LA COMUNE DI PARIGI: IL PRIMO STATO SOCIALISTA DELLA STORIA

di Christian Vannozzi | Il 1 settembre del 1870 Napoleone III veniva sconfitto a Sedan dall’esercito prussiano. Parigi non si fece attendere, e la sua popolazione insorse pochi giorni dopo, il 4 settembre il leader del movimento operaio  Ernest Granger occupò l’Assemblea Nazionale e proclamò la Repubblica. Il Senato e l’Assemblea furono sciolti e si formò un Governo di Difesa Nazionale. Era la fine del bonapartismo, l’imperatrice fuggì in Inghilterra mentre Napoleone III era prigioniero dei prussiani. Il nuovo Governo era diviso tra coloro che volevano continuare la Guerra e coloro che invece volevano porvi fine per stabilizzare, nel miglior modo possibile, la neonata repubblica. All’interno del Governo provvisorio nasceva però la paura verso il socialismo e di conseguenza i moderati e i monarchici cercarono di fare fronte comune per isolare i proletari che invece vedevano di buon grado un Governo che li rappresentasse. Nel frattempo, verso la fine dell’anno la situazione economica precipitò e i prodotti alimentari vedevano aumentare il loro prezzo, tanto che la popolazione parigina iniziò a soffrire la fame e fu costretta a mangiare topi e gatti al posto della carne di bestiame tradizionale. Nel mese di dicembre furono macellati addirittura gli animali dello zoo, come antilopi ed elefanti, per tanta che era la fame, il tutto nella totale incapacità del Governo di fare qualcosa. L’Inverno rigidissimo non fu d’aiuto, poiché mancava il legname e il petrolio. Non tutti potevano riscaldarsi e diversa parte della popolazione morì. Il Governo in mano ai moderati non faceva poi progressi nella Guerra, tanto che i prussiani avevano ormai invaso parte dei territori dell’ex Impero Francese. I socialisti non persero occasione per accusare i moderati di errori tattico militari nonché politici, etichettandoli come gli affamatori del popolo e soprattutto come coloro che stavano vendendo la Francia ai prussiani. La sconfitta subita nelle vicinanze di Parigi da parte dell’esercito repubblicano francese, lanciato allo sbaraglio senza alcuna copertura da parte dell’artiglieria, fece precipitare la situazione, tanto che i superstiti, rientrai nella capitale, iniziarono ad accusare il Governo di averli mandati lì per morire e la popolazione insorse a favore dei militari. La situazione si ristabilì, anche se la repressione fu dura, specialmente contro i proletari e i contadini, i più colpiti dalla crisi. Alle elezioni del 1871 i moderati ottennero la maggioranza e Thiers fu nominato presidente della Repubblica Francese. Fu negoziata la pace con la Prussia, che aveva unificato al Germania, che ottenne l’Alsazia e la Lorena, nonché il pagamento di una ingente cifra come risarcimento di Guerra. Il 18 marzo del 1871 Parigi però insorse autoproclamandosi comune socialista, il primo Governo socialista della storia, noto come la Comune di Parigi. ● Suffragio universale ● Lotta alla povertà ● Democrazia direttamente ● Stato fatto dai cittadini ● Cooperative operaie e gestione di fabbrica Furono questi i punti da realizzare per la Comune parigina, che però ebbe brevissima vita, il 28 maggio il presidente Thiers, con l’aiuto dell’esercito prussiano entrò trionfante a Parigi mettendo fine all’esperienza socialista transalpina. Il cancelliere Bismarck decise di aiutare i nemici per non far dilagare la rivoluzione, che metteva ancora tanta paura all’Europa, specialmente se questa rappresentava l’ideale socialista, vera spina nel fianco dei vari Stati liberali e Conservatori. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

