PER UN RISORGIMENTO MERIDIONALE

Contro le falsificazioni della Storia. Contro le nostalgie di un eden borbonico mai esistito. Contro una classe dirigente che scarica sul passato le proprie responsabilità. Per una conoscenza autentica del Risorgimento meridionale. Per un nuovo Meridionalismo. Per un Sud Mezzogiorno d’Europa. Il 18 ottobre 1794 venivano giustiziati mediante impiccagione, per ordine del paterno governo borbonico, in piazza Castello a Napoli, Emanuele De Deo, Vincenzo Galiani e Vincenzo Vitaliani, rei di stato per aver “seminato nel popolo” le idee di libertà e di uguaglianza. Iniziava così il Risorgimento italiano. Ricordare il sacrificio dei giovani patrioti repubblicani meridionali oggi vuol dire respingere tutte le letture distorte e le falsificazioni che vogliono ridurre il Risorgimento a mera conquista regia dei Savoia a discapito degli altri Stati italiani, ad un evento diplomatico e militare, favorito da fantomatiche cospirazioni internazionali. Vuol dire riaffermare il carattere di rivoluzione politica e culturale del Risorgimento. Una rivoluzione che ha avuto il suo prezzo, come tutte le rivoluzioni, ma senza la quale non avremmo mai avuto la moderna nazione italiana, libera, democratica, repubblicana, aperta all’Europa, voluta da Mazzini e Garibaldi Una rivoluzione di cui il Sud non è stato spettatore passivo o peggio ancora vittima sacrificale, ma protagonista attivo. Vuol dire rivendicare l’attualità della Rivoluzione napoletana del 1799, dei moti del 1820-21 e del 1848, del sacrificio di Carlo Pisacane, dell’impresa garibaldina che vide partecipare decine di migliaia di meridionali a fianco dei volontari provenienti da tutta Italia e non solo, delle molteplici anime del Meridionalismo, della tradizione democratica mazziniane e garibaldina dei Bovio, dei Colajanni, degli Imbriani – del Secondo Risorgimento – la Resistenza – che ebbe nelle quattro giornate di Napoli uno dei suoi momenti più alti di partecipazione corale e popolare. Vuol dire ribadire la necessità di un Meridionalismo rinnovato, che si ricolleghi alle proprie radici illuministiche, risorgimentali e democratiche, la cui latitanza ha consentito il diffondersi di un sudismo piagnone e vittimista. Facciamo quindi appello all’opinione pubblica, alla società civile e al mondo culturale meridionali e italiani perché rifiutino la logica rituale della rievocazione di una memoria che, in quanto tale, non può che essere soggettiva e di parte ed altro non è oggi che l’alibi per classi dirigenti incapaci, pronte a scaricare sul passato la responsabilità dei propri fallimenti e – respingendo le suggestioni di un Sud folcloristico che altro non fa che riproporre riverniciati a nuovo tutti i più vieti stereotipi sul Mezzogiorno – animi una nuova stagione culturale di ricerca e di dibattito che, a partire dalla riscoperta autentica del Risorgimento meridionale in tutta la sua complessità, sappia imporre nuovamente la questione meridionale come grande questione nazionale, immaginando un Sud Mezzogiorno d’Europa, lontano da ogni chiusura identitaria e da ogni nostalgia reazionaria. Annita Garibaldi Jallet (Associazione Garibaldini) Mario Di Napoli  (Associazione Mazziniana Italiana) Clicca qui per aderire al Manifesto   SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

