come dice il titolo di oggi è: “più libera, giusta e solidale”. Penso ad esempio alle questioni del costo della politica nella versione classista per cui può essere realizzata in proporzione ai redditi disponibili, alle questioni della informazione che fa il paio con quella precedente, alle questioni della incompatibilità tra una crisi sociale drammatica e un distribuzione della ricchezza ineguale quale quella in atto, ai ritardi ormai storici del nostro sistema produttivo, alla assenza di ogni visione macroeconomica per il nostro Paese, alla mancanza di una seria politica industriale, alla condizione nella quale versa la formazione e la ricerca. Tutto questo certo non per sottovalutare la dimensione internazionale della crisi entro la quale si trova anche il nostro paese. C’è, infine, un compito a cui – sarà per presunzione – solo una cultura laica e socialista può mettere mano, ed è quello di superare lo stato di confusione con cui la cultura …

EVVIVA TORINO!

Le agitazioni di Torino dell’agosto 1917, alle quali è dedicato l’edito­riale sulla prima pagina dell’8 settembre di quell’anno, rivelano il loro senso storico non soltanto in anticipazione degli sviluppi a venire. Esse emergono anche come effetti rappresentativi di quanto già è accaduto o sta accadendo. La Rivoluzione russa di Febbraio ha incarnato il primo esempio di trasformazione della “guerra imperialista” in “lotta di classe”. È la via della pace, della giustizia e delle libertà democratiche che gli zimmerwaldiani addi­tano al mondo con lo scopo di fermare l’immane massacro bellico. Il punto, però, è che la Rivoluzione non potrà sopravvivere e verrà cer­ta­mente soffocata. Sempreché essa non si estenda. Solo una “rivoluzione mondiale” sarebbe in grado di salvaguardare le conquiste democratiche della nuova Russia ed evitare che si consumi il “suicidio dell’Europa” di cui scrive Maksim Gor’kij. In effetti, questo “suicidio dell’Europa” sembra impattarsi sull’onda crescente dell’opposizione proletaria alla guerra. Dapprima questa aleg­gia “solo” in forma di conflitto sociale, poi si abbatte nel 1917 sull’as­set­to statuale della Russia, quindi tracima nel 1918 investendo la Ger­mania guglielmina e l’Austria-Ungheria, mentre le fondamenta del­l’Im­pero ottomano sono anch’esse ormai irreparabilmente lesionate; e la spal­lata finale seguirà nel 1922 per opera di Kemal Atatürk, al quale guarda con attenzione il Mussolini della Marcia su Roma. Dunque, il primo conflitto mondiale partorisce tre rivoluzioni socialdemocratiche, di cui una cancellata dalla prima rivoluzione comunista, e poi una sequenza di “rivoluzioni conservatrici“, tentate o riuscite. Meglio sarebbe stato per tutti se le lancette della storia avessero in­dugiato più a lungo sulla posizione socialdemocratica. Che, invece, questa viene soverchiata dalla “dialettica” tra opposti totalitarismi. E alla fine saranno le “rivoluzioni conservatrici” a formare la vasta schiera – bian­ca, nera e bruna – che, al passo dell’oca, riprenderà la marcia verso una guerra ancor più immane della Grande guerra. Dunque, la catastrofe finale, all’anno zero 1945, discende dal 1917 in modo quasi diretto. Ed è breve, in effetti, la finestra di possibilità storica nella quale, dopo il Febbraio russo, il “suicidio del­l’Eu­ropa” sa­rebbe stato ancora scongiurabile. Ma in quell’estate infuocata del 1917 quanto si potevano già pre­ve­dere gli inauditi sviluppi del “sui­cidio” che verrà? La Commissione Socialista Internazionale (CSI) riunita a Stoccolma si limita a con­sta­tare, con allarmata preoccupazione, il regresso politico pietroburghese e dirama un documento – La rivoluzione russa in pericolo! – aggior­na­to alla metà di agosto, mentre le cose evolvono ormai di gior­no in giorno, di ora in ora. «Il 16 di agosto i ministri borghesi uscirono dal governo e i lavora­tori e i soldati rivoluzionari di Pietroburgo (…) scesero in piazza al grido: “Il potere deve passare al ‘Soviet’”.» Nelle piazze agenti della contro-rivoluzione provocano scontri sanguinosi fornendo al Governo il pretesto «per mobilizzare contro i dimostranti l’artiglieria e truppe fatte venire appositamente dal fronte, per scatenare una carneficina nella classe lavoratrice, per sopprimere le organizzazioni ed i giornali rivoluzionari». Lo scopo finale di tutto ciò, secondo la Commissione di Stoccolma, sarebbe l’instaurazione di una «dittatura del contro-rivoluzionario piccolo-borghese Kerensky» (ADL 8.9.1917). Ma l’ondivago Kerenskij, dopo aver subito per qualche setti­ma­na – nei palazzi, nelle piazze e nelle caserme – l’iniziativa del ge­ne­rale “bianco” Kornilov, non si accorda con questi né instaura una propria ditta­tu­ra contro-rivoluzionaria, ma denuncia il tentato golpe, dando per al­tro l’ordine di liberare i bolscevichi e alimentando così la formazione politico-militare delle “Guardie Rosse” nascenti. Intanto, sul “campo d’onore” dei morti e dei feriti di una guerra apparentemente interminabile, e di una guerra civile incipiente, aleggia la questione che segue: «Proletari! Compagni! Rispondete al quesito dei rivoluzionari russi: “Verrà la guerra uccisa dalla rivoluzione o la rivoluzione dalla guerra?” Dalla risposta che i proletari di tutti i paesi daranno a questo quesito, dipende non solo il destino della rivoluzione russa.» (ADL 8.9.1917). Tutti i massimalisti, di tutte le coloriture, riprendono allora di gran lena a propagandare l’idea di una “rivoluzione mondiale“, idea che appare ora, dopo la caduta dello zarismo, non più totalmente utopistica, e che si offre, anzi, come l’unica strategia idonea alla salvaguardia delle conquiste rivoluzionarie di Pietrogrado. Ma i leni­ni­sti, come risposta alla bruciante interpella­zione degli eventi, nascondono un asso nella manica: la “pace sepa­rata“. E in fondo non era proprio questa la finalità per cui il Kaiser aveva consentito al leader bolscevico esule a Zurigo di rientrare così tempestivamente in pa­tria? E non era per lo stesso scopo che Berlino sosteneva ora Vla­di­mir Il’ič Ul’janov senza troppo lesinare sui mezzi? Una campagna di Verbrüderung in grande stile viene mes­sa in atto dagli stati maggiori degli Imperi Centrali verso i militari russi. Ufficiali e membri dei servizi segreti tedeschi regalano a “Ivan” sigarette, generi ali­men­tari, alcolici e superalcolici in gran copia. Ovunque se ne presenti l’occasione, “fraternizzano” con i soldati russi affinché questi mangino e bevano e fumino e ballino e cantino, ribellandosi ai loro superiori Fonte: L’Avvenire dei Lavoratori SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