LUIGI MARIOTTI: UN TOSCANO DI ALTRO SPESSORE

Sulla scomparsa di Luigi Mariotti MARINI (Misto-SDI). Esprime i sentimenti di cordoglio dei senatori socialisti per la recente scomparsa di Luigi Mariotti, di cui ricorda la rilevante attivita politica. Svolse infatti un ruolo importante a partire dalla formazione del primo centrosinistra, facendosi in particolare promotore della riforma sanitaria che estese a tutti i cittadini il diritto alla salute e di un ammodernamento delle strutture ferroviarie. Fu convinto sostenitore dell’autonomia del Partito socialista e delle ragioni del centrosinistra, ai fini di un processo riformatore necessariamente graduale in quanto rallentato dalle resistenze dei settori più moderati della Democrazia cristiana. Difese la democrazia contro i rischi di derive autoritarie ed interpretò la proposta di De Martino per equilibri più avanzati nel senso di porre fine alle contrapposizioni tra partiti di Governo e Partito comunista, convinto che la funzione del Partito socialista non avrebbe mai potuto essere di rottura a sinistra. Senato della Repubblica XIV Legislatura–VII–722ª Seduta 18 Gennaio 2005 Sulla scomparsa di Luigi Mariotti Luigi Mariotti fu un dirigente importante del primo centro-sinistra. Si formò all’interno del Partito Socialista di Firenze, ove ricoprì per diversi anni la carica di segretario di federazione. Era un’epoca, quella, durante la quale i partiti svolgevano una funzione di servizio nel formare i gruppi dirigenti, esercitando il ruolo di collante della democrazia e della Repubblica. All’interno del Partito Socialista Mariotti svolse compiti di responsabilità e allorquando divenne consigliere comunale e assessore al Comune di Firenze, esercitò un’azione importante, da tutti riconosciuta, dimostrando grande capacità di amministratore avveduto e corretto. Fu eletto senatore nel 1953, carica che ricoprì fino al 1968. Dal 1968 passò alla Camera, dove rimase fino al 1976. Ricoprì l’incarico di Ministro della sanità nel I e nel II Governo Moro, nel Governo Rumor e nel Governo Colombo. Fu, pertanto, più volte Ministro della Sanità e infine Ministro dei trasporti. La sua azione è ricordata soprattutto per aver iniziato la riforma sanitaria. Prima della riforma che tuttora regola il diritto alla salute dei cittadini italiani (i giovani probabilmente non lo sanno), esisteva un sistema di assistenza sanitaria molto precario, nel senso che in ogni Comune vi erano le cosiddette liste dei poveri, che consistevano nella individuazione dello stato di indigenza che dava diritto ad essere assistiti dai medici condotti. Quindi, non a tutta la popolazione era riconosciuto il diritto alla salute, né tantomeno era possibile per molte persone, che pure non avevano i mezzi ma non erano ritenute povere, essere assistite dalla sanità pubblica. Fu con la riforma voluta da Mariotti che finalmente si estese questo diritto a tutti i cittadini italiani e pertanto la riforma sanitaria divenne una delle grandi conquiste del primo centro-sinistra, una delle grandi conquiste dell’Italia democratica e repubblicana. Come ministro dei trasporti Mariotti si occupò di quello che all’epoca era un problema molto sentito: il ritardo delle tratte ferroviarie, e quindi la necessità di introdurre anche nel nostro Paese un sistema più veloce attraverso la ristrutturazione delle strade ferrate. Ma a me, onorevoli colleghi, signor Presidente, preme soprattutto ricordare il politico Luigi Mariotti. Egli fu un fermo sostenitore dell’autonomia dei socialisti e non ebbe alcun dubbio nel 1963 – quando l’ala autonomista decise di aderire all’incontro con i cattolici e quindi di formare il primo centro-sinistra, rompendo con l’ala di sinistra che di lì a pochi giorni, dopo la costituzione del primo Governo di centro-sinistra, lasciò il Partito Socialista. Mariotti fu uno dei dirigenti che con forza sostenne le ragioni dell’autonomia e la necessità della partecipazione dei socialisti al governo del Paese. Non ebbe nemmeno dubbi allorquando, pochi mesi dopo, nel luglio 1964, ci fu un forte contrasto con una corrente interna del partito, che decise di lasciare il Governo ritenendo difficile l’attuazione delle riforme per gli ostacoli frapposti dalla Democrazia Cristiana. Vorrei ricordare, appunto, l’episodio delle dimissioni di Giolitti da ministro dei lavori pubblici e l’uscita dell’ala di sinistra del partito dal centro-sinistra. Mariotti non ebbe dubbi perché in quel momento l’ala autonomista sapeva che il processo riformatore era un’azione graduale che non poteva risolversi in pochi mesi. L’ala autonomista, di cui Mariotti era un esponente importante, capì e Mariotti stesso fu un fermo sostenitore del gradualismo, della necessità cioè che si procedesse lungo la strada delle riforme, ben sapendo che ogni riforma costituiva un forte contrasto con la parte moderata della Democrazia Cristiana e che pertanto il percorso sarebbe stato molto laborioso. La politica delle riforme diede importanti risultati che non sto qui a ricordare, perché credo siano ben conosciuti da tutti i colleghi senatori. Nel 1968, poi, vi fu l’altro momento di svolta, allorquando pericoli di involuzione autoritaria dello Stato si affacciarono all’orizzonte. In quell’occasione Mariotti fu tra i sostenitori che primo dovere di un Partito Socialista e del gruppo dirigente era quello di preservare la democrazia e che prima delle riforme e prima della realizzazione del programma che stava a cuore ai socialisti vi era una necessità generale del Paese: la difesa, cioè, della democrazia che, in quei mesi che precedettero le elezioni politiche del 1968, fu investita da un’ondata di pericoli e di rischi per via di una serie di voci e di movimenti che interessarono una parte delle Forze armate. E Mariotti fu per la democrazia, per il mantenimento cioè della Repubblica, con tutti i caratteri che la contraddistinguono. Non ebbe dubbi, nel congresso di Genova del 1974, a porsi assieme a De Martino come baluardo della tradizione socialista. Erano anni e mesi nei quali era nata, all’interno del Partito Socialista, l’idea che fosse possibile immaginare una specie di terzo polo laico, radicale e movimentista, in polemica forte sia con la Democrazia Cristiana che con il Partito Comunista. Fu De Martino, con il suo gruppo dirigente più ristretto, di cui faceva parte Mariotti, a dire no, perché si trattava di una linea sbagliata e non andava nell’interesse del popolo italiano. Sarebbe stato un errore grave attestare il Partito socialista su quella linea politica. Così avvenne nel 1976, allorquando De Martino propose quella che, male interpretata e male intesa, determinò poi probabilmente un elemento di …

CAMILLA RAVERA: COME PRESI LA TESSERA SOCIALISTA

Il Primo maggio del 1988 “Il Manifesto” pubblicò nel magazine “La Domenica” un’intervista a Camilla Ravera sulla sua giovinezza, il padre funzionario del ministero delle finanze dalle simpatie socialiste (che doveva però nascondere pena il licenziamento), i suoi studi alle scuole magistrali, la partecipazione alle riunioni operaie in piazza o alla Camera del Lavoro. Camilla Ravera era morta, quasi centenaria (era nata nel 1889) da appena una settimana e l’intervista, curata da Milla Pastorino, risaliva al 1984. Ripropongo qui il racconto che la Ravera fa della sua iscrizione al Partito socialista. Tu eri considerata una ribelle? Io sono stata sempre considerata una ribelle. Abitavo a Torino, si stava costruendo la Fiat, e si vedevano certe volte colonne di operai in lotta perché dovevano guadagnarsi un po’ di bene. Allora li vedevo sfilare così compatti, così ordinati, nessuno li dirigeva, così silenziosi e con passo regolare andavano sulla loro piazza per discutere i loro problemi. Allora io uscivo – mio padre non me lo impediva – e andavo a sentire cosa dicevano. Dopo avermi regalato Il Capitale mio padre mi disse: “Se leggi quel libro, ci metterai tantissimo a leggerlo attentamente, ma capirai perché avviene quello che avviene”. E così andavo a vedere, assistevo a questi movimenti, mi piaceva moltissimo. Avevo più o meno diciotto anni. Ero emancipata. Un giorno un operaio, che doveva essere uno dei dirigenti del sindacato, mi si avvicinò. Aveva in mano un blocchetto di tessere e mi disse: “Senta un po’, io la vedo a tutte le nostre più belle riunioni e manifestazioni. E’ più attenta di tutti noi. Batte le mani proprio al momento giusto. Dunque partecipa a quello che noi facciamo. E’ contenta? E’ d’accordo?”. “Sì, sì – dissi io – in generale sono d’accordo con quello che sento”. E perché non prende la tessera del Partito socialista? E’ il socialismo che deve dare tutte queste cose agli operai”. “Lo so – risposi – io ho letto Carlo Marx”. “Ha letto Carlo Marx e non prende la tessera del partito? E che cosa glielo impedisce? A casa?”. “No, no, a casa no. Ma non so, non ho il coraggio di mettermi lì a fare un discorso”. Non disse nulla, ma dopo dieci minuti quello che presiedeva si rivolse agli operai: “Ha chiesto la parola Camilla Ravera”. E parlasti? Sì, per la prima volta. Dovevo. Naturalmente con il più grande imbarazzo, però dicevo tra me e me: “Almeno presentarmi. Fare la scena è peggio”. E mi sono avvicinata lì, avevo sentito molto bene il discorso e ho cominciato col dire che ero d’accordo con molte cose che avevo sentito, e poi ho fatto qualche osservazione e tutti mi hanno applaudito. E quel compagno, quell’operaio è venuto a darmi la tessera.  Camilla Ravera fu dirigente dell’Unione Donne Italiane, rappresentò il Partito Comunista Italiano alla Camera in due legislature (1948-1958). Ritiratasi a vita privata, nel 1982 venne nominata da Sandro Pertini senatrice a vita: è stata la prima donna a ricevere questa nomina. Morì il 14 aprile 1988 all’età di quasi 99 anni. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