8 SETTEMBRE 1902 L’ECCIDIO DI CANDELA

Candela ha un posto nella storia del movimento operaio italiano, e, più in generale, nella dura e sanguinosa storia delle lotte che i lavoratori italiani, già dalla fine del secolo scorso, hanno condotto per la loro emancipazione. Al nome di questo centro del Sub-appennino foggiano è legato un avvenimento di violenza e di sangue: l’eccidio dell’8 settembre 1902. Otto morti e venti feriti. Tutti lavoratori e popolani, fra i quali una donna. Per anni ed anni il nome del brigadiere dei carabinieri Centanni, autore principale dell’eccidio, fu il simbolo della repressione e della violenza antiproletaria, il simbolo stesso di uno Stato forte, soprattutto nei confronti delle plebi meridionali, aggredite dalla fame, dalla miseria, dalla prepotenza di un padronato rozzo ed esoso, al cui servizio l’apparato statale, in tutte le sue componenti, si era posto. L’eccidio di Candela si inserisce in quella serie di repressioni sanguinose che colpiscono sopratutto il Mezzogiorno, tra il 1902 e il 1906. Non solo nel corso di rivolte e di tumulti di plebi affamate e disorganizzate si interveniva con tutti i mezzi per « ristabilire l’ordine », ma l’intervento repressivo veniva adoperato, come strumento a difesa dell’assetto proprietario nelle campagne e del diritto allo sfruttamento più spietato dei lavoratori, anche là dove, come in Puglia e, segnatamente nella Capitanata, già dalla fine dello scorso secolo era venuto formandosi un movimento organizzato di braccianti e di contadini poveri, che trovava nelle sezioni socialiste e nelle Leghe di resistenza i suoi punti di forza. La rievocazione di questo avvenimento, a distanza di oltre secolo, vuole essere non solo un contributo alla conoscenza di un periodo di lotte aspre che i lavoratori della Capitanata hanno condotto per la difesa dei loro diritti, fra i quali quello di organizzarsi e di far valere l’unica vera arma di cui potessero disporre, l’unione, l’organizzazione, il collegamento su di un piano ideale e pratico, ma vuole essere, ad un tempo, un omaggio alla memoria di quei lavoratori che pagarono con la vita la loro aspirazione ad essere considerati uomini e non bestie da soma. — « Hanno votato ordini del giorno di protesta pei fatti di Candela: il Comitato giovanile socialista di Rovigo, la Sezione di Badolato, la Federazione socialista di Firenze (con un invito ai deputati socialisti ad abbandonare la benevola diffidenza per il Ministero), il Circolo Socialista e le leghe dei pastori e contadini di S. Nicandro Garganico, il Circolo di Romito, la Sezione di Cerignola, il Comitato centrale della Federazione delle leghe contadine della Lomellina, la Sezione di Arezzo, il Circolo giovanile di Poggibonsi, la Sezione di Moglia di Mantova, la Sezione di Catania, il Comitato centrale della Federazione calzolai di Milano ». — Il «Popolo romano » : « La questione di principio del concedere o no le onorificenze nei conflitti fra cittadini e soldati potrebbe farsi, tutt’al più, nelle lotte civili, ossia, che hanno specialmente carattere politico, nelle quali è costretta ad interviene la truppa. Giacché se si volessero sopprimere le ricompense al valore per i carabinieri e per gli agenti di pubblica sicurezza che affrontano ogni giorni con rischio della vita i malfattori, i facinorosi e i pazzi, bisognerebbe chiedere all’ufficioso allegro, che ha tanta fiducia nei mezzi morali, se crede proprio d’ispirare e di ricompensare gli eroismi dei carabinieri con la sola paga giornaliera, che è di lire 1.90 se a piedi, e 2.25 se a cavallo. « L’Avanti! » rispondendo al « Popolo romano » scrive : « Questo è cinismo. Perchè si può – come abbiamo fatto anche noi – deplorare che nella massa degli scioperanti si sia trovato qualche impulsivo o squilibrato, ma bisogna avere, come si dice, il pelo sullo stomaco per dimenticare che l’occasione di quelle impulsività si trova appunto in una lotta civile – lotta tra capitale e lavoro – che erompe dalle leggi incoercibili della costituzione sociale. Vorremmo poi sapere se la « ricompensa morale » che, secondo il « Popolo romano », dovrebbe servire da supplemento alla paga dei carabinieri ha da consistere nell’incoraggiarli alle carneficine che vanno oltre, ben oltre, alle necessità della legittima difesa e ai doveri dell’ufficio. Giacché, sin che le inchieste Barbato, Comandini e Lollini non siano smentite sulla circostanza in esse assodata che i carabinieri continuarono a sparare pazzamente anche dopo passato il loro personale pericolo, encomiarli di avere sparato a quel modo vorrebbe dire mettere le vite dei cittadini sulla bocca dei fucili e dei revolvers affidati alle mani di facinorosi e di pazzi ».       SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. 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CAPORETTO 24 OTTOBRE 1917

I socialisti italiani, contrari all’entrata in guerra dell’Italia nella I guerra mondiale con lo slogan “Né aderire, né sabotare”, prendono atto del cambiamento della natura del conflitto da guerra di conquista a guerra di difesa del territorio nazionale. Sono i leaders riformisti Filippo Turati e Claudio Treves, con parole che arrivano anche nelle trincee, a chiamare i lavoratori ed il popolo alla solidarietà nazionale. – “Quando la patria è oppressa, quando il fiotto invasore minaccia di chiudersi su di essa, le stesse ire contro gli uomini e gli eventi che la ridussero a tale sembrano passare in seconda linea, per lasciare campeggiare nell’anima soltanto l’atroce dolore per il danno e il lutto, e la ferma volontà di combattere e di resistere fino all’estremo”. Filippo Turati e Claudio Treves, “Proletariato e resistenza”, Critica Sociale del 1-15 novembre 1917 — – “Voi avete detto, onorevole Orlando: ‘Grappa è la nostra patria!’ Orbene, ciò è per tutti noi, per tutta l’Assemblea! … le ore difficili le attraversiamo anche noi, le ore dell’angoscia le viviamo anche noi … noi non crediamo che la guerra possa condurre a quei fini che voi credete … Grappa è la nostra patria, ma la patria si serve da ciascuno secondo i propri ideali e la propria coscienza”. Filippo Turati, Discorso alla Camera dei Deputati del 23 febbraio 1918 (battaglia del Grappa) — – Nel giugno 1918, nel momento della battaglia del Piave, Filippo Turati dichiarava che non avrebbe votato la fiducia al governo, ma esprimeva la solidarietà anche dei socialisti “con l’esercito che in questo momento combatte per la difesa del Paese”. “Noi ci sentiamo tutti rappresentanti della nazione in armi”, e i socialisti si sentono “anche più di altri”, i rappresentanti di “questo popolo che oggi soffre, combatte e muore”. Per Turati quella non era “l’ora delle discussioni teoriche, delle recriminazioni e delle polemiche”, perché “non è l’ora delle parole, mentre lassù si combatte, si resiste, si muore, per così vasto e profondo arco di confine italiano, e le nostre anime sono tutte egualmente protese nella angoscia, nella speranza, nello scongiuro, nell’augurio”. Era il momento in cui “quando parlano i fatti, quando il sangue cola a fiotti dalle vene aperte di una nazione, di una stirpe, quando tutte le responsabilità più formidabili si addensano su uomini, su partiti, su classi, su istituzioni, bisognava capire che “grondante di sangue e di lacrime, onusta di fato, si affaccia e passa la Storia”. Turati ricordava che la Camera dei Deputati, “di cui tutti sappiamo le umane deficienze” è “la sola espressione legittima, la più vera, la più sincera, la sola espressione possibile oggi del Paese e del popolo”. E ammoniva il Governo: “non perda mai, ma invochi, ma pretenda, il contatto con la Camera, che è la sua legittimità, la sua forza, la sua ragione”. Con il voto “noi diciamo arrivederci, arrivederci presto, arrivederci tutti quanti – ai colleghi e al Governo. E il saluto questa volta non è vacuo cerimoniale di galateo. E’ anche – dei socialisti italiani – l’arrivederci augurale all’Italia “ Discorso alla Camera dei Deputati del 12 giugno 1918 (battaglia del Piave).   SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