COSI’ I GIORNALISTI FECERO I KILLER DELLA PRIMA REPUBBLICA

di Piero Sansonetti La grande alleanza tra media e pm affondò un intero sistema politico La Prima Repubblica era una cosa buona? Chi l’ha uccisa? Pierluigi Battista ha scritto un articolo sulla “Lettura” ( il supplemento domenicale del “Corriere della Sera”) nel quale rimpiange quel periodo della storia recente del nostro paese, che fu il periodo del grande sviluppo economico e della affermazione della democrazia. E ne esalta molti aspetti positivi. Ieri Emanuele Macaluso, in uno scritto che abbiamo pubblicato sul Dubbio, ha fatto osservare che negli anni nei quali la prima Repubblica fu liquidata dall’inchiesta “Mani Pulite” i giornali certamente non la difesero. Vorrei andare un pochino oltre la giusta affermazione di Macaluso ( che è stato tra i dirigenti più importanti di quella fase della vita repubblicana). Credo che i giornali e i giornalisti svolsero il ruolo di killer del sistema dei partiti e quindi della prima Repubblica. Assumendosi l’incarico di demolire una parte della Costituzione repubblicana, e cioè quella che delineava un sistema democratico forte e fondato sulla struttura dei partiti e dei sindacati. ( Curioso notare che oggi quelli che ritengono intoccabile la Costituzione repubblicana sono o gli stessi o gli eredi di coloro che la demolirono 25 anni fa). I giornali e i giornalisti presero su di se, consapevolmente e baldanzosamente, una responsabilità diretta e macroscopica. Guidando la cacciata dei partiti dal potere politico, spianando la strada alla magistratura, e costruendo le basi materiali e teoriche per il giustizialismo, e cioè per quella ideologia robusta che – dall’inizio degli ani novanta – diventò ( ed è ancora) l’ideologia nazionale, sostituendo l’ideologia dell’antifascismo, che nel primo mezzo secolo del dopoguerra aveva costituito l’elemento unificante dello spirito pubblico nazionale. Cosa fecero i giornali e i giornalisti? Usarono le inchieste della magistratura come artiglieria per sparare sul quartier generale. Decisero, con uso largo di grandi mezzi, di descrivere il Palazzo della politica come un luogo ignobile di ruberie e sotterfugi, abitato esclusivamente da malfattori e lestofanti. E subito dopo assunsero il ruolo di guida del paese, che era stato abbandonato dalla politica in fuga e che non poteva essere raccolto direttamente dai magistrati, modificando completamente la propria funzione intellettuale e civile, e preparandosi a partecipare al nuovo potere politico. Il disegno non riuscì del tutto perché quando la prima Repubblica sprofondò definitivamente, prima con un plebiscito che abolì la legge elettorale e quindici giorni dopo con il linciaggio in piazza di Bettino Craxi ( 18 e 30 aprile 1993), cioè con due strumenti tipici dell’insurrezione, ci fu la reazione ( imprevista) di un pezzo minoritario ma assai rampante della borghesia, guidato da Silvio Berlusconi, che deviò la rotta che giornali, magistrati e poteri economici ( soprattutto quelli che si radunavano attorno alla famiglia Agnelli) avevano previsto. E’ nata così, un po’ sbilenca, la seconda repubblica. In quella alleanza coi magistrati e la grande finanza, il compito dei giornalisti fu decisivo, e il modo nel quale si organizzarono molto ben studiato e definito. E’ vero che alla fine gli altri due membri dell’alleanza portarono a casa gran parte del bottino, e i giornalisti restarono a mani vuote, ma questo non ridimensiona il ruolo che ebbero di “punta di lancia” dell’operazione. Altra volte ho parlato come testimone diretto di quella vicenda. Ora, visto che il tema è tornato alla ribalta – e credo che sia un nodo decisivo della storia, non spettacolare, della crisi del giornalismo italiano e dello stato di subalternità e di inferiorità nel quale vive – voglio essere ancora più preciso. I principali giornali italiani avevano costituito un “pool”, rinunciando a quell’elemento decisivo, storicamente, nella vita dei giornali e del giornalismo, che è la competizione e la concorrenza. Quattro giornali firmarono un patto di ferro: “Il Corriere della Sera”, “La Stampa”, “L’Unità” e “La “Repubblica”. Tranne Eugenio Scalfari, tutti gli altri direttori furono direttamente coinvolti in questo patto. Erano personaggi di primissimo piano, e contavano moltissimo nell’establishment, e furono tra i pochissimi che non furono travolti dall’” insurrezione”, anzi la guidarono. Paolo Mieli, Ezio Mauro, Walter Veltroni, che erano i direttori dei primi tre giornali, e un certo numero di capiredattori di Repubblica, il nome più noto è quello di Antonio Polito. Non ho mai potuto accertare se Scalfari sapesse e se approvasse. Ho solo un sospetto. Io all’epoca ero condirettore dell’Unità, e dunque – lo confesso – partecipai direttamente a molti colloqui e assistetti a tutto ciò che avvenne. Ogni sera, verso le sette, i direttori o i vicedirettori o i capiredattori, si sentivano per telefono e decidevano come fare le prime pagine, come dare le notizie, con quale forza, con quale gerarchia. Tutte le notizie, ovviamente, ma soprattutto le notizie che riguardavano il palazzo e l’inchiesta sulle Tangenti, che ogni giorno mieteva nuove vittime. Le “macchine”, come si dice in gergo, dei giornali furono rivoluzionate. I giornalisti non erano più titolari delle notizie, rispondevano a questa specie di “spectre” che era il supervertice dei quattro giornali. Il pool di direttori si interfacciava con in pool di giornalisti giudiziari, che aveva coinvolto anche giornalisti delle Tv, ed era alle dirette dipendenze delle Procure, e in particolare della Procura di Milano. Nessun giornalista giudiziario che non facesse parte del pool poteva più accedere a nessun tipo di notizia di giudiziaria, e rapidamente, per questa ragione, veniva eliminato dalla piazza. Il pool dei direttori – nel quale spiccava una specie di diarchia: Mieli che era il giornalista più autorevole, e Veltroni, che guidava un giornale ma era l’unico esponente della politica ammesso a questo consesso – aveva assunto anche vere e proprie funzioni legislative. L’esempio più clamoroso è quello del decreto– Conso. E’ un decreto legge varato dal Consiglio dei ministri il 5 marzo del 1993 ( come vedete, se fate attenzione alle date, di poche settimane precedente al referendum– plebiscito e al linciaggio di Craxi, cioè agli atti finali dell’insurrezione) nel quale il ministro della giustizia, Giovanni Conso ( giurista celebre e stimatissimo, ex presidente della Corte Costituzionale) disponeva la depenalizzazione del finanziamento illecito dei partiti …

