STORIA DI LIBERTA’ AD APRILE: IL VOTO SOCIALISTA DI NONNA CISPADANA A CUI I FASCISTI NON PIACEVANO

di Lidano Grassucci – Fattolatina.it rivista online dei tempi nuovi | Dedicato a chi pensa che si può dimenticare, a chi non ama i luoghi comuni, a chi pensa capovolto. A chi dice che a Latina sono tutti fascisti , a chi bestemmia che qui amavano Mussolini e a questa terra mia che è libera ad aprile Aprile di questi tempi per i giacobini era fiorile, tempo del fiorire. E uno dei fiori più belli di aprile è quello della libertà. Ed io una storia di libertà voglio raccontarvi, una storia minima, ma una storia emblematica. E, perché, no anche fuori dai luoghi comuni che fanno del pontini, in particolare dei cispadani, dei fascisti per sempre. La storia riguarda mia nonna, Gilga Pagin, classe 1904 da Piazzola sul Brenta, provincia di Padova. Venne qui, in questo agro maledetto, col marito perché lì, li dove vivevano avevano chiuso le fabbriche e da campare non ‘era proprio. Vennero per fame non per ideologia, per “bonificare” o per “redimere”. E non erano giganti, ma povera gente, in un regime infame. E iddio maledica chi dice il contrario. Sapevano la fame e la fame fame nera. Poi mio nonno Graziano morì a piazza del quadrato sotto le bombe e di lui neanche il ricordo è rimasto: mai ritrovato il corpo, come non fosse mai nato se non per quelle 5 figlie femmine che rimasero sole con Gilda. Gilda fece il suo e tirò avanti, una donna pratica che non si inteneriva mai. Il piacere, la bellezza, la felicità non erano contemplate nella sua vita. Ero nell’età delle curiosità e mi chiedevo della guerra e dei fascisti (ero stato educato da nonno Lidano e per me i fascisti erano, e sono, il peggio che possa esistere), ma a nonna avevano dato il podere, e tutti mi dicevano che i cispadani erano fascisti, o filo fascisti. E nonna era cispadanissima, parlava solo veneto, alta, occhi azzurri, una femminona che solo a guardarla ti facevi piccolo, piccolo. Chiesi direttamente a lei, che parlava poco o niente e non si esponeva mai, chiesi del “regalo”, dei fascisti, e di come la pensava lei. Non mi rispose direttamente, ma mi raccontò una storia: era in una famiglia di 8 figli, 4 maschi e 4 femmine. Due di questi fratelli maschi erano andati in Belgio e lei, ogni tanto, partiva e li andava a trovare. Ogni volta pareva che dovesse andare a Gerusalemme, stavano a Liegi. Lei mi racconta di uno di loro, Augusto, l’altro “belga” si chiamava Verdiano. Augusto era testa dura e si era innamorato da ragazzo di una fede, quella socialista e gli amori costano, costano tanto, costano una vita. Quando arrivarono i fascisti lui non demorse, amava allo stesso modo la stessa fede. Tutto era vietato dai fascisti, ma non il suo bavero e ogni 1° maggio che Dio mandava in terra, lui si vestiva a festa, prendeva il garofano rosso se lo metteva nel “libero bavero” e andava in piazza: schiena dritta e petto in fuori, cappello alle 11. Naturalmente lui, e gli altri “fioriti” come lui, le prendevano di santa ragione, olio di ricino compreso dai fascisti che ne conoscevano il vizio. Stava male un mese. Tutti a raccomandarsi di lasciar perdere di non fare queste cose, di pensare a lui ma il 1° maggio successivo la storia era eguale per filo e per segno solo le botte dei fascisti erano di più. Andò avanti anni, poi… poi dovette andar via in Belgio nelle miniere di carbone. Non erano botte, ma la vita e la vita di tutta la famiglia. E qui nonna mi confesso il “lascito” del fratello prima di partire: “Gilda ricordate ca pe nuantri poaretti questa l’è la bandiera, non te fa fregar Gilda, anche se mi parto”. Indicando la bandiera socialista. E tu nonna? “Se me fradeo, me ga ditto de far così e mi così faso”. Gli occhi azzurri di facevano lucidissimi, di pianto che non doveva far vedere a questo strano nipote, forse troppo curioso e con occhi di domanda da marocchino. Così ho scoperto che nonna votava socialista, per non dare ragione a chi aveva fatto male al fratello e per amor suo. I fascisti? “No, me piase”. Non disse altro. Non riprese mai l’argomento, ma nella sezione elettorale dove votava lei c’era sempre un voto socialista che non capivano mai chi lo continuava a dare, c’era, ma non ci doveva essere. Zio Augusto è morto in Belgio, in Italia non è più tornato, una vita in miniera e addosso ancora i colpi presi per un fiore. I figli non sono in miniera. Nonna è morta e alla sezione elettorale manca un voto per i socialisti. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