LA CARTA DI ALGERI

Ogni popolo ha il diritto imprescrittibile e inalienabile all’autodeterminazione. Esso decide il proprio statuto politico in piena libertà e senza alcuna ingerenza esterna LA CARTA DI ALGERI (Lelio Basso) Proclamata da Lelio Basso ad Algeri il 4 luglio 1976, data simbolica in quanto duecentesimo anniversario della Dichiarazione d’Indipendenza americana, stabilisce i diritti fondamentali dei popoli all’ esistenza, alla autodeterminazione, alle risorse, alla cultura, all’ambiente, anticipando concetti e principi che successivamente saranno – almeno parzialmente – acquisiti dal Diritto internazionale. Preambolo Noi viviamo tempi di grandi speranze, ma anche di profonde inquietudini; – tempi pieni di conflitti e di contraddizioni; – tempi in cui le lotte di liberazione hanno fatto insorgere i popoli del mondo contro le strutture nazionali e internazionali dell’imperialismo e sono riusciti a rovesciare i sistemi coloniali; Ma questi sono anche tempi di frustrazioni e di sconfitte, in cui nuove forme di imperialismo si manifestano per opprimere e sfruttare i popoli. L’imperialismo, in forza di meccanismi e di interventi perfidi o brutali, con la complicità di governi spesso da esso stesso imposti, continua a dominare una parte del mondo. Attraverso l’intervento diretto o indiretto, utilizzando le società multinazionali, appoggiandosi sulla corruzione delle polizie locali, prestando il suo aiuto a regimi militari fondati sulla repressione poliziesca, la tortura e la distruzione fisica dei suoi avversari, servendosi di tutte le strutture e attività alle quali è stato dato il nome di neo-colonialismo, l’imperialismo estende il suo controllo su molti popoli. Coscienti di interpretare le aspirazioni della nostra epoca, ci siamo riuniti ad Algeri per proclamare che tutti i popoli del mondo hanno pari diritto alla libertà: il diritto di liberarsi da qualsiasi ingerenza straniera e di darsi il governo da essi stessi scelto, il diritto di lottare per la loro liberazione, nel caso fossero in condizioni di dipendenza, il diritto di essere assistiti nella loro lotta dagli altri popoli. Convinti che il rispetto effettivo dei diritti dell’uomo implica il rispetto dei diritti dei popoli, abbiamo adottato la Dichiarazione Universale dei Diritti dei Popoli. Che tutti coloro che nel mondo conducono, a volte con le armi in pugno, la grande lotta per la libertà di tutti i popoli trovino in questa dichiarazione la conferma della legittimità della loro lotta. SEZIONE I DIRITTO ALL’ESISTENZA Articolo 1 Ogni popolo ha diritto all’esistenza. Articolo 2 Ogni popolo ha diritto al rispetto della propria identità nazionale e culturale. Articolo 3 Ogni popolo ha il diritto di conservare pacificamente il proprio territorio e di ritornarvi in caso di espulsione. Articolo 4 Nessuno, per ragioni di identità nazionale o culturale, può essere oggetto di massacro, di tortura, persecuzione, deportazione, espulsione, o essere sottoposto a condizioni di vita tali da compromettere l’identità o l’integrità del popolo a cui appartiene. SEZIONE II DIRITTO ALL’AUTODETERMINAZIONE POLITICA Articolo 5 Ogni popolo ha il diritto imprescrittibile e inalienabile all’autodeterminazione. Esso decide il proprio statuto politico in piena libertà e senza alcuna ingerenza esterna. Articolo 6 Ogni popolo ha il diritto di liberarsi da qualsiasi dominazione colonialeo straniera diretta o indiretta e da qualsiasi regime razzista. Articolo 7 Ogni popolo ha il diritto a un governo democratico che rappresenti l’insieme dei cittadini, senza distinzione di razza, di sesso, di credenza o di colore e capace di assicurare il rispetto effettivo dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali per tutti. SEZIONE III DIRITTI ECONOMICI DEI POPOLI Articolo 8 Ogni popolo ha il diritto esclusivo sulle proprie ricchezze e risorse naturali. Esso ha il diritto di rientrarne in possesso se ne è stato spogliato e di recuperare gli indennizzi pagati ingiustamente. Articolo 9 Poiché il progresso scientifico e tecnico fa parte del patrimonio comune all’umanità, ogni popolo ha il diritto di parteciparvi. Articolo 10 Ogni popolo ha diritto a che il proprio lavoro sia valutato giustamente e che gli scambi internazionali avvengano a condizioni paritarie ed eque. Articolo 11 Ogni popolo ha il diritto di darsi il sistema economico e sociale da lui stesso scelto e di perseguire la propria via di sviluppo economico in piena libertà e senza ingerenze esterne. Articolo 12 I diritti economici sopra enunciati devono esercitarsi in uno spirito di solidarietà tra i popoli del mondo e tenendo conto dei loro rispettivi interessi. SEZIONE IV DIRITTO ALLA CULTURA Articolo 13 Ogni popolo ha il diritto di parlare la propria lingua, di preservare e sviluppare la propria cultura, contribuendo così all’arricchimento della cultura dell’umanità. Articolo 14 Ogni popolo ha diritto alle proprie ricchezze artistiche, storiche e culturali. Articolo 15 Ogni popolo ha diritto a che non gli sia imposta una cultura ad esso estranea. SEZIONE V DIRITTO ALL’AMBIENTE ED ALLE RISORSE COMUNI Articolo 16 Ogni popolo ha diritto alla conservazione, alla protezione e al miglioramento del proprio ambiente. Articolo 17 Ogni popolo ha diritto all’utilizzazione del patrimonio comune dell’umanità come l’alto mare, il fondo dei mari, lo spazio extraatmosferico. Articolo 18 Nell’esercizio dei diritti sopra elencati, ogni popolo deve tenere conto della necessità di coordinare le esigenze del proprio sviluppo economico e quelle della solidarietà fra tutti i popoli del mondo. SEZIONE VI DIRITTI DELLE MINORANZE Articolo 19 Quando un popolo rappresenta una minoranza nell’ambito di uno stato, ha il diritto al rispetto della propria identità, delle tradizioni, della lingua, del patrimonio culturale. Articolo 20 I membri della minoranza devono godere senza discriminazione degli stessi diritti che spettano agli altri cittadini e devono partecipare in condizioni di uguaglianza alla vita pubblica. Articolo 21 L’esercizio di tali diritti deve realizzarsi nel rispetto degli interessi legittimi della comunità presa nel suo insieme e non può autorizzare lesioni dell’integrità territoriale e dell’unità politica dello stato, quando questo si comporti in conformità con tutti i principi enunciati nella presente Dichiarazione. SEZIONE VII GARANZIE E SANZIONI Articolo 22 Qualsiasi inosservanza delle disposizioni contenute nella presente Dichiarazione costituisce una trasgressione di obblighi verso la comunità internazionale tutta intera. Articolo 23 Ogni pregiudizio derivante dall’inosservanza della presente Dichiarazione deve essere integralmente riparato da parte di colui che l’ha provocato. Articolo 24 Ogni arricchimento realizzato a detrimento di un popolo in violazione delle disposizioni della presente Dichiarazione esige la …