DUE DOMANDE SULLA NUOVA EMIGRAZIONE AL PORTAVOCE DEL FAIM RINO GIULIANI

D. Ieri a Palazzo Giustinani, nella Sala Zuccari si è svolto il Convegno del Faim sull’importante tema della nuova emigrazione italiana. Quale è la sua valutazione sull’evento che rappresenta la prima uscita pubblica dopo il congresso costituivo? R. Al Convegno “Emigrare tempo di crisi- necessità e opportunità: più diritti , più tutele” avevamo affidato il compito di illustrare gli esiti di un approfondimento sulla condizione migratoria, fatto sul campo, in diversi paesi dove più intensa è l’ emigrazione di italiani. I dati di realtà forniti, anche direttamente dai protagonisti, hanno costituito con le schede-paese, la base delle indicazioni programmatiche della relazione introduttiva e di quellE del Comitato scientifico del FAIM. Larga è stata la partecipazione di pubblico e numerosi gli intervenuti nel dibattito. Ci conforta aver riscontrato consenso e convergenze con la nostra analisi e le nostre indicazioni su come intervenire sulle evidenti criticità di un flusso migratorio che avviene da anni senza che ad oggi si siano approntati strumenti di accompagnamento. Ci è sembrato importante il riscontro dato e i punti di convergenza dagli interventi del Direttore Generale del ministero del lavoro Tatiana Esposito e del Maeci Luigi Maria Vignali. Il metodo innanzitutto, quello di decidere perseguendo il confronto con tutti i protagonisti interessati attraverso tavoli di discussione presso i quali le diverse letture della nostra recente migrazione possano entrare in modo concreto nelle valutazioni che conducono alle scelte pubbliche. E’ un percorso, quello proposto, che pensiamo vada pienamente condiviso. Vogliamo poter vedere, a tempi brevi, decisioni coerenti. C’è tuttavia bisogno di una sussidiarietà istituzionale, oggi del tutto inadeguata, fra Stato Centrale e Stato delle autonomie locali senza la quale poi non si è nelle condizioni di vedere attivati e funzionanti gli strumenti di accompagnamento, assolutamente necessari alla nuova emigrazione lasciata oggi al “fai da te” Il ruolo della sussidiarietà orizzontale ci sarà come c’è stata nel passato, in epoche e con modalità diverse, sperabilmente non in termini meramente sostitutivi. D. Come FAIM all’indomani del vostro ultimo dibattito sulla nuova emigrazione come pensate di dare le risposte che molti si attendono ? R. Come FAIM non arriviamo ora sulle questioni, ma dalla constatazione del fenomeno alla ricognizione delle criticità e ai i possibili modi di intervento è da prima e nello stesso congresso fondativo del FAIM che abbiamo preso i nostri impegni su cui stiamo lavorando e che vincolano tutte le strutture aderenti. Abbiamo sempre pensato a una rete di assistenza che già in Italia sin dalla partenza accompagni le persone (con informazione, formazione, orientamento) e che poi nei paesi d’arrivo dei nostri migranti sviluppi anche quelle forme articolate e diversificate di sostegno fondamentali laddove, la precarietà spesso rinvenibile nella normazione del lavoro, si affianca a condizione di sfruttamento del lavoro e di contrazione delle tutele e dei diritti, a partire dal welfare reso sempre più incerto. La rete associativa del Faim e più in generale l’associazionismo, in specie quello di promozione sociale è il naturale protagonista di una rete informale che si dovrebbe intrecciare in modo fecondo sinergicamente con la rete dei patronati. Come nel passato così oggi per una tutela che per poter durevolmente essere efficace, deve essere al contempo individuale ma anche collettiva. Questa rete deve connettersi con un sistema consolare che funzioni, da potenziare su territori spesso abbandonati o sguarniti. Seguo molto il mondo della cosiddetta “generazione erasmus”, che ha trovato stabilizzazione all’estero. Ne seguo su chat il dibattito su come essere utili al loro paese, come poter tornare per restituire in parte alla propria comunità nazionale quanto hanno ricevuto. A questi e all’altra emigrazione, quella “proletaria”, di persone cioè, anche laureate e diplomate, che vengono utilizzate all’estero in attività a basso contenuto professionale e che forti della esperienza acquisita vogliano ritrovare in una Italia che investa sul lavoro la loro dimensione esistenziale, a tutti questi soggetti di una possibile “mobilità circolare “ servono strumenti di accompagnamento. In termini più generali sul rapporto fra l’Italia e gli italiani che sono fuori dalla madrepatria dopo un lungo silenzio, siamo stati i primi a richiedere, anni or sono, lo svolgimento di una Conferenza mondiale che oggi molti avanzano e che, molto positivamente abbiamo appreso essere un importante punto all’ordine del giorno del prossimo CGIE. Su tutto questo fronte di avanzamento di una ripresa di consapevolezza della centralità del mondo della nostra emigrazione siamo come FAIM in prima fila , con un impegno fatto di proposte concrete e di costane presenza fra gli italiani all’estero. Fonte: (santi news) SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

IL RITORNO DI LENIN?

di Pierfranco Pellizzetti L’ultracentralismo raccomandato da Lenin ci sembra pervaso in tutto il suo essere non dallo spirito positivo e creatore ma dallo spirito sterile del guardiano notturno. La sua concezione è fondamentalmente diretta a controllare l’attività di partito e non a fecondarla, a restringere il movimento non a svilupparlo, a soffocarlo e non unificarlo»1. Rosa Luxemburg   Il processo al regime accentratore, autoritario, monopolistico della rivoluzione russa, non si può fare a priori in nome di un ideale di autonomia perché […] Lenin ubbidisce al suo clima storico e ad esigenze non più astratte ma determinate da una dialettica quotidiana reale»2. Piero Gobetti Norberto Bobbio, Il marxismo e lo Stato, Mondoperaio, Roma 1976 Michele Prospero, Ottobre 1917 – la rivoluzione pacifista di Lenin, Manifestolibri, Roma 2017   La mummia in Piazza Rossa Parafrasando György Lukács, secondo cui l’Hitlerismo «è contenuto oggettivamente in ogni espressione filosofica dell’Irrazionalismo»3, qualcuno potrebbe affermare che lo Stalinismo è già prefigurato geneticamente nel Marxismo? Continuando il gioco delle simmetrie, nel primo caso un itinerario in scorrimento lungo la filiera che da Nietzsche arriva ad Heidegger, mentre nell’altro una sequenza con tappa intermedia obbligata nel Leninismo; la sua teoria sistematicamente giustificatoria della prassi (ovviamente si parla di teoria rivoluzionaria, visto che la speculazione filosofica leniniana di “Materialismo ed Empiriocriticismo” del 1909, a prescindere dai tributi agiografici in età sovietica, si limita alla difesa del materialismo dialettico contro le scoperte della fisica del tempo; l’imbarazzante Dia-Mat di Engels, che pretenderebbe di applicare dogmaticamente al campo della natura le leggi dialettiche dello sviluppo sociale che Marx aveva formulato come materialismo storico). Appunto, un tema che potrebbe diventare d’attualità qualora fosse in avvio sottotraccia un revival a sinistra – oltre al Che, Gramsci e Fabrizio de André – nientemeno che di Vladimir Il’ič Ul’ianov, in arte rivoluzionaria Lenin. Operazione carica di non pochi rischi, visto che andrebbe a risvegliare virulente polemiche ormai sopite da lunga pezza. L’ennesimo torneo d’armi dibattimentali senza possibilità di tregua, che mette in campo detrattori e aficionados. Tra chi vorrebbe resuscitare la salma (o il simulacro in cera?) esposta nel mausoleo della Piazza Rossa moscovita e chi ne auspicherebbe la definitiva sepoltura nell’oblio. Riprodotto nella messa a specchio del saggio di Prospero, che ricostruisce la presa del potere di Lenin, con le riflessioni di Bobbio sugli effetti costituenti del modo con cui tale presa è avvenuta. Diciamolo, ormai un confronto per pochi intimi, visto che la materia (il giudizio su teoria e pratica rivoluzionaria bolscevica) era ribollente al tempo della conquista del Palazzo d’Inverno, manteneva una temperatura ancora elevata attorno al ‘68 e agli ultimi bagliori delle insorgenze anticapitalistiche; quando i Valentino Gerratana e i Luciano Gruppi recensivano gli opuscoli militanti leniniani come se si trattasse del Talmud (o di Das Kapital). Gerretana proclamando il gran capo carismatico della rivoluzione d’Ottobre un riferimento ancora indispensabile «perché si tratta di far comprendere alle masse cosa dovranno fare per liberarsi, in un avvenire prossimo, dal giogo del capitale»4; Gruppi teorizzando un filo di continuità tra Lenin, Gramsci e Togliatti («abbiamo cercato di indicare la continuità di una linea di sviluppo, dal lontano Che fare? alla concezione del partito di Gramsci e a quella di Togliatti»5). Gli ultimi hurrah – dottrinari o cortigiani – di un milieu piccista che riteneva ancora proponibile il progetto di società alternativa a quella borghese-capitalista. Poi messi a tacere dalla lunga gelata della restaurazione NeoLib; quando le suggestioni antagoniste finirono nel dimenticatoio, insieme alle masse chiamate a conquistare il Comunismo. Per giungere al 31 dicembre 1991 quando, con la dissoluzione dell’Unione Sovietica, scompariva il Paese-guida nella marcia verso il sol dell’avvenire. Il totale azzeramento del lascito leniniano, ovvero la cancellazione di un esperimento che – come fu detto – “aveva sconvolto il mondo”. Nel frattempo il dibattito culturale aveva già destinato al dimenticatoio la via ipotizzata dal Marx-Leninismo per la costruzione di uno Stato che portasse a compimento l’esperienza della Comune («non sarebbe possibile distruggere di punto in bianco la burocrazia. Sarebbe utopia, Ma spezzare subito la vecchia macchina amministrativa per cominciare a costruirne una nuova, che permetta la graduale soppressione di ogni burocrazia, non è utopia, è l’esperienza della Comune»6); con ciò accantonando la tesi anarchica, poi ripresa dal tatticismo marxiano-engelsiano, dell’estinzione dello Stato. Una formulazione di raro confusionismo teorico, che si spiega in quanto giustificativa delle scelte strategiche bolsceviche dopo la conquista armata del potere in Russia e l’insediamento nei palazzi del potere. Di cui in Italia si era curato di fare piazza pulita nel 1975 Norberto Bobbio, aprendo la discussione sulla rivista Mondoperaio con il saggio “Esiste una dottrina marxista dello Stato?”. Ortodossia o aggiustamento in itinere? Oh potenza magica dei numeri! La celebrazione dei cento anni che ci separano dall’avvio della rivoluzione d’Ottobre ricrea attenzione attorno al plesso di criteri organizzativi e intuizioni tattiche che la resero possibile. Innovazione decisiva nello schema ortodosso marxiano, che rompe l’ordine mondiale partendo dall’anello debole di un grande impero arretrato, oppure opera demiurgica di un «Lenin esecutore testamentario dell’intuizione di Marx»; quel Marx che – secondo il filosofo del diritto Michele Prospero nel suo recente saggio – negherebbe l’eccezionalismo russo e la mistica dell’arretratezza («Marx anticipa l’ipotesi di una rivoluzione in Russia che non deve aspettare che il tempo del progresso si completi»7)? Di certo, l’uomo di mano giunto a Mosca nel carro piombato tedesco, con la sua decisione di prendere il potere istituendo mediante il partito bolscevico una dittatura del proletariato e dei contadini più poveri, calpesta radicalmente alcuni canoni consacrati dell’ortodossia marxista russa, secondo cui la rivoluzione poteva essere soltanto “capitalista”: la teoria di Georgij Plechanov delle “due rivoluzioni”, la prima “borghese”, la seconda “proletaria” (di cui troviamo echi nella concezione gramsciana della “rivoluzione passiva” a Occidente, guidata non dalla base operaia ma dai vertici del comando fordista). Resta il fatto che, sino all’ultimo respiro, il Lenin trionfatore in patria scrutava con crescente apprensione gli scenari a Occidente, alla ricerca di concreti segni insurrezionali nelle società industrialmente avanzate. Il tanto atteso avvio della rivoluzione internazionalista. Difatti, secondo François Furet, «il …