100° ANNIVERSARIO DI LIVORNO PRIMA E DOPO

  di Felice Besostri – Socialismo XXI Lombardia |     Lettera ai Compagni di Democrazia Socialista I compagni napoletani, che ogni settimana fanno uscire questo giornalino dell’associazione Filippo Caria, ritornato al PSI d’una volta dal PSDI, così hanno commentato il 100° di Livorno: “A Livorno, cento anni fa oggi, si consumava, nelle condizioni date, lo strappo in assoluto più divisivo nella storia del movimento operaio e socialista italiano ovvero la separazione tra socialisti e comunisti. In tutti questi anni si sono poi determinati, in diverse fasi e momenti, riavvicinamenti temporanei e allontanamenti altrettanto transitori tuttavia mai, gli uni e gli altri, fatta eccezione solo per alcune schiere o fanatizzate o ultra-identitarie, hanno dimenticato ed essenzialmente superato il “lutto” di una separazione che, comunque la si pensi, indebolì ed ancora indebolisce la sinistra di questo Paese. Le ragioni e/o i torti del 1921 nel fluire del tempo si sono sedimentate in una valutazione politica e storica che è oramai complessivamente accettata ed assodata. L’anniversario di oggi può e deve essere semmai l’occasione opportuna, senza dimenticare nulla di quegli eventi e delle esperienze correlate, per definire tutti insieme, socialisti e comunisti, dialetticamente le ragioni nell’oggi di una ricomposizione della sinistra nell’ottica di un’azione e di una lotta comune, condivisa in un momento, quello attuale, in cui in Italia si avverte forte la necessità di una sinistra, vera e praticata che sia all’altezza delle sfide del presente e che dia risposte ai bisogni e alle aspirazioni delle masse lavoratrici e popolari italiane. Saremo tutti noi all’altezza? “. Mi sembra che abbiano colto il nodo politico più di altri esponenti di rilievo delle irrilevanti formazioni della sinistra sopravvissute o intellettuali, di più, per es., di Pier Giorgio Ardemi, sul Manifesto del 23 gennaio 2021, il cui titolo “Non si tratta di memorialismo. Sinistra dove sei?”, invece, mi lasciava ben sperare. Con Livorno la storia della sinistra, per l’autore, coincide, nel bene (Gramsci e Togliatti) e nel male (Bordiga e Bombacci, quest’ultimo non nominato), con quella del PC(d’-I) e delle sue reincarnazioni, fatte o mancate, come quella socialdemocratica. Ci si dimentica, che in Italia, caso unico in Europa occidentale, il partito non fu isolato all’opposizione, terreno di coltura del settarismo, ma ha potuto essere forza di governo comunale, provinciale e, grazie all’iniziativa politica socialista (attuazione della Costituzione come condizione essenziale per il primo centro-sinistra, con rigoroso trattino), dopo le elezioni del 7 giugno 1970, regionale (senza il PSI il PCI non avrebbe potuto governare nemmeno nelle regioni rosse, che, invece è riuscito a perdere, come PD l’Umbria e senza le Sardine avrebbe potuto perdere l’Emilia Romagna, la Regione che nelle elezioni 2014 ha battuto il record di astensione/disaffezione elettorale con il 36,27% di voti validi). Questo è avvenuto sul piano politico, per non parlare di CGIL con la sua composizione plurale anche dopo la formazione di CISL e UIL e con personaggi come Giuseppe Di Vittorio, Luciano Lama e Bruno Trentin senza i quali la storia comunista italiana sarebbe stata diversa, ma anche loro se la CGIL fosse stata come la CGT. Solo gli immemori possono dimenticare la Federazione delle Cooperative e l’ARCI, anche dopo il drastico ridimensionamento delle Case del Popolo e dei Circoli operai e il salto delle Cooperative verso l’imprenditorialità capitalista-finanziaria. Dalla svolta di Salerno alla caduta del muro di Berlino, sembra non esistito il Fronte Popolare, la Rivoluzione ungherese, la Primavera di Praga, non sono più esistiti i socialisti da Pietro Nenni a Riccardo Lombardi, da Vittorio Foa a Norberto Bobbio, da Lelio Basso a Raniero Panzeri, da Francesco De Martino a Giacomo Brodolini e ne ho dimenticati tanti, per es. Fernando Santi e Antonio Giolitti. Peccato che con loro si rimuovono anche lo Statuto dei Lavoratori, la Scuola Media Unificata, il Servizio Sanitario Nazionale e la Nazionalizzazione dell’energia elettrica, per fare alcuni esempi concreti di democrazia progressiva più incisivi di prospettive generali quali il Compromesso Storico berlingueriano o la craxiana Grande Riforma. La costruzione intorno alle componenti storiche del movimento italiano ed europeo, arricchite dal femminismo, dall’ambientalismo, dal federalismo e dalla difesa intransigente dell’inviolabilità dei diritti umani individuali e collettivi è la componente centrale del dialogo ideale Gramsci- Matteotti per la costruzione concreta nell’azione del soggetto, che non c’era nel 1891 prima della fondazione del Partito dei Lavoratori e  che ora è scomparso, che, per usare le parole di Ardemi “si ponga l’obiettivo di guidare i bisogni di una società più giusta raccogliendo attorno a sé quegli strati che nella situazione attuale, sono ancora sfruttati e dal cui sfruttamento il capitalismo trae vantaggio perpetuo” Allegato: SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