Mi infastidisce l’imbarazzo verso il Socialismo Italiano. Rappresenta un secolo di storia

Avrei diritto al copyright. Scherza l’on. Giorgio Ruffolo, economista, esponente dell’area socialista. E stato lui un anno fa a parlare di «Stati generali» della sinistra. Ora che l’appuntamento è fissato per metà febbraio a Firenze può esserne soddisfatto. Quella sarà la pista di decollo del nuovo partito della sinistra a cui da tempo stanno lavorando D’Alema e altri protagonisti della sinistra fra cui Ruffolo. Onorevole dopo tanti rinvii questa sembra la volta buona. La «Cosa 2» dopo tante oscillazioni e frenate ora dovrà uscire dal generico e assumere i contorni precisi di nuovo partito della sinistra che ha l’ambizione di diventare più grande e più forte di quanto oggi la sinistra non sia. Ne è contento? «Certo. Sarei più contento se poi ne nascesse effettivamente la Costituente. Senza passare per il terrore perché abbiamo già dato». Battute a parte però le polemiche è i mal di pancia non mancano. «E come l’ingresso dell’Italia nella moneta unica. Quando non ci credeva nessuno sembrava che tutto fosse pacifico. Mari che invece la prospettiva diventa concreta e imminente allora vengono i mal di pancia soprattutto di quelli che ne avevano creduto, né avevano voluto. E così anche nei riguardi di questa impresa storica. All’inizio c’è stata indifferenza e incredulità. E adesso che l’appuntamento è fissato vengono fuori conflitti, tensioni, reticenze, rigetti e paure che non si erano manifestati nella fase di incredulità. E una cosa abbastanza naturale e va fronteggiata senza sfuggire ai contrasti». Appunto le tensioni, le incomprensioni. Giuliano Amato andrà a Firenze, ma ha anche detto che non se la sente di stare con chi, il riferimento è soprattutto per i pidiessini, pensa che il passato dei socialisti sia vergognoso. E un tasto spinoso che evoca tanti rancori. «Penso che Amato abbia molte, valide ragioni. Per quanto riguarda il tema della rimozione del socialismo italiano credo che abbia ragioni da vendere. Nessuno vorrebbe partecipare ad un partito> ad un’impresa politica nella quale ha l’impressione di essere tollerato, perdonato o assolto da qualche cosa che non ha commesso e della quale non si sente in alcun modo responsabile. E soprattutto nessuno vi vorrebbe entrare se non fosse riconosciuto, con chiarezza e senza masticare le parole, la tradizione della quale è portatore». Si riferisce a episodi in particolari? «Qualche volta quando si parla di socialisti c’è la traccia di un imbarazzo che un socialista non può tollerare. Non può si parlare di socialista senza aggiungere azionista, laico, cattolico, cristiano, progressista, liberale. E ridicolo che questo aggettivo che rappresenta cento anni di storia debba essere sempre velato da cortine eufemistiche. Non possiamo essere presentati in pubblico se non abbiamo un corteo di accompagnatori. Siamo un po’ infastiditi di questo C’è una cosa che si chiama socialismo, di cui i comunisti sono stati partecipi per un terzo del percorso e che e parte integrante della storia della sinistra e dell’Italia, che non può essere messa in un’insalata nizzarda con tante altre cose per poter essere commestibile». Amato riconosce che il vertice del Pds ha fatto grandi passi in avanti e che le ostilità seminai vengono dalla base. C’è una strada per colmare questo divario? «Nei percorsi innovativi c’è sempre distanza tra chi sta all’avanguardia, e sono soprattutto le vette più illuminate della classe dirigente e chi ancora e legato non soltanto ai miti, ma anche ai rancori. Questo non sorprende. Però è tanto più necessario che chi ha la responsabilità di guidare illumini gli strati più sordi e non li lasci alloro rancori. E quindi importanti che un’azione di chiarimento ci sia. Il fatto che sul socialismo italiano ci sia silenzio non aiuta quelli che hanno maggiori riserve ad uscire dal loro stato di diffidenza e ostilità. Non aggiunge nulla e toglie molto a questa nuova esperienza politica nella quale si entra se ci si è liberati dalle scorie di un passato che è passato, ma che non deve essere dimenticato. Per potere mettere in archivio la storia bisogna poterla chiarire, spiegare». Questo e un percorso che non si può fare dall’oggi al domani «Indubbiamente. Infatti io sono molto critico nei riguardi di quelli che dicono che bisogna ancora aspettare. Ma aspettare che cosa? Un chiarimento si fa insieme. E dei tutto illusorio pensare che rinviando questa scadenza di Firenze si possa agevolarne ti percorso e il compimento. Al contrario. Più si rinvia e più i muri diventano alti e le barriere si fanno invalicabili. Non so se questo nuovo partito si farà e si farà come lo vorrei. Ma sono convinto che se non si farà o si farà male non saranno i socialisti o gli ex socialisti ad esserne colpiti. Sarà la sinistra intera che perderà l’occasione di costituire una forza pari> per robustezza ed ampiezza, a quella degli altri grandi partiti della sinistra europea. Torniamo alle critiche di quei socialisti che guardano ancora con diffidenza all’idea di fondare, insieme al Pds e ad altre forze della sinistra, un partito più grande e più forte della sinistra. Quanto di queste critiche condivide e non condivide? «Mi trovo d’accordo con quanti fanno questo ragionamento. Ma come? C’è un Pds che è l’erede del Pci, che abbiamo avuto sempre dall’altra parte quando il riformismo e la socialdemocrazia erano da loro considerate delle brutte parole, e che adesso si definisce riformista e socialdemocratico, ma vorrebbe entrare in Europa e nel socialismo europeo come se il socialismo italiano non esistesse. Questo non è possibile, non è ammissibile ed è anche un po’ ridicolo. Non si può avere un cappello a Bruxelles e un altro a Roma sussurrando a chi vuole sentire che il socialismo italiano è un> altra cosa. No. IL socialismo italiano ha cento anni di storia. La storia bisogna ripercorrerla equamente onestamente non come fosse un’area di buoni e di cattivi. E le cose che non condivide? «Le posizioni opportunistiche. Mi si rimprovera di essere stato eletto con i voti dei comunisti. Ma da chi si sono fatti eleggere molti dirigenti di quel partito, il Si che si proclama erede del Psi e non …