INTERVISTA A LEO VALIANI SUL SINDACATO E LA SINISTRA DEGLI ANNI 1946-1951

Gli anni che vanno dal 1947 al 1950, data di nascita della Uil, furono un susseguirsi convulso di avvenimenti. C’era in tutti la consapevolezza delle grandi scelte da compiere per la rinascita democratica ed economica del Paese. Si doveva voltare pagina e costruire un nuovo Stato. In quale humus politico e culturale fu fondata la Uil? Il nucleo promotore della Uil, il motore che le diede vita, furono certo i sindacalisti socialisti usciti o espulsi dalla Cgil per avere seguito la scissione di Romita dalle file del Psi: Viglianesi, Dalla Chiesa, Bulleri e altri. Ad essi si aggiunsero i repubblicani ed i socialdemocratici che non avevano accettato la confluenza della loro Fil nella Cisl. Ma la Uil rappresentò in realtà il punto di arrivo di un movimento politico che affondava le radici in quell’area della sinistra democratica che andava da Ignazio Silone agli ex azionisti e a tutti quei dirigenti socialisti che si battevano su posizioni di autonomia dal partito comunista, anche se non erano usciti con la scissione di Palazzo Barberini. Ignazio Silone era il capo morale e il punto di riferimento politico di questo arco di personaggi con estrazioni ed esperienze politico-culturali anche diverse, ma cementati dalla lotta antifascista. Essi avevano approvato la ribellione di Saragat allo stalinismo del Psi – allora si diceva fusionismo – ma ritenevano che il Psli fondato dallo stesso Saragat fosse troppo legato alla Democrazia Cristiana. I gruppi influenzati da Ignazio Silone nutrivano insomma nei confronti di Saragat una divergenza tattica: criticavano l’adesione in condizioni di minorità e di debolezza ad un governo egemonizzato dalla Democrazia Cristiana. Nei confronti del Psi la divergenza era invece di principio, ideale, profonda: era infatti problema di principio il rifiuto dello stalinismo. A questi gruppi aderirono Giuseppe Romita e i sindacalisti socialisti che uscirono dal Psi nella primavera del 1949. Vi aderirono anche numerosi deputati e dirigenti dello stesso partito di Saragat. Si ritenevano infatti mature le condizioni per una iniziativa costituente che raccogliesse tutti i socialisti democratici. Ma Saragat era diffidente, non accettò l’unificazione immediata, e per questo Romita e Silone fondarono il Psu. Esso rappresentò un po’ una anticipazione di quel che oggi sta realizzando Bettino Craxi: il Psu era una forza socialista antistaliniana, autonoma sia dal partito comunista, sia dalla Democrazia Cristiana. Silone fu dunque un anticipatore, come lo fu del resto per gli ideali europeisti: non bisogna dimenticare che quando uscì dal Psi con la scissione di Palazzo Barberini, egli non aderì al Psli di Saragat, ma fondò un piccolo gruppo che si chiamava “Europa socialista”. Una anticipazione appunto di quel movimento verso l’unità europea che nelle sinistre si sarebbe realizzato soltanto molti anni dopo. È proprio questo il retroterra della Uil. Ma allora gli schieramenti politici non erano ancora ben definiti, il centrismo fu infatti un punto di arrivo per i partiti che gli diedero vita. Dc, Psdi, Pri e Pli erano attraversati da spinte spesso anche contrapposte di linea politica. Come avrebbe dovuto agire la sinistra, secondo voi, secondo Silone, in presenza di un Pci stalinista? Nel marzo del 1947, su mia proposta, il Partito d’Azione dedicò il suo congresso nazionale, e fu l’ultimo perché alla fine dello stesso anno si sciolse, al problema del rinnovamento del socialismo democratico. Al centro del dibattito c’era una mozione che a maggioranza, una stretta maggioranza però, Aldo Garosci, Tristano Codignola ed io eravamo riusciti a far approvare dalla direzione del Partito (contrari Emilio Lussu, Francesco De Martino ed anche Riccardo Lombardi) in cui si prospettava la fusione con il Partito Socialista dei Lavoratori fondato da Saragat, che ancora non era stato in alcun modo messo in condizioni di subalternità dalla collaborazione con la Democrazia Cristiana; anzi era ancora su una posizione del tutto indipendente e non faceva parte del Governo Al congresso, tenuto a Roma, invitammo lo stesso Saragat, che ci chiese di entrare tutti in blocco nel suo partito; invitammo anche Lelio Basso, allora Segretario del Partito Socialista Italiano. Questi ci assicurò che il Psi non si sarebbe fuso con il Pci, pur mantenendo egualmente il patto di unità di azione. E invitammo anche Ignazio Silone, il quale proprio in questa occasione espresse con chiarezza il suo giudizio sulla situazione italiana. A suo avviso c’erano le condizioni per una grande riforma democratica e socialista del Paese; ma i consensi della maggioranza dei cittadini non si sarebbero mai potuti ottenere se alla base del nostro programma si fossero posti da una parte la lotta agli Stati Uniti capitalistici, dimenticando il loro aiuto economico a noi e a tutta l’Europa Occidentale; e dall’altro lato una punta di anticlericalismo, che avrebbe finito per giustificare la crociata ideologica allora bandita dal Vaticano di Pio XII. Dobbiamo convincere gli americani – sosteneva Silone – che il nostro proposito di riforma democratica e socialista non si prospetta come una rivoluzione socialista mondiale, che finirebbe fatalmente per essere al rimorchio dell’Unione Sovietica; ma – sono sue parole testuali – “è una risposta locale a problemi locali”. Egualmente – diceva Silone – noi laici non dobbiamo rifiutare una collaborazione anche stretta con i riformisti del mondo cattolico. Dobbiamo perciò evitare di irritarli con velleità anticlericali. Egli si riferiva in particolare a Dossetti. Questa era dunque la posizione di Silone: non staccare l’Italia dal mondo occidentale, ma fare in modo che si potesse sviluppare un’iniziativa riformatrice democratica, socialista e autonoma, indipendentemente dai due blocchi che si stavano già dividendo l’universo. A 42 anni di distanza mi sembra di poter dire che questa visione non poteva certo prevalere – ed in questo aveva momentaneamente ragione Saragat – durante la guerra fredda; ma oggi, nel nuovo clima di distensione internazionale, acquista nuova attualità. L’Italia può realizzare una grande riforma democratica e sociale, direi di un socialismo liberale nel senso di Carlo Rosselli, senza che ciò susciti le preoccupazioni degli Stati Uniti, dei quali però dobbiamo restare alleati, o incoraggi manovre dell’Unione Sovietica, vista anche l’evoluzione delle forze in campo. Per battere questa strada di rinnovamento dobbiamo naturalmente imparare dall’esperienza di questi 42 anni: …