COME I SOCIALISTI, I RADICALI E LEONARDO SCIASCIA SALVARONO LA VITA DEL MAGISTRATO D’URSO

  di Ezio Iacono – Socialismo XXI Sicilia |   Terminate queste “anomale” festività e preso atto che lo sciagurato virus continua a circolare, così come a mietere vittime con l’anelito che il vaccino possa essere efficace, cominciando a registrarne gli effetti in maniera patente, il pensiero, nel corso di queste giornate, è andato al caso D’Urso ed a quello che accadde 40 anni orsono, nel corso delle festività natalizie del 1980. Ricapitoliamo brevemente i fatti: il 15 dicembre le Brigate rosse rapirono Giovanni D’Urso, catanese di nascita e formazione ,magistrato dal 1959, Consigliere generale presso la Cassazione dal 1977, oltre che  Direttore dell’ufficio III dei Servizi di prevenzione e pena, presso l’allora Ministero di Grazia e Giustizia.  Cominciò così un caso che ha inevitabilmente segnato la storia politica italiana; come nell’ affaire Moro, coloro i quali si adoperarono per salvare la vita del magistrato, a cominciare dal P. S. I. oltre che dal Partito Radicale e forze della nuova sinistra, così come di personalità dello spessore culturale quale Leonardo Sciascia – del quale è necessario ricordare in questi giorni il centenario della nascita– si confrontarono con il famigerato ” partito della fermezza”, balzato agli onori della cronica proprio nel corso dei terribili 55 giorni del sequestro Moro. Forse che, attendendo l’infausto epilogo, come due anni prima era già avvenuto con il sequestro del Presidente democristiano, con il cadavere del leader ritrovato in via Caetani tra la sede della D. C. e del P. C. I., anche con il sequestro D’Urso, che, anche grazie all’impegno amorevole della famiglia, così come di organi di informazione, a cominciare da ” Il Messaggero” e giornalisti coraggiosi che si opposero al black out dell’informazione, venne liberato il 15 gennaio, il ” partito della fermezza” voleva servirsi del suo cadavere per indurre una svolta estremamente securitaria?  I 34 giorni del sequestro D’Urso, quindi, sono da ricordare come l’emblema di uno scontro di civiltà e di culture, e conseguentemente come un serrato confronto politico, destinato a durare nel tempo. Quale sarebbe stata la motivazione , secondo i contorti ragionamenti, oltre che il cieco odio, delle B. R. a indurle a compiere il sequestro? Come scriveranno nel primo forsennato comunicato, teso a rivendicare il sequestro, il Dott. D’Urso era apostrofato sprezzatamente come “l’aguzzino e boia dei proletari prigionieri” e veniva altresì dichiarato che “ il prigioniero è in un carcere del popolo e verrà sottoposto con un processo al giudizio del proletariato“.  I terroristi volevano imporre, tra le altre cose, la chiusura del supercarcere dell’ Asinara, ritenuto “arma di ricatto e di tortura” per i brigatisti ivi reclusi.  Mentre l’allora Ministro degli Interni Rognoni dichiarò che il Governo Forlani non avrebbe lasciato nulla di intentato, nel corso del dibattito parlamentare i Radicali chiesero la chiusura dell’Asinara, così come occorreva “leggere” i documenti delle B. R., andando oltre l’ossessione paranoica della chiusura del supercarcere, con la possibilità di individuare ulteriori possibili soggetti attenzionati dai brigatisti, guidati da Moretti. Il 20 dicembre, allorché venne diramato il terzo comunicato, sarà ritrovato, come già avvenuto con nel corso dei cinquantacinque giorni del sequestro Moro, una falsa comunicazione. E fu proprio in quel contesto che Marco Pannella ebbe la necessità di chiarire la posizione politica, allorché significò che da non violenti, i Radicali erano per un NO alla trattativa con chi usa la violenza, bensì preferiva “dialogo con i Compagni assassini“, come da intervista rilasciata al periodico ” Lotta Continua.” Frattanto il P. S. I. per il tramite del Compagno Segretario Craxi, proprio nel giorno di Natale si schierò facendo diffondere un comunicato della direzione del partito, nel quale venne affermato che la chiusura dell’Asinara sarebbe coincisa con un “adempimento giustificato e da più parti richiesto“, così da ottenere la chiusura dell’Asinara, stante che era un luogo ove erano tangibili condizioni inumane e degradanti, sia per i detenuti che per i detenenti. In realtà la chiusura era stata già programmata, anche per le ragioni appena sopra esposte, ma l’attuazione era stata rinviata a tempo indeterminato. A seguito di tale chiusura, sconfitto il fronte della fermezza, guidato da comunisti, repubblicani e missini, sembrava che la vicenda potesse ritenersi conclusa ed attendere l’imminente liberazione dell’ostaggio.  Ma, all’improvviso si aprì, a seguito di una rivolta carceraria e conseguente tragedia, la seconda fase della vicenda. Il 28 dicembre, domenica, nel carcere di Trani, terminata l’ora d’aria, il brigatista Seghetti aggredì il capo delle guardie e decise di sequestrarlo. Una settantina di detenuti si mobilitò procedendo alla cattura di altre guardie e decise di asserragliarsi nella sezione speciale del carcere. Il giorno successivo entrarono in azione i gruppi d’intervento speciale dei carabinieri, così da riuscire a domare la rivolta con il responso di ventisette feriti tra i rivoltosi e, per fortuna, nessun morto. Anche se lo spargimento di sangue non verrà evitato, poiché le B. R. uccisero il Generale Galvaligi, “reo” di aver implementato l’operazione di Trani. Il 29 dicembre, lo stesso giorno del blitz dei carabinieri, i brigatisti alzano ulteriormente la posta con un ultimatum. I nostri comunicati, affermarono, “devono essere pubblicati immediatamente e integralmente“. E ancora: “Se quanto sopra verrà disatteso, agiremo di conseguenza“. Il 4 gennaio furono ancora più espliciti. Da un lato annunciarono la condanna a morte del magistrato; dall’altro affermarono che “l’opportunità di eseguirla o di sospenderla deve essere valutata politicamente“. E che “per decidere se eseguire o sospendere l’esecuzione di D’Urso i comunicati dovranno essere trasmessi dai vostri strumenti televisivi, letti sui maggiori quotidiani italiani“. Pubblicare o no? Salvare D’Urso o lasciare che l’uccidessero? A questo punto della vicenda, quindi, la parola passò inevitabilmente ai giornali, poiché assumessero loro, non il governo, il ruolo di interlocutori dei brigatisti. “Il Tempo” ed il “ Corriere della Sera”, diretti rispettivamente da Gianni Letta e da Franco Di Bella, non solo annunciarono il silenzio stampa su tutte le notizie riferibili al terrorismo, ma chiesero anche  agli altri giornali di fare altrettanto. ”Il Messaggero” decise di  opporsi nettamente, così da continuare a dare tutte le informazioni sul terrorismo. Ma neanche gli altri giornali raccolsero …