L’ECCIDIO DI SAN GIOVANNI ROTONDO

Un oscuro episodio che si intreccia con la vita del frate di Pietrelcina Nel massacro di S. G. Rotondo Padre Pio fu con gli arditi neri Il 14 ottobre del 1920, durante il biennio rosso, 13 socialisti caddero vittime della reazione seguita alla vittoria socialista nelle elezioni amministrative del piccolo comune del Gargano. Perse la vita anche un carabiniere. (Tratto dalla relazione dell’Ispettore Generale di Pubblica Sicurezza Vincenzo Trani al Ministro degli Interni  Roma, 3 Novembre1920) “La mattina del 14 ottobre 1920, il Partito Socialista intese festeggiare la propria vittoria elettorale organizzando un corteo con le bandiere rosse e la banda musicale. Il corteo, finito il secondo giro per le vie del paese, sostò in Piazza dei Martiri deciso a inalberare la bandiera rossa, simbolo della vittoria, su uno dei balconi del Municipio. I manifestanti trovarono l‘opposizione di un ingente schieramento formato da 40 carabinieri, 82 soldati e un centinaio di sconsigliati fascisti che, sentendosi adeguatamente spalleggiati, misero in atto provocazioni e invettive. FU UN ATTIMO. La folla si urtò contro la forza pubblica, detonarono colpi di pistola e di fucili”.  “San Giovanni Rotondo, paesello del forte e dimenticato Gargano è noto in Italia per i voluti miracoli di Padre Pio, miracoli che hanno formato la fortuna di parecchi speculatori”. Le parole che abbiamo riferito non sono state scritte in questi giorni dai corrispondenti scesi a S. Giovanni Rotondo a descrivere la mesta e solitaria Pasqua del padre di Pietrelcina, estromesso, per intervento del Vaticano, dalle funzioni della Settimana Santa, dopo che la sua attività di mistico taumaturgo ha suscitato sospetti e diffidenze persino nelle gerarchie ecclesiastiche. Queste parole sono l’inizio di una corrispondenza apparsa sull’Avanti! quarantuno anni fa, esattamente il 20 ottobre 1920, per un’occasione che non ha nulla a che vedere con le inchieste di oggi sugli episodi di fanatismo religioso e sulle losche speculazioni che superstizione e ingenuità hanno alimentato. Il titolo della corrispondenza era infatti: “Il massacro di San Giovanni Rotondo”. Il massacro era avvenuto sei giorni prima, il 6 ottobre, e fu uno dei tanti che insanguinarono l’Italia nel periodo che va sotto il nome di biennio rosso, allorché più violenta si scatenò l’aggressione degli squadristi di ogni risma, fratelli della polizia e della guardia regia contro i lavoratori e le loro organizzazioni. Il legame tra Padre Pio e il sanguinoso episodio non si limita alla circostanza che il fatto avvenne nello stesso luogo dove già allora egli si era acquistato fama di artefice di miracoli più o meno “voluti”. A quell’epoca Padre Pio non era il mistico contemplativo, spargitore di grazie, che conosciamo oggi. Era anche questo, ma sebbene provato, riferiscono intempestivi agiografi – dalle notturne lotte col demonio “da cui riportava i segni visibili sul corpo”, il trentaquattrenne cappuccino conservava forza bastante per dedicarsi ad altro genere di lotte. E le lotte di quel tempo si combattevano nel modo che tutti sanno, ma Padre Pio non era uomo da tirarsi indietro. Egli aveva dato dimostrazione della sua energia fin dal primo momento che mise piede a San Giovanni Rotondo. Le cose nel paesello non andavano troppo bene. Le chiese erano poco frequentate, le osterie, invece, rigurgitavano, a quanto pare, di avvinazzati bestemmiatori. L’arrivo del frate bastò a modificare la situazione: le osterie si fecero deserte, le chiese si ripopolarono. Afferma una biografia che “sparì la bestemmia, risanarono le famiglie, si placarono gli odi e cessarono le contese”. L’effetto di tutto ciò, racconta sempre la biografia dello stigmatizzato di San Giovanni, fu che “gli avvocati non avevano più nulla da fare”. Ma la quiete non fu di lunga durata se di lì a qualche anno, cioè nel 1920, il frate di Pietrelcina si trovò a fronteggiare una situazione estremamente grave, dalla quale il 14 ottobre di quell’anno scaturì il massacro di cui parlava il nostro giornale, un eccidio in cui si ebbero 11 morti e ottanta feriti. Quale fu la parte di Padre Pio e dei suoi frati in quell’episodio e negli eventi che lo precedettero? I fatti si possono ricostruire dalla cronaca che ne dette l’Avanti! nel suo numero del 20 ottobre 1920, e dagli atti parlamentari relativi alla discussione che si svolse alla Camera il 5 dicembre dello stesso anno sul tragico episodio. Nel 1920 si stava procedendo in tutta Italia alle elezioni amministrative che segnavano un notevole successo dei socialisti. Si doveva votare anche a San Giovanni Rotondo che era retto da un commissario prefettizio, un certo Carmelo Romano, un individuo su cui pendeva anche un processo per violenza carnale. Per il timore di una vittoria socialista, si tentò di rinviare le elezioni, si verificarono diversi episodi di violenza e di intimidazione, ma infine la popolazione di San Giovanni Rotondo andò alle urne. Il blocco conservatore agrario che si esprimeva nei cosiddetti libero-popolari fu sconfitto: i socialisti ebbero la maggioranza col 1069 dei voti contro 850. Per il rinvio delle elezioni si era mosso quello che il deputato socialista Mucci nella discussione alla Camera, chiamò blocco o fascio d’ordine, che, precisò, “andava dai combattenti patriottici a Padre Pio e agli arditi neri”. In questo modo il nome del taumaturgo fu direttamente legato se non all’episodio del massacro ai suoi antefatti, alle cause che lo determinarono e ai gruppi che lo provocarono. Il clero del luogo si era dato un gran daffare per favorire nella campagna elettorale il blocco conservatore e nazionalista ma il suo intervento non era valso a mutare l’esito della consultazione. Essendosi mossi “preti e frati che in quel paese abbondano” – come si legge nel vecchio numero del nostro giornale – è difficile credere che Padre Pio non se ne era stato con le mani in mano. I socialisti, a suo giudizio, dovevano minacciare il prezioso lavoro di bonifica delle osterie che, a quanto affermano i suoi biografi, egli aveva felicemente compiuto. E’ certo comunque, perché l’affermazione di Mucci non viene contestata dal sottosegretario agli Interni Corradini, che Padre Pio era un personaggio di rilievo nel “fascio d’ordine” che tentò dapprima di opporsi alle elezioni e che …