L’ECCIDIO DI MARZAGAGLIA

Il primo luglio del 1920, in pieno biennio rosso, si consumava la strage di Marzagaglia di Gioia del Colle che si può definire la Portella della Ginestra pugliese, anche se maturata in un contesto storico differente. La polizia e l’esercito spararono su uomini e donne inermi per difendere gli agrari. Quasi cento anni fa, il primo luglio del 1920, Gioia del Colle fu scossa da una strage di inaudita violenza. Si era nel pieno del «biennio rosso» alimentato dalle promesse non mantenute di dare la terra ai braccianti affamati e disoccupati tornati dalle trincee della Grande Guerra, e inasprito – a Sud, e soprattutto in Puglia – da nuove forme di rivendicazione: i contadini si recavano su un terreno, spesso incolto, lo lavoravano e alla fine della giornata pretendevano un compenso. Contro queste azioni si scatenò in quegli anni una violentissima repressione, oggi del tutto dimenticata. Basta rileggere le cronache dell’epoca per capire come quasi ogni giorno – nel Tavoliere, nelle Murge, in Salento, e in Sicilia, Lucania, Calabria, così come nella Pianura Padana – la polizia e l’esercito sparassero su uomini e donne inermi per difendere gli agrari, o, in alcuni casi, per difendere i mezzadri dei grandi latifondi che si trovano spesso in prima linea in quel cruento conflitto di classe: ex braccianti a loro volta, che pretendevano e volevano «ordine» più degli stessi proprietari. Il socialismo e il movimento dei lavoratori (come testimoniano le biografie di Peppino Di Vittorio) sono nati nelle campagne pugliesi non meno che in quelle romagnole. Così come, in fortissima contrapposizione, il fascismo agrario ha avuto nelle stesse lande uno dei suoi laboratori di incubazione. Ma torniamo a Gioia del Colle, e al primo luglio di novant’anni fa. Alcune decine di braccianti avevano lavorato alla pulitura della vigna a Marzagaglia, una contrada tra Gioia e Castellaneta, presso la masseria della famiglia Girardi. Quel giorno i braccianti furono attirati dalla promessa di un lavoro retribuito. Ma a fine giornata, raccolti nell’aia per ottenere il pagamento, si ritrovarono inaspettatamente vittime di una «punizione esemplare». Dal tetto della masseria, dalle feritoie, dai balconi furono presi a fucilate. E coloro che riuscirono a scappare da quel cortile di morte, furono raggiunti e finiti a freddo da uomini a cavallo, anche a due-tre chilometri di distanza dall’epicentro delle prime raffiche. Alla fine si contarono sei morti: Pasquale Capotorto, Vito Falcone, Vincenzo Milano, Rocco Montenegro, Rocco Orfino, Vitantonio Resta. Vitantonio aveva solo sedici anni. La particolarità della strage di Marzagaglia non è tanto nel numero dei morti (purtroppo consueto all’epoca), quanto nella sua organizzazione. A sparare sui lavoratori inermi, non fu l’esercito e non fu neppure lo squadrismo che sarebbe nato successivamente. Furono direttamente alcuni proprietari e alcuni mezzadri del paese, che raccoltisi in gran numero nella masseria gioiese, e stretto tra loro una sorta di «patto di sangue» ancestrale e pre-politico, decisero di far da soli. Nel suo carattere di violenza assoluta, non mediata, costituisce quasi un caso studio. La reazione popolare all’eccidio fu scomposta e disperata, a stento contenuta dal Partito socialista e dalla Camera del lavoro. Furono creati dei posti di blocco improvvisati, e il 2 luglio – in risposta alle violenze del giorno prima – furono ammazzate tre persone che si riteneva legate all’iniziativa degli agrari. Poi arrivò l’esercito a ristabilire l’ordine. Per i funerali dei contadini uccisi, un lungo corteo funebre attraversò il paese: tra le orazioni, ci fu anche quella di Giuseppe Di Vagno, che sarebbe stato ucciso dai fascisti solo pochi mesi dopo. Il processo per i fatti di Gioia del Colle fu lungo e tortuoso e si concluse con la piena assoluzione di tutti i proprietari e mezzadri che avevano organizzato o partecipato all’eccidio con la tesi (assurda) della legittima difesa. Ma per comprendere l’incredibile conclusione della vicenda, bisogna anche ricordare che la sentenza fu emessa dalla Corte d’Assise di Bari nell’agosto del 1922, in un momento molto particolare, negli stessi giorni in cui la città visse tensioni da guerra civile, con l’aggressione dei fascisti alla Camera del lavoro di Bari vecchia. La marcia su Roma fu intrapresa solo due mesi dopo. Il ricordo dell’eccidio incrudelì per molto tempo le relazioni sociali dei paesi delle Murge, e il «fare come a Gioia» rimase a lungo una minaccia anti-operaia. Poi la memoria dei fatti si affievolì. Nel 1970 fu celebrato il cinquantenario della strage, negli anni Ottanta le vittime della sparatoria furono equiparate alle vittime della persecuzione fascista e ottennero tardivamente una medaglia. Poi più niente, salvo le ricostruzioni di alcuni storici che hanno impedito che l’oblio risucchiasse tutto. Eppure a Gioia, ancora oggi, sono molte le persone che discendono dai protagonisti di quella giornata di sangue, e che ricordano quanto vi accadde nei minimi particolari. La memoria non ha mai un percorso lineare, e a volte il mare della dimenticanza è intervallato da inaspettati grumi di ricordi affastellati. Il novantennale della strage di Marzagaglia (che non è cosa retorica definire la Portella della Ginestra pugliese, anche se maturata in un contesto storico differente) fu ricordato a Gioia del Colle in una commemorazione pubblica presso l’Arco Nardulli. Gioia e la Puglia sono enormemente cambiate, come è ovvio, ma quella violenza sui braccianti, su chi la terra la lavora, rimane un paradigma. Un paradigma che purtroppo – anche se in forme nuove – si è riprodotto in anni recenti contro numerosi braccianti stranieri, provenienti dall’Africa o dall’Europa dell’Est. Alessandro Leogrande   SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