UNO SCANDALO ITALIANO. L’ESPRESSO E IL CASO SIFAR

di Luca Grimaldi | Gli anni Sessanta sono stati uno dei periodi più ricchi e fecondi di cambiamenti della storia italiana. Immediatamente successivi al boom economico, infatti, sono stati anni di profonde trasformazioni e di esperimenti politici che hanno mutato il panorama politico e sociale del nostro Paese. In questi stessi anni, però, in cui molte cose sembravano destinate a cambiare per sempre sotto la superficie si muovevano uomini e organismi con il proposito di fermare le trasformazioni in atto e di porre un freno agli “esperimenti” che stavano modificando gli assetti politici del nostro Paese. In questa prospettiva è possibile comprendere il tentativo di colpo di Stato messo a punto nel 1964 dal Comandante dei carabinieri Giovanni de Lorenzo che, con l’appoggio dei servizi segreti statunitensi, si proponeva di bloccare ogni apertura a sinistra e di creare un nuovo governo basato sui voti e sulla volontà dei partiti di destra. Il colpo di Stato non fu mai attuato, ma ciononostante raggiunse in parte i suoi obiettivi e rese più prudente la DC sul programma di riforma. Il “caso SIFAR”, come venne ribattezzato dai giornali, quando, tre anni dopo, il settimanale “L’Espresso” ne rese pubblica l’esistenza, fu un tentativo estremo di porre fine alle trasformazioni che stavano interessando la vita politica del nostro Paese e di restaurare un governo che arginasse le spinte al cambiamento che provenivano dalla società civile. […] Il primo tentativo di modificare dall’esterno le sorti della democrazia italiana si verificò nel 1964 con il tentativo di colpo di Stato messo in atto dal Gen. Giovanni De Lorenzo che, con l’appoggio degli ambienti di estrema destra e dell’Arma dei carabinieri, si proponeva di “persuadere” il Presidente del Consiglio, l’On. Aldo Moro e il presidente della Repubblica Segni a liquidare i socialisti con un piano, il famoso “Piano Solo”, che avrebbe garantito l’ordine e messo a tacere le opposizioni. Il piano non ebbe seguito, grazie al rifiuto dei vertici democristiani di appoggiare l’idea di De Lorenzo, vertici democristiani che, però, si affrettarono a coprire la trama golpista con una cappa di silenzio. Pur non raggiungendo i suoi obiettivi, tuttavia, il “caso SIFAR”, come venne ribattezzato il complotto ai danni dello Stato nel 1967, quando ne furono svelati i retroscena dai giornalisti de “L’Espresso” Eugenio Scalfari e Lino Iannuzzi divenne un ulteriore motivo di cautela per la DC, che continuò la marcia del centrosinistra con i piedi di piombo, a danno della capacità riformatrice dei governi che si susseguirono. Quello del 1964 non fu, tuttavia, l’unico tentativo golpista che si è cercato di realizzare in Italia. Il 7 dicembre del 1970 Junio Valerio Borghese e l’industriale romano Remo Orlandini tentarono un colpo di stato, con l’operazione “Tora Tora”, tre anni dopo, nel 1973, venne scoperta l’organizzazione segreta “Rosa dei Venti”, che puntava ad attuare un colpo di Stato in sei fasi, tra cui un intervento militare e la fucilazione di ministri e parlamentari socialisti e comunisti, dirigenti della sinistra, vecchi comandanti partigiani. Un altro colpo di stato venne sventato, l’anno successivo, dal ministro della difesa, l’On. Giulio Andreotti che il 15 luglio destituì una dozzina di ammiragli e generali per prevenire, appunto, un golpe previsto per il 10 agosto. Nello stesso mese, il 23 agosto, la magistratura di Torino scoprì un complotto, noto come “golpe bianco”, che faceva capo a Edgardo Sogno, Randolfo Pacciardi, ex ministro della Difesa, ed altri. Il progetto aveva il sostegno degli Stati Uniti e della loggia massonica P2 di Licio Gelli. […] Nel 1955 il Gen. Giovanni de Lorenzo venne nominato capo del SIFAR. Proprio sotto la guida di De Lorenzo i servizi segreti iniziarono una gigantesca opera di schedatura degli esponenti più in vista di tutte le istituzioni e di tutti i gruppi sociali; politici, sindacalisti, imprenditori, uomini d’affari, intellettuali, religiosi e militari furono indagati. Non poco rumore fece la scoperta che anche Giuseppe Saragat, futuro Presidente della Repubblica, fosse spiato dagli uomini del SIFAR e che sul suo conto fossero minuziosamente catalogate addirittura le marche e le quantità degli alcolici utilizzati. I fascicoli così compilati ammontavano a circa 157 mila, dei quali 34 mila dedicati ad individui appartenenti al mondo economico, a uomini politici e ad altre categorie di interesse rilevante per la nazione. La Commissione Beolchini individuò inoltre, nell’ambito di queste schedature illegali, una serie di gravi irregolarità. Nel frattempo il Gen. De Lorenzo, dopo aver dato avvio alle schedature, nel 1962 venne nominato Comandante Generale dell’Arma dei Carabinieri. Nei primi anni alla guida dell’Arma il generale si mostrò una personalità mossa da un profondo spirito innovatore; i carabinieri, infatti, pativano numerosi inconvenienti che ne appesantivano, quando non paralizzavano, l’attività e fu proprio con De Lorenzo che l’”emergenza carabinieri”, più volte posposta, venne affrontata. Dopo i primi anni della “cura De Lorenzo” i Carabinieri ricominciarono a presentarsi finalmente come un’istituzione efficiente e all’avanguardia, agguerrita e riarmata al punto da potersi nuovamente annoverare fra le forze militari d’impiego esterno. Tutto era pronto per far scattare il “Piano Solo”, un piano che avrebbe permesso a De Lorenzo, attraverso l’ausilio dei Carabinieri, di condizionare la vita politica del Paese e di creare un governo d’emergenza retto dal sen. Cesare Merzagora, che avrebbe definitivamente allontanato le sinistre dall’esecutivo. […] Il Piano Solo era un piano d’emergenza che, nelle intenzioni del Gen. De Lorenzo, che lo aveva ideato, avrebbe definitivamente allontanato le sinistre dal governo o ne avrebbe quantomeno ridotto drasticamente le potenzialità riformatrici. Nelle intenzioni del suo ideatore esso avrebbe dovuto portare all’”enucleazione”, ovvero al prelevamento, di quei personaggi politici ritenuti pericolosi. Questi sarebbero stati raggruppati e raccolti nella sede del Centro Addestramento Guastatori di Capo Marrargiu, in Sardegna, una base militare segreta, il cui progetto originario prevedeva questo possibile utilizzo, adattata a tempo di record dal SIFAR, dove sarebbero stati custoditi sino alla cessazione dell’emergenza. Carabinieri, gruppi di civili, ex parà e repubblichini di Salò avrebbero partecipato al golpe mentre la Confindustria e alcuni circoli militari avrebbero finanziato alcune formazioni paramilitari. L’Arma dei Carabinieri avrebbe assunto il controllo delle istituzioni e dei servizi …