Lina Merlin una madre della Repubblica

Lina Merlin, dopo il confino in Sardegna, perseguitata dal fascismo, si trasferisce a Milano che elegge a sua città di adozione. Vive e lavora nel quartiere Lambrate in Via Catalani 63, dove si riuniscono i promotori dell’insurrezione milanese del 1945. Insegna in casa e poi al Caterina da Siena, per l’impegno profuso dalla Preside Ines Saracchi, fonda i Gruppi di Difesa della Donna ed è tra le promotrici dell’Unione Donne Italiane a Milano. Il 27 aprile 1945 viene nominata Vicecommissario alla Pubblica Istruzione nel Comitato di Liberazione Nazionale della Lombardia e il 29 giugno è chiamata a far parte della direzione nazionale del partito socialista, in qualità di responsabile della commissione femminile. A Milano, con Carla Barberis Voltolina, raccoglie e pubblica le lettere a lei spedite dalle prostitute italiane. Eletta prima Senatrice della Repubblica Italiana nel 1948, nel 1958 è poi eletta alla Camera dei Deputati nella circoscrizione di Verona-Padova- Vicenza -Rovigo, ma tiene comunque una casa in periferia a Milano, in Via Martignoni, dove stabilisce rapporti con la Società Umanitaria per un progetto per il “suo” Polesine. Trasferitasi ormai bisognosa di assistenza a Padova, esprime la volontà di essere sepolta a Milano, e la città a cui era tanto legata decide che Lina Merlin trovi posto nel Famedio del Cimitero Monumentale. Una figura dunque importante nella storia d’Italia, e di Milano in particolare, che si vuole non solo ricordare ma far conoscere soprattutto alle nuove generazioni, per l’impegno politico e sociale da lei profuso e per affrontare questioni, come quella dello sfruttamento della prostituzione, da lei aperte ma mai fino in fondo risolte anche ai giorni nostri.   SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