SANDRO PERTINI: QUANDO UN PRESIDENTE SI METTE AL SERVIZIO DEL POPOLO ITALIANO

di Christian Vannozzi | Colui che diventerà il Presidente Pertini nasce a Stella, in provincia di Savona il 25 settembre 1896 e conobbe fin da piccolo le difficoltà che possono incontrare le famiglie numerose a cui viene a mancare prematuramente il padre. Alberto Pertini morì infatti giovane e la madre Maria Muzio dovette occuparsi di ben 5 figli, Sandro, Gigi, Giuseppe, Eugenio e Marion. La sorte volle che almeno, anche se il vuoto a livello umano rimarrà incolmabile, papà Pertini lasciò alla famiglia terreni agricoli e cascine ereditate, in modo che a livello economico la famiglia continuò a navigare in acque tranquille. Assieme al fratello Eugenio Sandro poté quindi frequentare il il ginnasio nel collegio dei salesiani di Varazze, dove imparò ad amare i poveri. Fu in ambiente cattolico che decise di lottare per difendere le classi più deboli, come gli operai e i contadini dei quali prese le parti fin da giovanissimo. Quando scoppiò la Grande Guerra fece la sua parte nel Reggio Esercito combattendo con coraggio, e al suo ritorno, con l’avvento della dittatura fascista, nel periodo più buio passato dall’Italia, combatté per la libertà della sua nazione subendone la condanna, il carcere e l’esilio. La sua adesione al partito risale al 1918, secondo le fonti del Centro Sandro Pertini (http://www.centropertini.org/biografia.htm), proprio nel periodo che vide l’inizio dello squadrismo fascista che porterà all’occupazione di Roma (con il beneplacito del Re) e all’inizio della dittatura. Il giovane Pertini subì più volte violenze da parte degli squadristi che non riuscirono mai a piegare il suo amore verso la democrazia, la libertà e la difesa dei più deboli. Con la caduta del regime divenne un ponto di riferimento per il Partito Socialista e per i partigiani che combattevano contro i nazisti che nel frattempo avevano occupato l’Italia. Il suo carisma era talmente grande che più volte risultò essere un esponente scomodo nella Sinistra Italiana, sia all’interno del PSI che verso gli alleati di quest’ultimo, ovvero i comunisti, verso i quali c’era senza dubbio stima reciproca per ciò che si era fatto per liberare l’Italia, ma anche ostilità verso le vie da seguire per raggiungere la democrazia, quelle vie libertarie a cui il futuro Presidente non rinunciò mai. I primi passi nel PSI portarono il giovane Sandro nella corrente riformista di Filippo Turati e Giacomo Matteotti. Nel 1921 è eletto consigliere comunale nel Comune di Stella, mentre nel 1921 è eletto delegato al Congresso socialista di Livorno, quello che porterà alla nascita del Partito Comunista d’Italia che dividerà per sempre le forze socialiste del nostro Paese in due. La svolta tragica per la situazione tragica del nostro Paese arriva nel 1922, anno tristemente ricordato per la “Marcia su Roma”. Per il Re la protesta mussoliniana divenne l’occasione per ridurre al silenzio i partiti di massa e i movimenti sindacali che stavano creando problemi alla monarchia, agli industriali e ai liberali. Benito Mussolini non era però uno stiletto da usare per il loro tornaconto e in poco tempo, dopo essere stato nominato Primo ministro direttamente dal Re, impose la sua spietata dittatura che devastò per 21 anni l’Italia, trascinandola in una spaventosa guerra. All’inizio furono molti gli italiani che appoggiarono Mussolini e che ben vedevano la sua marcia con le camicie nere che invadevano Roma sotto gli occhi del Sovrano e delle Forze dell’Ordine che simpatizzavano per il leader squadrista. Per gli italiani rappresentava il ritorno all’ordine e alla pace sociale dopo anni furiosi seguiti dopo la Prima Guerra Mondiale. Sandro Pertini, dopo la Grande Guerra, conseguì la laurea in Giurisprudenza a Genova nel 1923 e l’anno successivo, a Firenze, prese la laurea in Scienze Politiche. Estimatore dei socialisti riformisti Turati e Matteoti, seguì il discorso di quest’ultimo alla Camera dove attaccò apertamente Mussolini e le sue squadre di picchiatori. Purtroppo il leader socialista Matteotti pagò con la vita quell’attacco diretto ai fascisti, e Pertini iniziò a mobilitare le forze democratiche per porre fine al periodo fascista vedendo numerosi italiani che dopo l’omicidio gettarono via i distintivi fascisti. Come spesso però accade nel nostro Paese le forze non fasciste si mostrarono immobili, divise e incapaci a fronteggiare il pericolo. Il 3 giugno 1925, incurante del pericolo, il giovane Pertini pubblica l’opuscolo “Sotto il barbaro dominio fascista” per il quale viene condannato a 8 mesi di carcere. Nel 1926 subisce una nuova condanna per attività antifascista che gli costa 5 anni di confino. Per sottrarsi alla polizia si rifugiò a Milano presso Carlo Rosselli, dopo essere stato ferito dagli squadristi. Con il ritiro dei deputati contrari al regime all’Aventino, Mussolini iniziò la fascistizzazione dello Stato dichiarando decaduti i deputati e istituendo la polizia politica Ovra, che mise subito nel suo mirino l’attivismo di Sandro Pertini, che nonostante il pericolo continuò la sua azione democratica contro il Regime. Nonostante il fiato sul collo della polizia fascista Sandro Pertini, assieme a Turati, Parri e Carlo Rosselli riuscirono da Savona a fuggire in Corsica, dove poterono contare sul sostegno dei socialisti francesi che li aiutarono a raggiungere Parigi passando per Nizza. Nella capitale francese si poterono riunire con i vari Nenni, Modigliani, Treves e tanti altri finiti nel mirino dell’Ovra. Per mantenersi in Francia il giovane Pertini lavorò come “laveur des taxi” ed in seguito come muratore. Nel 1929 torna clandestinamente in Italia dove viene arrestato e condannato a 11 anni di reclusione. Storica la frase urlata dal futuro presidente italiano al momento dell’arresto, “VIVA IL SOCIALISMO ABBASSO IL FASCISMO”. Nel carcere di Ventotene, per l’umidità e lo scarso vitto inizia ad ammalarsi, tanto da riuscire a ottenere un trasferimento al carcere di Turi, dove conobbe Gramsci. Con il leader comunista all’inizio non fu facile, i rapporti erano infatti tesi dopo essere stati accusati di essere dei fiancheggiatori fascisti, ma ben presto le due grandi personalità, una socialista e l’altra comunista iniziarono a nutrire un profondo rispetto l’un l’altro, anche per il comune nemico rappresentato dal fascismo. Sandro Pertini fu trasferito nel carcere di Pianosa nel 1932, proprio per allontanarlo da Gramsci con il quale aveva …