PIETRO NENNI SU GIUSEPPE DI VITTORIO

Il 3 novembre 1957 muore a Lecco Giuseppe Di Vittorio (L’annuncio della Cgil; L’appello ai lavoratori). Nel trigesimo della morte, Rassegna Sindacale dedica un intero numero alla commemorazione del segretario, pubblicando scritti e discorsi di Giovanni Leone, Giuseppe Rapelli, Louis Saillant, Pietro Nenni, Luigi Russo, Fausto Gullo, Luigi Allegato, Ferruccio Parri e Riccardo Lombardi (Rassegna Sindacale, n. 21-22, 15-30 novembre 1957). Riportiamo nella sua interezza l’intervento di Pietro Nenni (discorso pronunciato il 6 novembre ai funerali di Di Vittorio): “II cuore dei socialisti italiani di tutta Italia è qui stasera attorno al feretro di Giuseppe Di Vittorio, è qui con la pena dei figli, della vedova, dei familiari, dei braccianti di Cerignola, è qui con la vostra pena, compagni della CGIL, con la vostra stessa pena, compagni del Partito Comunista. Per me, coetaneo e vecchio amico e compagno di Di Vittorio, si conclude stasera un colloquio con lui durato per oltre tre decenni e che fu il colloquio dei socialisti con il militante sindacalista e comunista. Cominciò il nostro colloquio qui a Roma 33 o 34 anni or sono, quando Di Vittorio dette la sua adesione al Partito Comunista nel convincimento che l’unità operaia non potesse ricomporsi se non nel solco della Rivoluzione d’Ottobre. Continuò nel lungo esilio, l’esilio con le sue pene, le sue dispute, le sue speranze. Si trasferì in Spagna quando a Madrid si affrontarono il fascismo che s’era fatto europeo e l’antifascismo pur esso europeizzatosi, nel quadro indimenticabile della Calle Velasquez, delle trincee della Ciudad Universitaria, dei campi di battaglia del Manzanares e dell’Ebro. Riprendemmo il colloquio mentre si abbatteva sulla umanità la seconda guerra mondiale. Fu in uno dei momenti più tragici di quella guerra che per un attimo Di Vittorio mi apparve smarrito e disperato. Era la sera che precedette l’occupazione tedesco-nazista di Parigi. Ci eravamo dati appuntamento, per decidere cosa si poteva ancora fare, nei giardini del Palais Royal ai piedi della statua che mostra Camille Desmoulins nell’atto di salire su una sedia per lanciare l’appello supremo alle armi. Di Vittorio si chiedeva disperato se quel marmo, se quel gesto, se quel grido non fossero una menzogna, mentre la Parigi della grande Rivoluzione e della Comune pareva curvare la testa davanti all’invasore. Ma non c’è rassegnazione per uomini come Di Vittorio, non c’è disperazione che non dia luogo ad un rinnovato furore di azione. Di Vittorio riprese la lotta, fu arrestato, ricondotto in Italia, internato a Ventotene dove lo colse e lo liberò nel 1943 la prima frattura tra regime e paese, in cui il fascismo andò distrutto. Il resto è la storia che tutti conoscono, la storia dell’ascensione di Di Vittorio alle più alte responsabilità sindacali e politiche. In quella ascensione egli rimase sempre il bracciante e il contadino di Cerignola. Altri parlavano meglio di Lui. Altri scrivevano meglio di Lui. Altri erano più dotti nel citare pagine di Marx o di Lenin. Nessuno ha eguagliato il patos umano della sua eloquenza e della sua azione. Se stasera tutta la Roma del popolo è attorno al suo feretro, è perché nessuno meglio di Lui ha saputo interpretarne l’animo. Se il miracolo che ha tentato la fantasia di tanti poeti di una parola che, gridata su un feretro, risvegli nel disfacimento fisico del corpo umano lo spirito che quell’uomo animava, se quel miracolo potesse compiersi qui stasera, la parola che rianimerebbe le spoglie di Di Vittorio sarebbe la parola unità. Egli vedeva sinceramente e profondamente il valore della unità. Scompare con Lui l’ultimo dei tre sindacalisti che tredici anni or sono gettarono le basi dell’unità sindacale. Il primo a cadere fu Bruno Buozzi, trucidato in un vile eccidio tedesco. Il secondo Achille Grandi. Questa sera noi prendiamo per sempre congedo da Peppino Di Vittorio. Lasciatemi esprimere a nome dei socialisti la speranza che l’unità che è stasera nel cuore di milioni di uomini, si traduca e si risolva nell’unità sindacale di tutti i lavoratori del nostro Paese. Sarà il più bel monumento eretto alla Tua memoria, caro ed indimenticabile compagno Di Vittorio!”. Ilaria Romeo, responsabile Archivio storico CGIL nazionale SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