VENTO DEL NORD

Pubblicato su Avanti! del 27 aprile 1945 | di Pietro Nenni | Quando parlammo la prima volta di vento del Nord, i pavidi, che si trovano sempre al di qua del loro tempo, alzarono la testa un poco sgomenti. Che voleva dire? Era un annuncio di guerra civile?  Era un incitamento per una notte di San Bartolomeo? Era un appello al bolscevismo? Era semplicemente un atto di fiducia nelle popolazioni che per essere state più lungamente sotto la dominazione nazi-fascista, dovevano essere all’avanguardia della riscossa. Era il riconoscimento delle virtù civiche del nostro popolo, tanto più pronte ad esplodere quanto più lunga ed ermetica era stata la compressione. Era anche un implicito omaggio alle forze organizzate del lavoro ed alla loro disciplina rivoluzionaria. Ed ecco il vento del Nord soffia sulla penisola, solleva i cuori, colloca l’Italia in una posizione di avanguardia. Nelle ultime quarantotto ore le notizie dell’insurrezione e quelle della guerra si sono succedute con un ritmo vertiginoso. La guerra da Mantova dilagava verso Brescia e Verona, raggiunte e superate nel pomeriggio di ieri. L’insurrezione dalla periferia guadagnava Milano e da Torino si propagava a Genova. Nell’ora in cui scriviamo tutta l’alta Italia al di qua dell’Adige è insorta dietro la guida dei partigiani. A Milano, a Torino e a Genova i Comitati di Liberazione hanno assunto il potere imponendo la resa dei tedeschi e incalzando le brigate nere fasciste in vittoriosi combattimenti di strada. Sappiamo il prezzo della riscossa. A Bologna ha nome Giuseppe Bentivogli. Quali nomi porterà la testimonianza del sangue a Torino e a Milano? La mano ci trema nel dare un dettaglio dell’insurrezione milanese. Ieri mattina alle cinque, secondo una segnalazione radiotelegrafica, il posto di lotta e di comando di Alessandro Pertini e dell’Esecutivo del nostro partito era circondato dai tedeschi e in grave pericolo. Nessuna notizia è più giunta in serata per dissipare la nostra inquietudine o per confermarla. Ma sappiamo, ahimè, che ogni battaglia ha le sue vittime e verso di esse, oscure od illustri, sale la nostra riconoscenza. Perché gli insorti del Nord hanno veramente, nelle ultime quarantotto ore, salvato l’Italia. Mentre a San Francisco, assente il nostro paese, si affrontano i problemi della pace, essi hanno fatto dell’ottima politica estera, facendo della buona politica interna, mostrando cioè che l’Italia antifascista e democratica non è il vaniloquio di pochi illusi o di pochi credenti, ma una forza reale con alla sua base la volontà l’energia il coraggio del popolo.  In verità il vento del Nord annuncia altre mete ancora oltre l’insurrezione nazionale contro i nazi-fascisti. Gli uomini che per diciotto mesi hanno cospirato nelle città, che per due lunghi inverni hanno dormito sulle montagne stringendo il fucile, che escono dalle prigioni o tornano dai campi di concentramento, questi uomini reclamano, e all’occorrenza sono pronti a imporre, non una rivoluzione di parole, ma di cose. Per essi il culto della libertà non è una dilettantesca esasperazione dell’”io” demiurgico, ma sentimento di giustizia e di eguaglianza per sé e per tutti. Alla democrazia essi tendono non attraverso il diritto formale di vita, ma attraverso il diritto sostanziale dell’autogoverno e del controllo popolare. Non si appagheranno quindi di promesse, né di mezze misure. La rapidità stessa e l’implacabile rigore delle loro rappresaglie sono di per sé sole un indice della loro maturità, perché se la salvezza del paese è nella riconciliazione dei suoi figli, alla riconciliazione si va non attraverso l’indulgenza e la clemenza, ma l’implacabile severità contro i responsabili della dittatura fascista e della guerra.  In codesta primavera della patria che consente tutte le speranze, c’è per noi un solo punto oscuro, si tratta di sapere se gli uomini che qui a Roma scotevano sgomenti il capo all’annuncio del vento del Nord, che vedevano sorgere dal passato l’ombra di Marat o quella di Lenin se qualcuno osava parlare di comitato di salute pubblica, che trovavano empio o demagogico il nostro grido: “tutto il potere ai Comitati di Liberazione”, si tratta di sapere se questi uomini intenderanno o no la voce del Nord e sapranno adeguarsi ai tempi. Ad essi noi ripetiamo quello che ieri, da queste stesse colonne, dicevamo agli Alleati. – Abbiate fiducia nel popolo, secondatene le aspirazioni, scuotete dalle ossa il torpore che vi stagna, rompete col passato, non fatevi trascinare, dirigete. A questa condizione oggi è finalmente possibile risollevare la nazione a dignità di vita nuova, nella concordia del più gran numero di cittadini. Vento del Nord. Vento di Liberazione contro il nemico di fuori e quelli di dentro. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