LA NASCITA E LA DISSOLUZIONE DEL PSIUP

Storia socialista di Christian Vannozzi | La Rivoluzione ungherese del 1956 è da considerare una data storica per la storia del socialismo italiano, in quanto iniziavano a raffreddarsi i rapporti tra il PSI e il PCI, seguendo quello che avevano fatto i vari partiti socialisti europei. All’interno del Partito Socialista c’era però una frangia estremista che ancora favorevole all’unità d’azione con il PCI e solidale con Mosca. Coloro che aderivano a questa corrente furono appellati come carristi, in quanto non avevano mostrato il loro sdegno davanti all’occupazione di Budapest da parte dei carri armati sovietici, mentre il restante partito si definiva autonomista, perché seguendo gli altri partiti socialisti e democratici in Europa, si muovevano verso l’autonomia sia da Mosca che dal PCI. Nel 1963 il Partito Socialista appoggiò il Governo Moro, il primo di centro-sinistra della Repubblica Italiana, che prevedeva non solo ministri democristiani, ma anche repubblicani, socialdemocratici e per l’appunto socialisti. La cosa non fu gradita ai carristi che votarono contro la composizione del nuovo esecutivo e furono sospesi dal partito. Il leader della corrente carrista, Tullio Vecchietti il 12 gennaio del 1964, in un congresso tenuto al palazzo dei Congressi di Roma all’Eur, sancì la scissione dal Partito Socialista e la nascita del PSIUP, Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria, di cui assunse la guida. Il neonato partito iniziò subito una ferrea collaborazione con il PCI all’opposizione del Governo Moro, ottenendo alle elezioni del 1968 un buonissimo risultato con 23 seggi alla Camera dei Deputati, risultato raggiunto anche grazie all’appoggio della contestazione studentesca che voleva un cambio reale della società italiana. Nel 1972 il PSIUP non ottenne però un buon risultato, anzi, non riuscì a eleggere alcun rappresentante, tanto che i leader del partito decisero si scioglierlo e di confluire nell’alleato comunista, mentre una minoranza decise di tornare al PSI. Una piccolissima parte rifondò invece il PSIUP, col nuovo nome di NPSIUP che confluì assieme al movimento chiamato Alternativa Socialista, nel PDUP, Partito di Unità Proletaria, che dopo varie vicissitudini confluì nel PCI nel 1984. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