ANOMALIE A SINISTRA

(In questo numero de “Le ragioni del Socialismo” fu pubblicato un articolo di Gino Giugni , il quale intervenne nel dibattito aperto dalla rivista sulle prospettive della sinistra e sulla diaspora socialista). La natura non fa salti, e meno che mai accetta fughe in avanti. E in questa trappola rischia davvero di cadere l’alternativa tra partito democratico o dell’Ulivo e ipotetico partito socialdemocratico, punto di arrivo del grande travaglio del socialismo italiano: un travaglio che dura, a dir poco, dal lontanissimo giorno della scissione di Livorno. E’ risultato evidente che l’area dell’Ulivo, come ha dimostrato lo scarto positivo di quest’ultima rispetto all’esito proporzionale, gode di un vantaggio. Ma non è affatto detto che il modulo della coalizione, quello che ha presieduto alle positive sorti dell’Ulivo stesso, conduca ad una coincidenza necessaria tra quest’ultimo e l’area del partito che occupi, nell’ambito della coalizione stessa, la posizione di sinistra. Quest’ultima corrisponde oggi, la si chiami come si vuole, al modulo della socialdemocrazia. Ed essa poggia su consistenti basi. In primo luogo, vien da considerare l’organizzazione compatta e capillare che si è formata intorno al Pci, e che già dopo la Liberazione era divenuta patrimonio proprio, contestato debolmente, ed un po’ anche irresponsabilmente, dal Psi di allora. E’ una constatazione che va messa in primo piano: le solide e profonde radici di quello che fu all’origine un partito della Terza Internazionale hanno potuto attraversare un’autentica mutazione genetica (mai tale espressione fu impiegata così a proposito) grazie alla scelta di darsi un’organizzazione di massa, capace di resistere e, in larga misura, di manifestarsi poco sensibile al mutamento ideologico che veniva a svolgersi per lo meno dagli anni Sessanta in avanti. In secondo luogo, l’appello europeo dovrebbe operare come una spinta alla “normalizzazione” rispetto alla anomalia italiana, costituita dal venir meno di una rappresentanza socialista nelle istituzioni europee e determinata dal collasso del partito socialista, ormai scomparso anche dalla scena parlamentare. Le anomalie, da questo punto di vista, alla fine dei conti sono due, simmetriche tra loro: ossia, la scomparsa dell’entità socialista o socialdemocratica e il consolidamento egemonico, nell’ambito della sinistra, di quella anomala creatura che è il Pds, partito di fisionomia ben radicata nella realtà politica italiana, ma tuttora non assimilabile a nessuno dei modelli europei, o almeno a quelli dell’Europa occidentale, e forse unico nel suo genere: ed infatti l’accostamento a partiti postcomunisti, all’Est ma anche all’Ovest, sarebbe approssimativo e ingannevole. L’anomalia italiana occulta una realtà non decifrabile a prima vista. Quanti pensano ad una tabula rasa, o alla Storia che viene riscritta ex novo, si pongono fuori da ogni realistica interpretazione di vicende umane. Il Pds custodisce una sua memoria collettiva, di cui è anzi tutore molto geloso. Ma il passaggio che si tende a rimuovere è quella parte di quella storia che appartiene al “passato di un’illusione”, per usare qui la fortunata espressione di Furet. E questo passato è quello del Pci, che ad esso non può contrapporre l’artificio di un nuovismo ideologico, impiantato sul tronco di qualche pianta esotica, oppure sulla ricerca di una filosofia indigena che potrebbe nutrirsi anch’essa di una generosa e nuova illusione. Il tentativo più rigoroso compiuto negli anni Sessanta e Settanta fu quello che venne banalizzato nella definizione di cattocomunismo, e che in termini volgarizzati si espresse nell’idea di una “diversità” e di una separatezza in gran parte costruita sull’impervio impianto di una etica esclusiva di partito. A questa ipotesi “autoctona” o “indigena” è possibile invece opporne un’altra, quella che ci dovrebbe far entrare pienamente nell’area politica ma, prima ancora, in quella culturale della socialdemocrazia europea. Beninteso: la stessa terminologia “socialdemocrazia” allude ad una realtà tutt’altro che semplice e semplificabile. La socialdemocrazia in versione europea, oltre ad assumere identità diverse in ragione di percorsi storici propri, è in realtà un crogiolo, un crocevia in cui si ritrovano culture diverse; è, se vogliamo, una spugna la cui efficacia è stata dimostrata dalla capacità di assimilare esperienze diverse, dal pensiero sociale di varie appartenenze confessionali, fino alle grandi realizzazioni del liberalismo, da Roosevelt a Beveridge. La via orientabile a superare l’anomalia italiana è costituita, pertanto, invece dall’innesto della corposa realtà del postcomunismo italiano sulle antiche radici del socialismo e principalmente sulla memoria collettiva e storica segnata dalla appartenenza comune dei due partiti storici. Non è qui in gioco il tema, pur non trascurabile, del recupero di energie, quadri, appartenenze che si chiamarono un tempo socialiste senza ulteriori qualificazioni. Né è in questione in questa sede il tema delle varie diaspore da cui il socialismo italiano è uscito letteralmente distrutto. La diaspora socialista presenta vari aspetti, tra loro difficilmente ricomponibili, alcune delle quali che vanno dalle appartenenze nuove, visibilmente incompatibili con l’identità socialista, e interpretabili soltanto attraverso il modulo della mutazione genetica, fino al transito verso la destinazione finale in cui si comprendano le due sponde postcomuniste. E’ un aspetto che merita attenzione. Ma quello che interessa in questa sede, per rispondere alla domanda posta all’inizio, è se il percorso innovativo dovrà essere scelto nella ricerca della via tutta nuova di una identità diversa che riesca a procedere innanzi rispetto alla tradizione postcomunista e a quella non meno profondamente solcata nella nostra storia, del cattolicesimo democratico, o se riterrà di appoggiarsi al dato di una continuità interrotta, ma visibile nella nostra storia come nella nostra appartenenza geografica. Sono due strade legittime e rispettabili. Ma, forse, la prima di esse, l’Ulivo che tutto copre e comprende, potrebbe assomigliare un pò al sogno dei grandi navigatori, che partirono per buscar el poniente por el levante. E infatti, approdarono in terre nuove. Ci scoprirono l’America, ma la popolazione indigena ne pagò un caro prezzo. Gino Giugni Le Ragioni del Socialismo – Mensile di Politica e Cultura diretto da Emanuele Macaluso – Giugno 1996   SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una …