LE BRIGATE MATTEOTTI

Nella Resistenza Italiana, sin dal 9 settembre 1943 erano attive, a Roma e nel Lazio, alcune “squadre” Matteotti, poi riorganizzate in Brigata Matteotti al comando di Giuseppe Gracceva ed alle dipendenze di Giuliano Vassalli, membro della Giunta militare centrale del CLN. Le Brigate Matteotti, tuttavia, si costituirono il 12 dicembre 1943 con la creazione della I Brigata d’assalto Matteotti a Caerano San Marco (Provincia di Treviso) e nella zona del Monte Grappa (Provincia di Vicenza), per iniziativa di un gruppo di patrioti veneti di fede socialista: esse però non diedero avvio a nuovi reclutamenti, dal momento che l’orientamento della classe dirigente del PSIUP era quello di integrare i volontari socialisti impegnati nella lotta antifascista in altre formazioni partigiane attive in molte zone dell’Italia centro-settentrionale. Si dovrà pertanto attendere la primavera del 1944 prima che venissero costituite altre brigate d’assalto Matteotti, ribattezzate, fin dal giugno di quello stesso anno, Brigate Giacomo Matteotti. Le brigate erano costituite in massima parte da aderenti e simpatizzanti del PSIUP ma, in alcune formazioni, parte dei militanti provenivano da altri partiti antifascisti. Occorre, infatti, rimarcare che le compagini anarchiche che rispondevano al nome di Brigate Bruzzi Malatesta agivano di concerto con le Brigate Matteotti, in quanto gli anarchici preferivano operare assieme a formazioni legate ad un’osservanza politica non moscovita, vista la rottura tra le frange anarchiche e libertarie e i comunisti, avvenuta durante la guerra di Spagna. Vi furono, al contrario, raggruppamenti partigiani, come la Banda Dionigi Superti, operante in Val d’Ossola, che pur non essendo inquadrati nelle Brigate Giacomo Matteotti erano composti quasi esclusivamente da combattenti reclutati nelle file del PSIUP. Forze in campo e zone operative Il numero totale delle Brigate Matteotti operanti nella Resistenza è stimabile in settanta brigate operative. Le brigate furono particolarmente attive in Piemonte e Valle d’Aosta, ma anche in Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna e Toscana, oltre che durante il periodo della Resistenza romana. Piemonte Le brigate piemontesi e valdostane erano comandate da Andrea Camia. Fra le formazioni più importanti operanti in Piemonte segnaliamo le divisioni: ● Italo Rossi, presente nell’Alto Monferrato e articolata in cinque brigate, un gruppo De Franchi e una Squadra volante ● Marengo, formata da tre brigate (Po, Val Bormida e Val Tanaro), che aveva i propri punti di forza nella zona di Tortona e nel Monferrato ● Giorgio d’Avito (quattro brigate, una brigata d’assalto e una brigata di manovra), attiva nel Canavese e nelle Valli di Lanzo ● Renzo Cattaneo concentrata in gran parte nelle Langhe ● Valle d’Aosta (cinque brigate) attiva quasi esclusivamente nella regione omonima ● Bruno Buozzi, (sette brigate) costituita da ben sette brigate, che aveva il proprio centro operativo a Torino e zone immediatamente limitrofe Lombardia Fra le formazioni più consistenti operanti in Lombardia possiamo annoverare: ● la 7ª Brigata del Bresciano ● Due reggimenti S.A.P., uno attivo nel Varesotto (3 brigate) e l’altro nella zona di Milano e provincia (otto brigate) ● La divisione Barni (tre brigate), che controllava ampie zone della Lomellina, dove operavano pure le Brigate Bruzzi Malatesta. ● Una divisione formata da sei brigate che combatté nella zona di Cremona e una brigata nel bresciano Veneto In Veneto fu particolarmente attiva una brigata operante alle pendici del Monte Grappa, che era nata dalla fusione della I Brigata d’assalto Matteotti, la più antica formazione partigiana psiuppina ed altri gruppi combattenti locali. Anche nel Padovano agì, fin dalla primavera del 1944, una Brigata Giacomo Matteotti. Altre regioni In Emilia-Romagna furono reclutate due brigate, una delle quali, subito dopo la liberazione di Forlì (novembre 1944), combatté sul fronte di guerra a fianco delle truppe alleate e ad una formazione GL. nella 5ª Brigata “Bonvicini” operò Licurgo Angelo Fava, medaglia d’oro al valor militare. In Toscana fu particolarmente attiva, nell’estate 1944, la brigata Antonio Giuriolo. La lotta armata Le Brigate Giacomo Matteotti si distinsero, durante la lotta partigiana, per la propria efficacia, disciplina interna e spirito combattivo. Fra le tante azioni che le videro protagoniste: ● Nel Lazio: il 10 settembre 1943 Sandro Pertini è a Porta San Paolo con i primi gruppi di resistenza socialisti, nel tentativo di contrastare l’ingresso nella Capitale delle truppe tedesche, combattendo a fianco dei granatieri e usando come proiettili anche cubetti di porfido. Si guadagna in questi giorni la medaglia d’oro al valor militare; con lui sono il futuro ministro Mario Zagari, il sindacalista Bruno Buozzi, Giuseppe Gracceva e Alfredo Monaco. Contemporaneamente le prime “squadre Matteotti” combattono a piazza Tuscolo, mettendo in fuga una pattuglia tedesca e uccidendone il comandante; a Porta Portese, provocando sette vittime tra i tedeschi; a borgata Gordiani, con Nicola Conte, alle Capannelle, a via Appia Nuova e alla Basilica di San Giovanni. Fa parte del gruppo dirigente delle formazioni partigiane anche Pietro Nenni, rifugiato nel Palazzo del Laterano. Una delle azioni più eclatanti delle formazioni romane avvenne a Roma il 25 gennaio 1944. Difatti nell’ottobre del 1943, Sandro Pertini e Giuseppe Saragat erano stati catturati dalle SS e condannati a morte per la loro attività partigiana. Tuttavia la sentenza non venne eseguita grazie all’azione dei partigiani socialisti che si concluse con la loro evasione dal carcere di Regina Coeli. L’azione fu organizzata da Giuliano Vassalli, che si trovava presso il tribunale militare italiano, con l’aiuto di altri partigiani delle Brigate Matteotti, tra cui Giuseppe Gracceva, Massimo Severo Giannini, Filippo Lupis, Ugo Gala e il medico del carcere Alfredo Monaco. Si riuscì così prima a far passare Saragat e Pertini dal “braccio” tedesco a quello italiano e quindi a produrre degli ordini di scarcerazione falsi, redatti dallo stesso Vassalli, per la loro liberazione (a conferma dell’ordine arrivò anche una falsa telefonata dalla questura, fatta da Marcella Monaco, moglie di Alfredo). I due furono dunque scarcerati insieme ai partigiani Luigi Andreoni del PSIUP, Torquato Lunadei, Ulisse Ducci, Carlo Bracco e Luigi Allori. A Marcella Monaco verrà conferita la medaglia d’argento al valor Militare. Francesco Malfatti di Montetretto, figlio di un dissidente già esule in Francia, costituì una rete informativa segreta per la raccolta di informazioni, che mise a disposizione di Peter Tompkins, …

CALZOLARI ALFREDO DETTO “FALCO”