L’ASSURDA AMNESIA SULLA STORIA SOCIALISTA

di Pierluigi Battista | Damnatio memoria è forse è troppo, ma questa cancellazione di ogni sia pur minimo frammento che ricordi la tradizione socialista italiana, questo annichilimento persino lessicale, questa sparizione assoluta di un pezzo importante della nostra storia, come vogliamo definirla? Se persino un “post” assoluto come Matteo Renzi, uno che con la tradizione comunista non ha niente a che fare e anzi sta smantellando ogni traccia residuale di ideologismo di marca comunista, se persino lui, senza nemmeno avvedersene, schiaccia tutta la storia della sinistra italiana come emanazione del Pcí, che segno è? Dice Renzi che la sinistra nemmeno votò a favore dello Statuto dei lavoratori con l’articolo 18. Ma come lo Statuto dei lavoratori è stato fatto dalla sinistra, quella socialista. Il padre dello Statuto è stato un socialista, Giacomo Brodolini e il suo Ispiratore un grande glaslavorista socialista, Gino Giugni. E invece passa l’idea che la «sinistra» sia stata contro. Il socialismo espulso dalla storia e dalla sinistra. Una dimenticanza ma molto eloquente. Fa bene sul Foglio Guido Vitiello, a menzionare, con ironia e conservando il senso delle proporzioni, qualche precedente. Come le “mani” di Karl Radek che continuavano a dimenarsi, staccate dal corpo del loro proprietario, nel filmato, di un congresso della Terza Internazionale»: Stalin voleva azzerare ogni traccia del dirigente bolscevico caduto in disgrazia, ma quei particolare delle mani gli era sfuggito. Oppure le tre versioni nelle fotografie della Rivoluzione cubana. «a prima con Castro che parla animatamente accanto a Carlos Frenqui e ad Enrique Mendoza» nella terza, strappati via i dissidenti Frenqui e Mendoza solo Castro che parla come uno squilibrato. Ma sulla cancellazione della storia socialista nessun “Commissariato degli archivi“, come si intitola uno splendido libro di Alain Jaubert provvede a distruggere i reperti scomodi del passato, come accade negli Stati totalitari. Qui è solo il trionfo del più vieto luogo comune, l’incapacità di capire, secondo gli stereotipi del senso comune, quanto sia stata importante il riformismo socialista nella storia italiana fino a Bettino Craxi, anzi soprattutto con l’accelerazione modernizzatrice impressa da Craxi, mentre il Pci ancora non aveva ancora spezzato il legame di ferro con le mitologie del comunismo realizzato. Un luogo comune così pervasivo da sfiorare persino un “campione” della politica post-ideologica come Renzi. Tratto dal Corriere della Sera.     SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