Socialisti, Ebrei, Rivoluzionari: LA STORIA DEL BUND

Questo interessantissimo volume scritto da Massimo Pieri* e recentemente pubblicato dall’editore Mimesis tratta di un argomento sicuramente poco noto ai lettori italiani, ma non per questo meno importante per la storia del socialismo rivoluzionario: il Bund, ovverosia l’Unione dei Lavoratori Ebrei di Russia, Polonia e Lituania e cioè il movimento socialista rivoluzionario ebraico, fondato a Vilna (Vilnius) nell’ottobre del 1897, molto attivo nelle province nord occidentali dell’impero zarista ad altissima presenza ebraica askenazita e decisivo anche per la nascita di poco successiva, nel marzo del 1898, del Partito Operaio Socialdemocratico Russo (POSDR). Come spiega Valentina Sereni nella Prefazione, Doikeyt è un’espressione yiddish che corrisponde al tedesco Da-keit e significa all’incirca “stare qui”, essere coscientemente “qui”, in un ben preciso luogo ed “ora”, in un determinato e particolare momento. Pertanto, lo slogan usato dai bundisti “Doikeyt. Noi siamo qui ora!” è un’espressione carica di consapevolezza pratico-politica e di progettualità conflittuale; indica la coscienza di essere un qualcosa – classe, movimento, gruppo nazionale – in un luogo e in un tempo precisi al fine di sostenere una legittima e necessaria lotta per la conquista dei diritti, per il cambiamento delle strutture economico-sociali e dei rapporti di produzione, per l’abolizione della società classista e del capitalismo. Ma a questi obiettivi si aggiungono poi quelli propriamente ebraici – definibili come “nazionali”, seppur con un’accezione parecchio diversa da quella solitamente in uso – che richiedono il riconoscimento delle tradizioni e delle abitudini di vita di un popolo, della lingua yiddish, dell’identità e della cultura ebraiche e che sfociano nella difesa armata contro l’antisemitismo e i pogrom, ancora molto frequenti in Russia a cavallo tra XIX e XX secolo. Tutto questo grazie alla formazione di un movimento politico e di un programma rivoluzionari, alla intrapresa di iniziative di lotta non solo radicali ed incisive nel contesto dell’impero russo, ma anche decisamente originali e spesso non comprese appieno né condivise all’interno dell’internazionalismo socialista tra fine 800 e inizio 900. Molto attivo nelle rivoluzioni russe del 1905 e del 1917, il Bund incontrò la diffidenza del partito bolscevico per profonde divergenze ideologiche riguardo al modo di intendere forma e compiti del partito e riguardo alla “questione nazionale”, che l’Unione dei lavoratori ebrei intendeva nei termini della rivendicazione di una identità nazionale e culturale all’interno di un quadro e secondo logiche autenticamente federaliste ed “internazionaliste”, antistataliste, anticentraliste ed antiautoritarie. Un’idea di nazione senza nazionalismo e senza stato, di nazione senza territorio che risultò eccentrica rispetto alle categorie teoriche del marxismo leninista che tacciò di separatismo, particolarismo e ambiguità reazionaria le idee espresse dal Bund, che negli anni Venti e Trenta continuò la propria attività politica soprattutto in Polonia, dove al momento dello scoppio della guerra nel ’39 contava centomila iscritti e otteneva buoni risultati elettorali. Le analisi e le considerazioni di Pieri iniziano con un dettagliato excursus storico sui rapporti tra ebraismo e società e cristianesimo russi, a partire dal XV secolo e dall’assunto di fondo per cui da sempre il cristianesimo ortodosso fu inteso come base dello Stato russo e in tal modo fu stretto un insolubile legame tra le istituzioni politiche e quelle religiose, tra lo zar e il patriarca, tra l’autorità, anche divina, del monarca e l’autorità, anche politica, della Chiesa: una sorta di simbiosi tra cesaropapismo zarista e ierocrazia ortodossa che produsse l’effetto della totale identità e della sovrapposizione tra cristianità, stato russo e suolo russo. In un contesto di questo tipo, le possibilità di inserimento ed integrazione sociali e culturali degli ebrei furono minime se non inesistenti, a meno che non intervenissero la conversione al cristianesimo ed il battesimo. Insomma – potremmo aggiungere – è la situazione che Raul Hilberg, nel suo libro fondamentale sulla shoah, La distruzione degli ebrei d’Europa, descrive con le espressioni: “se rimanete ebrei, non potete vivere tra noi” (per indicare le politiche di conversione forzata praticate nell’Europa cristiana dal medioevo in poi); oppure con l’espressione “non potete vivere tra noi” (per indicare le politiche di espulsione o di respingimento delle moderne monarchie assolute cristiane). Le accuse e i pregiudizi antiebraici – ricorda l’autore sulla scorta soprattutto delle ricerche e degli studi di Leon Poliakov – erano anche in Russia i medesimi diffusi in tutta l’Europa cristiana e quasi tutti declinazioni e varianti del paradigma deicida. Violentissimo fu l’atteggiamento delle autorità politiche e militari che in più occasioni ordinarono e perpetrarono stragi, come nel caso dell’annessione dell’Ucraina orientale nel 1645, quando circa trecentomila ebrei ucraini furono massacrati dai cosacchi, oppure nel corso della guerra polacco-svedese del 1655-56, quando i russi occuparono Bielorussia e Lituania e si accanirono contro gli ebrei del luogo. Di seguito fu imposto l’interdetto agli ebrei affinché non entrassero nel territorio della “vecchia Russia” e in particolare a Mosca e lo stesso interdetto fu fatto valere per la nuova capitale dell’impero, San Pietroburgo, ai tempi di Pietro il Grande (1682-1725). Un aumento considerevole della presenza ebraica in Russia si registrò a seguito delle tre cosiddette “spartizioni polacche” (1772, 1793, 1795), dopo l’età napoleonica, con il Congresso di Vienna e quindi con l’annessione della Bessarabia e delle regioni baltiche e di una parte dell’antico Regno di Polonia ben più estesa di quella già precedentemente sotto il potere dei Romanov. In tal modo proprio la Russia che aveva sempre manifestato ostilità assoluta contro gli ebrei divenne il paese con la quota maggiore di popolazione ebraica in tutta Europa. Con Caterina II si stabilirono le regioni e le città in cui gli ebrei potessero vivere, lavorare, commerciare e questo di fatto portò ad una politica di reclusione degli ebrei nelle regioni di Ucraina, Bielorussia, Lituania e Polonia, che andarono a formare la cosiddetta Zona. L’imperatrice dichiarò anche di voler espellere tutti gli ebrei che non si convertissero al cristianesimo greco-ortodosso, ma il progetto non si realizzò; iniziò invece la politica di ghettizzazione, che doveva confinare la presenza degli ebrei di Russia in territori e sottoporli ad una legislazione speciale rispetto ai sudditi cristiani (p. 21). Al confino fisico si aggiunsero ben presto altre forme di isolamento e discriminazione, di …