Alfredo Calzolari, “Falco“, da Giuseppe e Maria Accorsi; nato l’11 febbraio 1897 a Molinella; ivi residente nel 1943. Operaio. Iscritto al PSI e al MUP. Durante la dittatura e nei venti mesi della Resistenza fu uno dei principali dirigenti del movimento operaio molinellese. Cresciuto alla scuola di Giuseppe Massarenti, Giuseppe Bentivogli e Paolo Fabbri, non fu solo un dirigente politico e militare molto intelligente e capace, ma anche un uomo d’azione coraggiosissimo. Dotato di grandissima umanità, conosceva come pochi l’animo popolare e le aspirazioni del mondo contadino molinellese. Ancora giovanissimo si era iscritto al PSI e aveva militato nei Falchi rossi, l’organizzazione giovanile socialista esistente prima del fascismo. Nel 1920, quando a Molinella furono organizzate le Guardie rosse — un’organismo militare che aveva il compito di fronteggiare le squadre fasciste — ne divenne uno dei dirigenti. Il 12 giugno 1921, quando i fascisti invasero Molinella per uccidere Massarenti, diresse la resistenza e respinse l’assalto. Come Massarenti, qualche tempo dopo fu costretto a lasciare la sua casa, per sottrarsi alla violenza fascista. Dopo un soggiorno romano, ritornò a Molinella dove visse durante la dittatura, senza mai rinnegare le sue idee. All’inizio del 1941 fu arrestato perché “mantiene idee irriducibilmente antifasciste” e il 31 marzo 1941 fu inviato al confino per 3 anni. Riebbe la libertà il 13 agosto 1941. Nel 1942 aderì al MUP e, ai primi di agosto 1943, partecipò alla riunione che si tenne nello studio di Roberto Vighi nel corso della quale MUP e PSI si unificarono dando vita al PSUP. Con l’inizio della Resistenza, fu uno dei primi a prendere le armi a Molinella e uno dei principali organizzatori della brigata Matteotti Pianura, la 5^ brigata Bonvicini. Si trasferì a Bologna nell’estate 1944, quando pareva che la liberazione della città fosse imminente. Ebbe, tra gli altri, il compito di organizzare la protezione armata delle basi militari socialiste che si trovavano in via de’ Poeti, — il famoso “fondone” di Paolo Fabbri — in via Castiglione 21 e in via Mazzini 23 dove si trovava la tipografia clandestina del partito, nella quale si stampavano giornali, opuscoli di propaganda e volantini. Nell’ottobre 1944 fu inviato a Molinella per assumere il comando della Brigata Matteotti Pianura. La scelta cadde su di lui, in un momento politico e militare molto delicato, perché era un uomo di polso e di grande coraggio, oltre che un profondo conoscitore degli uomini e della zona molinellese. In quel periodo, il fronte della Resistenza era in crisi, perché le truppe alleate si erano fermate alle porte di Bologna e i nazifascisti avevano potuto scatenare una controffensiva generale contro le forze partigiane. Inoltre, a Molinella, socialisti e comunisti erano divisi da un grave contrasto. Calzolari ebbe il merito di riorganizzare la brigata, di sanare i contrasti e di tenere viva per tutto l’inverno la guerriglia contro i nazifascisti. Egli, a Molinella, combatteva a viso aperto. La maggior parte delle riunioni politiche o militari le organizzava nelle case dei fascisti. A chi gli chiedeva se non era troppo rischioso, rispondeva: “Se ci scoprono, vorrà dire che bruceranno la casa di un fascista, non quella di un compagno”. Il 2 marzo 1945 il partito lo incaricò di assumere la direzione politica nella zona di Molinella, per cui dovette lasciare il comando della brigata. Non abbandonò però completamente l’attività militare, essendogli stato affidato il comando del battaglione Bevilacqua, che operava a Molinella. Il 16 aprile 1945, mentre si stava recando in una base partigiana, in località Morgone, si scontrò con una pattuglia tedesca e fu abbattuto a colpi di mitra. Raccolto morente dai compagni, fu trasportato a Molinella dove spirò il 17 aprile 1945, mentre i tedeschi stavano abbandonando la zona e la guerra volgeva ormai alla fine. Gli è stata conferita la medaglia d’oro alla memoria. Riconosciuto partigiano con il grado di comandante di brigata dal 10 settembre 1943 al 17 aprile 1945. Il suo nome fu dato a un battaglione della 5^ brigata Bonvicini Matteotti. Anche una sezione del PSI e una strada di Bologna portano il suo nome. Il suo nome è stato dato ad una strada di Molinella.   Note E’ ricordato nel Sacrario di Piazza Nettuno. Medaglia d’Oro al Valor Militare Eroico combattente, era tra i primi ad entrare nelle formazioni partigiane della sua zona e ad opporsi con le armi alla tracotanza avversaria, dimostrandosi audace e abile comandante. Nel corso di duri combattimenti che precedettero la liberazione di una grande città, attaccava ripetutamente, alla testa del suo battaglione, reparti avversari in ripiegamento, infliggendo loro gravi perdite. Nel generoso tentativo di impedire la esplosione dei bacini idrovori di una bonifica di grande importanza, minati dal nemico, guidava all’assalto i suoi uomini. Rimasto gravemente ferito in un violento corpo a corpo, rifiutava ogni soccorso e sebbene in fin di vita, trovava l’energia per incitare i suoi dipendenti che riuscivano così, con supremo sforzo, a sopraffare l’avversario. Nobilissimo esempio di senso del dovere e amor di Patria. Molinella (Bologna), 8 settembre 1943 -17 aprile 1945 Fonte: storiaememoriadibologna.it   I funerali di Alfredo Calzolari Fonte fotografica: storiaememoriadibologna.it     SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