IL GIORNO IN CUI “STRAPPAMMO” REGGIO CALABRIA DAI BOIA CHI MOLLA

La discesa al Sud dei sindacati, tra dissensi e bombe Non tutti erano d’accordo. L’iniziativa fu dei metalmeccanici, la Cisl si dissociò ma Carniti era lì, con Lama, Trentin e Benvenuto. Il timore era lo scontro con i guerriglieri guidati dal Msi. I treni furono fermati dalle bombe ma ripartirono di Giuliano Cazzola – Il Riformista | Una delle risposte alle lotte dell’autunno caldo, nel 1970, era stata l’istituzione delle Regioni. In quella circostanza, in Calabria, stabilirono che gli uffici del nuovo Ente dovessero essere a Catanzaro. A Reggio Calabria la decisione suonò come un insulto. In luglio, giusto mezzo secolo fa, vi furono vere e proprie sommosse popolari: ci scapparono persino due morti negli scontri tra dimostranti e Forze dell’Ordine (un ferroviere ed un brigadiere di Pubblica Sicurezza). Fatti analoghi si svolsero anche in Abruzzo, a L’Aquila, in seguito alla scelta di Pescara come capoluogo. La Federazione del Pci venne presa d’assedio: i dirigenti e gli impiegati vennero fatti uscire tra gli sputi e gli insulti. A Reggio Calabria i partiti si spaccarono: un pezzo della Dc (sindaco in testa) e le destre appoggiarono la rivolta. Il Psi si trovò nel mirino, dal momento che il suo segretario nazionale Giacomo Mancini era calabrese (anziano, prima di morire, è tornato a fare politica nella sua regione, come sindaco di Cosenza ed ha avuto e superato pesanti disavventure giudiziarie) e veniva accusato di aver tradito i reggini. Il Pci (insieme alla Cgil) tenne una linea di assoluta fermezza: bollò quei moti come se fossero populisti e fascisti. Per molti mesi non cedette di un millimetro; i militanti si asserragliarono nei locali della Federazione e fecero sapere che non era conveniente prenderli d’assalto. Nessuno osò provarci. La città scivolò nelle braccia del Msi che prese le parti della causa reggina. E nelle elezioni successive il partito di Giorgio Almirante raccolse un sacco di voti e mandò in Parlamento uno dei caporioni della rivolta: Francesco (Ciccio) Franco, già “condottiero vociante” delle guerriglia urbana, sindacalista della Cisnal (ha cambiato nome in Ugl e si è un po’ ripulita), militante del Msi da cui era stato espulso (e riammesso) almeno cinque volte. La sommossa proseguì anche nei primi mesi del 1971. In città c’era una sola fabbrica metalmeccanica di una certa consistenza: le Officine Omeca, produttrici di materiale ferroviario. Nelle prime ore, gli operai erano stati i primi a salire sulla barricate. Poi era cominciata una lenta azione di recupero. Per placare lo scontento, l’Assemblea regionale deliberò un progetto di dislocazione articolata degli uffici pubblici (la Giunta regionale a Catanzaro, il Consiglio a Reggio Calabria, l’Università a Cosenza). Dal canto suo, il Governo decise di costruire il V Centro siderurgico in provincia di Reggio Calabria, nella Piana di Gioia Tauro. Non era la prima volta che colossali insediamenti dell’industria di base dovevano servire a risolvere problemi sociali. La chimica sarda, ad esempio, fu pensata come alternativa al banditismo e all’industria dei sequestri. Ai sindacati il V Centro sembrava una grande opportunità; non così ai reggini. La storia e l’economia hanno dato ragione alla loro sfiducia. In quella località si sono distrutte rigogliose coltivazioni e si sono inseguiti progetti diversi. Sfumata l’ipotesi della siderurgia, si è pensato ad una Centrale dell’Enel, poi anche questa soluzione fu accantonata. È rimasto il porto. Doveva essere la struttura di servizio all’impianto siderurgico, invece ha trovato una sua interessante convenienza come porto vero e proprio. Pare