ESPERIENZE E PROSPETTIVE IN FRANCIA

di Gilles Martinet Nel maggio 1975, il Partito Socialista francese, per uscire dalla crisi del sistema capitalistico con un’alternativa di modello che desse centralità ai problemi del lavoro, approvava all’unanimità il socialismo dell’autogestione. Il punto di partenza era arrivare al potere con un programma comune alle altre forze della Sinistra, l’obiettivo dare centralità all’esperienza diffusa dell’autogestione pianificandola e ponendola in stretta relazione con gli enti locali, le regioni e il potere centrale; per arrivare a trasformare profondamente le strutture dello Stato e il governo dei processi del lavoro durante una legislatura. Qualche mese dopo, il grande socialista francese Gilles Martinet, scomparso qualche anno fa, in questo interessante articolo spiegava ai socialisti italiani impegnati in un importante dibattito sull’Alternativa socialista, le tesi del socialismo dell’autogestione portate avanti dal Partito Socialista francese. Oggi rileggerlo può essere utile a chi voglia costruire finalmente un’alternativa di modello in questo Paese, perché vi è delineato un metodo generale per realizzare delle politiche del lavoro più efficaci e più giuste, in quanto pensate dal basso attraverso la partecipazione diretta dei lavoratori alla gestione delle aziende e sostenute e pianificate dallo Stato. Marco Zanier   ESPERIENZE E PROSPETTIVE IN FRANCIA Perché la Francia è il paese in cui l’influenza delle idee dell’autogestione socialista, o meglio, diciamo, del“socialismo autogestito”, è oggi più forte? A questa domanda non si può che dare una risposta complessa. Innanzitutto, occorre ricordare che al principio del secolo il sindacalismo francese è sindacalismo di minoranza, ma rivoluzionario. Per i dirigenti e i militanti della vecchia Confederazione generale del lavoro (CGT) l’obiettivo è l’officina agli operai, la miniera ai minatori. Quei militanti sono operai altamente specializzati e pensano che non si possa essere rivoluzionari senza conoscere a fondo il proprio mestiere perché solo in questo caso è lecito sperare di prendere il posto del padrone. Lo sviluppo della grande industria meccanica e, in seguito, la prima guerra mondiale frantumano questo movimento. Qui come altrove, è l’organizzazione di massa centralizzata che risponde alle esigenze di una classe operaia, la quale risponde allo sfruttamento capitalista ma è turbata dal problema delle competenze. Essa non si sente capace di gestire direttamente delle imprese ormai divenute troppo vaste e complesse. Ed è appunto ai partiti con vocazione operaia che la classe operaia darà la sua fiducia per poter tentare un giorno di governare in nome proprio e nei propri interessi. La fiamma proudoniana, libertaria, svanisce ma la brace non è ancora del tutto spenta. Il fuoco si riaccenderà un mezzo secolo dopo in una delle tre organizzazioni sindacali francesi, la Confederazione francese democratica del lavoro (CFDT). E’ infatti la CFDT a parlare per la prima volta di autogestione nel 1968, anche se è vero che questa formula era già stata utilizzata l’anno avanti da due delle sue federazioni, quella della chimica e quella dei tessili. La ricomparsa del principio di autogestione nella CFDT non può essere separata dalle origini cristiane di tale sindacato. Esiste oggi in Francia un movimento socialista cristiano molto forte. Quello lo era assai meno, esso soffriva delle inibizioni  di fronte ai marxisti in genere e ai comunisti (o ex comunisti) in particolare e si sforzava di parlare il loro linguaggio. Ma nessuno si sente veramente a suo agio in un’identità presa in prestito. Così, nel suo processo di espansione, il movimento socialista-cristiano ha sentito il bisogno di definire una dottrina originale che non fosse necessariamente cristiana, poiché il movimento andava spogliandosi del suo carattere confessionale, ma che non si confondesse con quella delle organizzazioni tradizionali, cioè la dottrina della socialdemocrazia e del comunismo. Tuttavia, gli elementi che ho qui ricordati (cioè la ricomparsa di una vecchia tradizione sindacalista rivoluzionaria e l’evoluzione degli ambienti cristiani) non sono  elementi determinanti. Niente di importante sarebbe avvenuto se dal maggio del 1968 non fossero emerse rivendicazioni e nuove forme di lotta. Queste rivendicazioni e queste lotte non costituiscono un fenomeno puramente francese. Queste rivendicazioni e queste lotte non costituiscono un fenomeno puramente francese. Le ritroviamo  in tutta l’Europa industriale e direi che, su questo piano, l’Italia è stata teatro di battaglie di ben altra ampiezza rispetto a quelle combattute in Francia. Il “Joint francais”, LIP, Rateau, le Nouvelles Galeries de Thionville, Manuest, eccetera, sono stati avvenimenti spettacolari e, a mio avviso, molto significativi, ma non rappresentano che una parte delle lotte di rivendicazione. Comunque, qui come altrove, la contestazione delle condizioni di lavoro, il rifiuto dei vecchi metodi di direzione, di comando e di gestione, la volontà di controllo, la gestione democratica delle lotte hanno mostrato la loro forza durante gli ultimi sei o sette anni. E queste lotte costituiscono lo sfondo del quadro sul quale si sono andate affermando le idee dell’autogestione. A tutto ciò occorre aggiungere un altro fenomeno, di cui si parla meno volentieri, a che è l’evoluzione di una non trascurabile parte dell’intellighenzia tecnica, la quale non accetta più la monarchia padronale. Nel maggio del 1968 la maggior parte delle imprese, in cui sono stati realmente impostati i problemi di gestione, sono delle aziende che contano dal 25 al 50 per cento di quadri, di ingegneri, di ricercatori e di tecnici: industrie elettroniche, uffici di studio, laboratori medici, eccetera. Non vi è dubbio che gli strati tecnici si trovano in una situazione ambigua. Essi forniscono al capitalismo i suoi migliori manager e al socialismo dell’autogestione una buona metà dei suoi teorici. Questa è la realtà di cui si deve tener conto. A tutte queste ragioni, infine, aggiungo la trasformazione del Partito socialista francese. Il suo declino è stato terribile e il cambiamento gli si è imposto come una questione di vita o di morte. Ma il cambiamento è stato possibile solo in quanto il vecchio partito ha accettato l’innesto di quella nuova sinistra che si era formata nel corso degli anni ’60 e che nel 1968 aveva quasi unanimemente aderito alle tesi dell’autogestione. Noi abbiamo dunque una corrente “autogestionista” costruita prima dalla CFDT e dal PSU (Partito socialista unificato), poi dalla CFDT e dal Partito socialista che è oggi- sul piano elettorale- il più …