25 APRILE

di Luca Molinari | La data del 25 aprile rappresenta un giorno fondamentale per la storia della giovane repubblica italiana. E’ l’anniversario della rivolta armata partigiana e popolare contro le truppe di occupazione naziste tedesche e contro i loro fiancheggiatori fascisti. Il 25 aprile 1945 segna il culmine del risveglio della coscienza nazionale e civile italiana impegnata nella riscossa contro gli invasori e come momento di riscatto morale di una importante parte della popolazione italiana dopo il ventennio di dittatura fascista. La stessa storia dell’Italia repubblicana fonda interamente le proprie basi nell’esperienza dell’antifascismo che Piero Calamandrei definì “quel monumento che si chiama ora e sempre Resistenza”, elemento base di una nuova religione civile della nascitura giovane democrazia repubblicana. Si è parlato più volte e da più parti della Resistenza come di “un secondo Risorgimento i cui protagonisti furono le masse popolari” (Sandro Pertini). Non è intenzione di chi scrive fornire una ricostruzione storica dei fatti e dei protagonisti, ma semplicemente sfatare una teoria storiografia revisionista che, negli ultimi anni, è molto di moda: la Resistenza come “guerra civile”. Benché la Resistenza non sia stato un fatto coinvolgente la maggioranza degli italiani, ma solo quella relativa degli abitanti delle aree centro-settentrionali, essa non è stata affatto una guerra di italiani contro italiani, come, in Spagna nel 1936, si era avuto uno scontro di spagnoli contro spagnoli. Infatti vi fu lo scontro tra soldati e combattenti italiani contro gli invasori tedeschi ed i loro collaboratori repubblichini, i primi, nel rispetto della pluralità politica, combattevano in nome della democrazia liberale o socialista che fosse, i secondi combattevano a fianco delle SS hitleriane sostenitrici del primato della razza ariana e della necessità di conquistare uno “spazio vitale” per la Germania nazista. Chi scrive non vuole assolutamente cadere nella retorica resistenziale, ma è fortemente concorde col fatto che la Resistenza fu un momento edificante in cui si affrontarono i sostenitori della libertà, della democrazia e della giustizia sociale contro gli adulatori della tirannide e della barbarie di cui furono essi stessi le prime vittime, se di “guerra civile” si vuole parlare la si deve intendere come “per la civiltà” (Dante Livio Bianco), come “una guerra politica, popolare ….. .Una guerra democratica, in duplice senso, in quanto democratico è il suo metodo ed è democratico il suo ultimo, l’abbattimento di una dittatura e l’instaurazione di un regime fondato sulla partecipazione popolare al potere” (Norberto Bobbio). Con ciò non si vuole fare un discorso relativo alle singole persone che combatterono su entrambi i fronti in buona fede che vanno sempre e comunque rispettate se non altro per i dolori e le sofferenze che furono costretti a subire. Premesso tale rispetto per tutti i morti mi sembra lecito oppormi a quanto proposto da più parti (politiche e non) di trasformare il 25 aprile nel giorno della pacificazione nazionale per ricordare i morti: i morti, tutti i morti, si commemorano il 2 novembre e la questione della pacificazione nazionale è già stata risolta, in chiave politica dall’amnistia promossa dall’allora Guardasigilli Palmiro Togliatti e, in chiave storica e letteraria da uno dei principali esponenti del Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia, il compianto senatore Leo Valiani che, nel pubblicare il suo diario del periodo clandestino, nella dedica iniziale scrive “A Duccio Galimberti, per tutti i caduti, della nostra parte e dell’altra”, volendo così separare gli aspetti personali ed umani (e umanitari?) della questione da quelli politici e storici. Ciò che più rammarica è che la Resistenza, lungi dall’essere un momento corale di unità popolare e nazionale, sia divenuta “la resistenza incompiuta o interrotta destinata, come tutti i conati, a indicare una meta ideale più che non a prescrivere un risultato” (Norberto Bobbio). La Resistenza doveva divenire il “mito fondatore” su cui basare la Repubblica democratica scaturita dalle scelte dell’Assemblea costituente figlia della stessa esperienza partigiana, purtroppo ciò non è avvenuto completamente, ma quei valori di uguaglianza, democrazia e giustizia sociale, contenuti nella Prima Parte della nostra Costituzione sono sempre validi ed attuabili ad essi ogni democratico deve rifarsi nella propria azione quotidiana. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

25 APRILE E’ UNA FESTA DI “PARTE”, PARTIGIANA E RIVENDICO LA MIA PARTE SOCIALISTA

Nella foto Pertini con la Brigata Matteotti | di Lidano Grassucci – Fattolatina.it rivista online dei tempi nuovi | Mi scuserete ma la festa del 25 aprile non è la festa di tutti, non è la festa della riconciliazione, di valori comuni. E’ il ricordo della mia parte che ha battuto, sconfitto, fascisti e nazisti. E’ la festa dei liberi, di quelli che non volevano il capo e si sono battuti per la libertà. Come? Con la guerra, con la dura guerra in ragione della guerra dei mostri della storia. Non è la festa dei pacifisti, perché la libertà ce la siamo conquistata con le armi, e se necessario la stessa strada prenderemo con le armi. I mostri si combattono con le armi. Dice, ma avete ucciso… certo per vincere i mostri e conquistare la libertà. Poi, in questa parte di combattenti per la libertà c’era la mia parte, quella socialista delle brigate Matteotti, di Giustizia e Libertà che volevano, oltre alla libertà, la giustizia e per questo siamo andati in montagna. Il 25 aprile è la festa della libertà, ma noi non ci siamo dimenticati dell’altro impegno… della giustizia e da allora ci battiamo per avere una società giusta, capace di superare il capitalismo. „Il socialismo mantiene la sua fondamentale ed essenziale natura di movimento anticapitalistico. Esso nasce come reazione umana e razionale nei confronti delle ingiustizie delle ineguaglianze che il nascente capitalismo industriale portava con sé. Le contraddizioni e le crisi della società capitalistica costituirono oggetto delle analisi, della critica penetrante, delle previsioni dei teorici socialisti. I mutamenti intervenuti dopo le due guerre mondiali, la modificazione della natura e delle manifestazioni del capitalismo non hanno mutato la ragione fondamentale della lotta socialista e cioè quella di provocare un superamento del capitalismo con il passaggio ad un ordine economico, sociale e politico più evoluto, che arricchisca le libertà dell’uomo, le sue condizioni di vita materiale e spirituale.“Bettino Craxi (socialista), 1966 Socialismo e realtà. No non è la festa di tutti, è la festa di chi ama essere libero e per questo mette in gioco la vita. Questa è la nostra resistenza, la Resistenza socialista quella che sognava il “Vento del nord” per dirla alla Pietro Nenni (socialista) che avrebbe spazzato via il vecchio stato di cose borghese e corrotto, fascista dentro. La storia non è cosa gentile, non è un balletto di cigni che cantano, è lacrime e sangue e il nostro sangue è stato versato per la Libertà. Oggi siamo attenti alle cose presenti, oggi, eccezionalmente, abbiamo scelto di rinunciare a libertà anche minime, ma questo non ci fa meno vigili verso chi auspica “padroni”, “capitani”, “guru” da seguire, esercito e guardie da mettere in strada. Attenti siamo ad ogni seppur lontano odore di quella “puzza” che hanno gli assassini di liberta. Su queste strade se vorrai tornare ai nostri posti ci ritroverai morti e vivi collo stesso impegno popolo serrato intorno al monumento che si chiama ora e sempre RESISTENZA Pietro Calamandrei (socialista), Giustizia e libertà E chiudo citando da una frase che è l’anima e il mio animo in quello che penso e che siamo: Noi siamo profondamente convinti che la giustizia sociale sia inseparabile da una democrazia vera, autentica.—  Giuseppe Saragat (socialista) Chiudo come Saragat chiudeva i suoi discorsi W l’Italia, W il socialismo! SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it