BRESCELLO, IL CINEMA E ANGELO RIZZOLI: MOSTRA FOTOGRAFICA SUL MONDO PICCOLO CINEMATOGRAFICO NEGLI ANNI ’50-‘60

Dopo 6 anni dalla prima esposizione, la Fondazione “Paese di Don Camillo e Peppone” ha pensato di riproporre al pubblico, ai visitatori, agli amanti del cinema, la mostra fotografica dedicata all’editore e produttore Angelo Rizzoli. Si tratta di una raccolta di 35 scatti provenienti dall’archivio storico RCS di Milano, materiali utilizzati da rotocalchi e riviste degli anni 50’ e 60’, nelle quali sono documentati numerosi incontri di Rizzoli con personalità del mondo dello spettacolo, del cinema, della cultura e della società italiana dell’epoca. Le immagini proposte testimoniano la ricchezza dei contesti e delle relazioni che il patron milanese intratteneva nella sua prolifica attività, nonché il ruolo illuminato che i produttori rivestivano a quel tempo nella promozione della cultura, nell’investimento verso il cinema, spesso con scelte innovative e coraggiose. Non a caso il nome di Rizzoli, attraverso la celebre casa “Cineriz”, accompagna la produzione di film non ortodossi, colti e complessi, che hanno poi fatto la storia del cinema mondiale, come “Deserto Rosso” di Michelangelo Antonioni e “La Dolce Vita” di Federico Fellini, due pellicole dirompenti che segnarono forse la fine delle illusioni del boom economico e, per certi versi, della Commedia all’Italiana di quella fortunata stagione. A Brescello Rizzoli viene però soprattutto ricordato con affetto e gratitudine per il contributo che diede alla prosecuzione delle produzioni cinematografiche su Don Camillo e Peppone. Dopo gli intramontabili film firmati da Julien Duvivier, nel 1955 produsse infatti “Don Camillo e l’Onorevole Peppone” e nel 1961 “Don Camillo monsignore… ma non troppo”, lasciando indelebili memorie nel paese, nonché testimonianze concrete nel paesaggio locale, che possiamo ammirare ancora oggi. Basti solo pensare al protiro della Chiesa di Santa Maria Maggiore – la Chiesa del paese e del Cristo parlante, insomma – edificato appositamente per il film del 1955. Le cronache raccontano anche fatti curiosi. Pare che Rizzoli si recasse molto volentieri a Brescello, poiché apprezzava molto i film, e aveva un debole per Guareschi. “…al contrario non l’ho mai visto sul set di “La dolce vita” di Fellini”, così raccontò l’attrice Valeria Ciangottini (interprete di “Don Camillo Monsignore…ma non troppo”). Così, insieme a Rizzoli, perennemente con la sigaretta in bocca, in queste foto possiamo incontrare gli amati Gino Cervi e Fernandel, come tutta una schiera di spalle e comprimari d’eccezione. Ma anche Walter Chiari, Gina Lollobrigida, lo stesso Fellini, Montanelli, Rosi, personaggi di spicco della politica e delle istituzioni, quali Fanfani e De Gasperi. Le immagini sono corredate da didascalie composte con l’aiuto dell’Archivio RCS, che nel 2011 concesse il materiale alla Fondazione di Brescello e, nel quadro d’insieme, mettono in scena quel “dietro le quinte” delle opere cinematografiche, quel mondo di relazioni e contatti del mondo dello spettacolo che permise la realizzazione di grandi capolavori e di momenti d’eccezione del costume italiano. La mostra, aperta al pubblico dal 6 agosto 2017 al 7 gennaio 2018, vuole anche porsi come preludio al 2018, prossima occasione per il ricordo della nascita, nel 1908, e della morte, nel 1968, di Giovannino Guareschi, per tornare a sottolineare anche il sottile rapporto che si venne a creare tra l’autore dei personaggi delle novelle e dei film e di colui che ha contribuito a rappresentarli sul grande schermo, tra lo scrittore e vignettista di Fontanelle e l’editore del Candido e del Bertoldo. L’allestimento è stato realizzato in collaborazione con il Centro Documentazione RCS Periodici, che ha concesso l’uso delle foto, con il prezioso aiuto di Ezio Aldoni, Virginio Dall’Aglio e con l’Associazione Pro-Loco di Brescello, ed è un’iniziativa complementare al sistema museale locale dedicato non solo al “Mondo Piccolo” dei film, ma anche al territorio della bassa, all’area del Po, alla storia e alle tradizioni emiliane di questo angolo di pianura padana. ———————————————————– Angelo Rizzoli (Milano, 31 ottobre 1889 – Milano, 24 settembre 1970) iniziò giovanissimo come tipografo, da prima in orfanotrofio, poi mettendosi in proprio, costituendo una ditta che nel 1911 prese il nome di “A.Rizzoli &C”. Arruolato dalla Grande Guerra si congedò nel 1917 e ritornò a Milano. Qui conobbe l’editore Calogero Tumminelli, che lo introdusse nel campo dell’editoria. E soprattutto, trascorso un decennio, lo convinse a rilevare alcune riviste d’epoca della Mondadori – tra cui Il Secolo Illustrato e La Donna, primo periodico femminile nella storia editoriale italiana – che attraversava grandi difficoltà finanziarie. Nel 1929 la ditta diventò società di capitali, incrementando fatturato e aumentando la propria offerta con altre testate: Novella, Annabella, Bertoldo, Candido, Omnibus, Oggi e L’Europeo. Dal 1929 iniziò anche la pubblicazione di libri e numerose collane, in particolare i romanzi classici della BUR (Biblioteca Universale Rizzoli), e un trentennio di progetti e investimenti variegati nel campo dell’editoria. Sposato con Anna Marzorati (1890-1976), dalla quale ebbe tre figli, iniziò poi ad occuparsi di attività cinematografiche, creando la celebre casa di produzione CineRiz, ampliando enormemente il proprio giro d’affari e consentendo la realizzazione di film pietre miliari della cinematografia italiana e internazionale, tra cui Francesco, giullare di Dio di Roberto Rossellini (1950), Umberto D. di Vittorio De Sica (1952), La dolce vita (1960) e 8½ (1963)di Federico Fellini, La contessa scalza di Joseph L. Mankiewicz (1954), Puccini, di Carmine Gallone (1953), Deserto rosso, di Michelangelo Antonioni (1964), Don Camillo e l’Onorevole Peppone di (1955) e Don Camillo monsignore… ma non troppo (1961) di Carmine Gallone Ottenne il titolo di Cavaliere del lavoro e, il 6 aprile 1967, il titolo di Conte dall’ex re d’Italia Umberto di Savoia, in esilio a Cascais. Morì nel 1970. ————————————————————— ORARI DI APERTURA Fino al 7 gennaio 2018 – da martedì a venerdì 9.30-12.30 / 14.30-17.30 – sabato, domenica e festivi 9.30-12.30 / 14.00-18.00 – chiuso il lunedì INGRESSO LIBERO Per informazioni Ufficio Turistico 0522/482564 – visitbrescello.it   CURIOSITA’ Giovanni Faraboli Tra giugno 1940 e il 23 dicembre1941 è stato rappresentante (vedi alla voce segretari) del PSI per la “Federazione del Sud-Ovest”. Lo scrittore Giovannino Guareschi, si è ispirato a lui per la creazione del personaggio letterario di Peppone.   SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) …

LA SETTIMANA ROSSA

Il 7 giu­gno 1914 i cir­coli repub­bli­cani, anar­chici e socia­li­sti con­vo­cano, nell’anniversario dello Statuto Alber­tino, un grande comi­zio nazio­nale per l’abolizione delle Com­pa­gnie di Disci­plina nell’Esercito, per espri­mere soli­da­rietà e vici­nanza a tutte le vit­time del mili­ta­ri­smo e in par­ti­co­lare a due sol­dati anar­chici, dive­nuti sim­boli delle per­se­cu­zioni mili­ta­ri­ste. Il mura­tore Augu­sto Masetti, nato a Sala Bolo­gnese (Bo) il 12 aprile 1888, la mat­tina del 30 otto­bre 1911, alla caserma Cial­dini di Bolo­gna, gri­dando «Abbasso la guerra! W l’anarchia!», spara al colon­nello Stroppa che elo­gia la guerra di Libia, feren­dolo alla spalla. Giu­di­cato pazzo, è rin­chiuso nel mani­co­mio cri­mi­nale di Imola. Il tipo­grafo Anto­nio Moroni, nato a Milano il 17 ago­sto 1892, dalla Caserma di Napoli, in una let­tera al fra­tello, lamenta il duris­simo trat­ta­mento per le sue idee poli­ti­che. Pub­bli­cata dall’«Avanti! » il 23 dicem­bre 1912, gli costa l’incriminazione per dif­fa­ma­zione dell’esercito; prosciolto dal Tri­bu­nale di Cagliari il 27 aprile 1913, è tra­dotto alla com­pa­gnia di disci­plina di San Leo di Roma­gna (Pe). Gli spari, i morti Il comi­zio anti­mi­li­ta­ri­sta è vie­tato. Nella mat­ti­nata sono arre­stati alcuni anar­chici con Errico Malate­sta, agi­ta­tore e ora­tore molto cono­sciuto (nel 1897 ha fon­dato «L’Agitazione» e nel 1913 «Volontà»): la poli­zia teme voglia tur­bare la festa dello Sta­tuto. Gli ordini sono severi, proi­biti gli assem­bra­menti anche di due o tre per­sone. Un altro gruppo di lavo­ra­tori, con il gio­vane Pie­tro Nenni — che da poco dirige il perio­dico repub­bli­cano «Luci­fero», fon­dato nel 1870 — viene preso a pugni e a basto­nate. Mala­te­sta, che gode di molte sim­pa­tie per la coe­renza e il rigore poli­tico, avendo dato la sua parola che non sareb­bero avve­nuti disor­dini né tumulti, viene rila­sciato. Alla Casa del Pro­le­ta­riato con Mala­te­sta si deli­bera di tenere alle 16 in forma pri­vata il comi­zio di prote­sta a Villa Rossa, sede del Par­tito Repub­bli­cano. Alla mani­fe­sta­zione par­te­ci­pano gio­vani e repub­bli­cani. Pie­troni della Camera del Lavoro, Pie­tro Nenni e l’avvocato Oddo Mari­nelli per i repub­bli­cani, Mala­te­sta per gli anar­chici, Ercole Ciardi per i fer­ro­vieri e Pelizza per il Comi­tato di agi­ta­zione con­tro le com­pa­gnie di disci­plina, par­lano applau­di­tis­simi con­tro la guerra (già nell’aria: la scin­tilla avverrà il 28 giu­gno con l’attentato di Sara­jevo). Alle 18, votato un vibrante ordine del giorno con­tro la guerra, Mala­te­sta se ne va prima degli altri, e la folla trova davanti Villa Rossa due cor­doni di cara­bi­nieri che — temendo vogliano distur­bare la festa dello Sta­tuto — non per­met­tono di pas­sare. I mili­tari improv­vi­sa­mente spa­rano all’impazzata. È un fuggi fuggi fra urla di ter­rore. Sul sel­ciato di Via Tor­rioni giace il tap­pez­ziere anar­chico di 22 anni Atti­lio Giam­bri­gnone, col­pito al petto, men­tre il com­messo repub­bli­cano Anto­nio Casac­cia di 24 anni, spa­rato men­tre esce, muore all’ospedale. Il fac­chino repub­bli­cano Nello Budini di 17 anni muore il giorno dopo. Il comi­zio di Malatesta Nel comi­zio Mala­te­sta si limita a rim­pro­ve­rare i socia­li­sti e il loro quo­ti­diano per lo scarso appoggio alla cam­pa­gna anti­mi­li­ta­ri­sta. Rac­conta il «Luci­fero» la sera del 7: il tenente Opezzi, perduta la calma, aggre­di­sce ver­bal­mente Oddo Mari­nelli, che lo invita a fer­mare i cara­bi­nieri che — senza suo­nare i tre squilli di tromba — spa­rano, mirando chi è affac­ciato alle fine­stre di Villa Rossa e di Villa Sta­mura. Finita la spa­ra­to­ria Pie­tro Nenni e altri escono e si lan­ciano con­tro Opezzi, che giura di non aver ordi­nato il fuoco. Giun­gono cen­ti­naia di donne pian­genti ed imprecanti. Al que­store, Mari­nelli «indicò ad uno ad uno i fun­zio­nari che capeg­gia­vano il drap­pello degli assas­sini» e, dopo aver arrin­gato la folla, che gri­dava «Assas­sini!», ottiene il silen­zio della banda e il ritiro delle truppe. Al que­store chiede invano i nomi dei cara­bi­nieri e di ispe­zio­nare le rivol­telle per sapere chi ha spa­rato. Gli è detto che il con­trollo sarebbe avve­nuto in caserma; «Ma in mia pre­senza!» ribatte l’avvocato e la folla lo accom­pa­gna. Gra­zie a Mari­nelli «Luci­fero» pub­blica i nomi dei cara­bi­nieri che hanno spa­rato e il numero dei colpi che man­cano nelle loro pistole: a Giuseppe Di Cola ne man­cano 6, altret­tanti a Depan­filo, facendo pre­sente che, dotati di rifornimento, molti hanno spa­rato e rica­ri­cato i loro fucili. Le canne delle rivol­telle risul­tano pulite ma all’avvocato Mari­nelli non è con­sen­tito con­trol­larle. La que­stura, soste­nendo che ave­vano sparato dall’interno del salone, attri­bui­sce la colpa ai cit­ta­dini. È falso, i par­te­ci­panti erano tutti disar­mati. Il gior­nale com­menta: «Se le belve mon­tu­rate vole­vano spa­rare a tutti i costi, pote­vano almeno spa­rare in aria», smen­ti­sce il lan­cio di sassi, tavoli, barili ed altro ai cara­bi­nieri, tranne il lan­cio di un fascio di canne sec­che e di mani­fe­stini bian­chi scam­biati per una pie­tra. Un’ondata di indi­gna­zione si dif­fonde per la città. Ne «La Stampa» dell’8 giu­gno un testi­mone ocu­lare con­ferma che non sono stati lan­ciati sassi e che la riu­nione pri­vata era stata indetta per pro­te­stare con­tro il comi­zio vie­tato all’ultimo momento. All’uscita le vie sono sbar­rate. I cara­bi­nieri respin­gono e basto­nano i cit­ta­dini che gri­dano «Assas­sini! vigliac­chi! Lascia­teci pas­sare! Non vogliamo far niente!». Nella not­tata i ritrovi pub­blici sono chiusi in segno di lutto e la Camera del Lavoro proclama lo scio­pero gene­rale, che sarà con­ti­nuato oltre la sepol­tura dei morti. Eccidi pro­le­tari Alla noti­zia dell’ennesimo ecci­dio pro­le­ta­rio, che si dif­fonde rapi­da­mente, avven­gono mani­fe­tazioni spon­ta­nee di pro­te­sta, soprat­tutto nelle Mar­che e nelle Roma­gne. A Napoli gli eser­cizi pub­blici sono chiusi, i dimo­stranti al Con­so­lato russo, in Piazza Ple­bi­scito, al rifiuto di togliere la ban­diera italiana, fran­tu­mano i vetri; al Con­so­lato degli Stati uniti otten­gono il ritiro della ban­diera ita­liana e ame­ri­cana. Tre dimo­stranti muo­iono e quat­tro sono feriti. Nelle strade e nelle piazze sol­dati e caval­le­ria. La Camera del Lavoro par­te­cipa in forma solenne ai fune­rali. La que­stura, tra repubblicani e anar­chici, arre­sta trenta per­sone. Alla Camera l’8 giu­gno, l’onorevole Gra­zia­dei grida: «Que­sto degli eccidi pro­le­tari è un pri­mato dell’Italia tra le genti civili». Salan­dra — scrive «La Stampa» — «attra­versa un brutto quarto d’ora». Il Par­tito Socia­li­sta e la Camera del Lavoro pro­cla­mano lo scio­pero generale. Ad Ancora ferita, pal­lida sotto il sole velato, Mala­te­sta «si aderge tonante nei comizi che si moltipli­cano, e l’agitatore anar­chico padro­neg­gia la folla con la sua carat­te­ri­stica elo­quenza, che fa vibrare sen­ti­menti di dolore, di pietà, di ribel­lione». Vio­len­tis­simo, afferma la neces­sità della rivolta armata con­tro lo Stato, con­tro i suoi poteri e con­tro l’esercito. Il vice-commissario di pub­blica sicurezza è messo in fuga con gli agenti inse­guiti con sassi e bastoni. A fine comi­zio, alle 11, un’imponente colonna fischia la pre­fet­tura; al Muni­ci­pio chiede di esporre la ban­diera abbru­nata in segno di lutto. Lanci di sassi fran­tu­mano i vetri, …