che svol-ga anche una discreta attività: il suo problema sta nella fragilità del sistema stradale per raggiungere le banchine o per allontanarsi da esse. Ovviamente queste considerazioni valgono al net-to delle infiltrazioni della criminalità organizzata. Al dunque, i reggini sapevano bene che gli uffici della Regione avrebbero portato occupazione “pesante” e ga-rantita per alcune migliaia di persone. In qualche modo i fatti hanno dato lo-ro ragione. Ma questa è tutta un’altra storia. Quella che vogliamo raccontare è la seguente: la Calabria fu teatro, nell’autunno del 1972, di un’altra importante manifestazione dei sindacati metalmeccanici, i quali decisero, con la solita spettacolarità delle loro iniziative, di collegare la piattaforma per il rinnovo contrattuale (nel frattempo venuto a scadenza) ad una “vertenza per il Mezzogiorno”. A Reggio Calabria doveva svolgersi un Convegno, seguito da una grande marcia di lavoratori provenienti da tutto il Paese. Vennero fissati i giorni del 20 e 21 ottobre per la prima parte e il 22 per la manifestazione. Appena annunciata, la cosa suscitò non poche perplessità. Nella città calabrese vi era una situazione molto tesa, si temeva la ripresa dei disordini di alcuni mesi prima, in presenza di un evento che aveva oggettivamente il sapore di una provocazione, agli occhi del ribellismo dei “Boia chi molla”, egemonizzato, con tanta fatica, dal Msi. Era forte la preoccupazione delle strutture sindacali e di partito delle Regioni del Sud. Tanto più che anche all’interno dei sindacati erano sorti dei problemi. La segreteria confederale della Cisl non approvò l’iniziativa; il che mise in una situazione delicata la Fim-Cisl di Camiti, anche perché la Cgil decise di partecipare in modo plenario, con tutti i 12 segretari confederali e i gruppi dirigenti di categoria e delle strutture orizzontali. In verità, anche nella Confederazione di Lama non tutto era stato pacifico. Come nel Pci. La questione si sbloccò in occasione di un Convegno sul Mezzogiorno che il partito comunista organizzò alcune settimane prima a L’Aquila. Svolse la relazione introduttiva Alfredo Reichlin e trasse la conclusioni Pietro Ingrao. Ma la svolta venne da un breve discorso (in tutto 17 minuti) letto da Enrico Berlinguer (allora vice segretario in attesa di prendere il posto di Luigi Longo): la manifestazione di Reggio Calabria andava -affermò – nella direzione giusta e avrebbe avuto l’appoggio del partito. Subito dopo l’aria cambiò: Pci e Cgil presero in mano l’organizzazione di quelle giornate. Allora si aveva veramente a che fare con una potente “macchina da guerra”. Aldo Giunti, il segretario organizzativo della Cgil, si piazzò a Reggio Calabria e volle seguire tutto di persona. Ovviamente, questa situazione pesava politicamente sulla Fim (ed anche sulla Uilm, …

ROSSANA

di Franco Astengo | Oggi il comitato centrale del PCI ha radiato i quattro fondatori e dirigenti del giornale «il Manifesto»: Rossana Rossanda, Pintor, Aldo Natoli e Magri (i primi tre membri del comitato centrale). Essi hanno difeso la loro posizione con un forte intervento di Natoli. Ci sono stati 9 voti contrari (o astenuti) alla radiazione. C’è sorpresa in giro. In verità nella sessione di ottobre del comitato centrale era prevalsa la linea Berlinguer favorevole a soluzione negoziata e indolore. Si parla di intervento sovietico. Può darsi che ci sia stato, ma non c’è bisogno dell’intervento di Mosca. La logica del sistema comunista è quella che è. La si accetta o la si respinge. Difficile conciliarla con la vita democratica nel partito e nello Stato. Dai Diari di Nenni – 26 novembre 1969. [N.d.R.] E’ scomparsa Rossana Rossanda: superfluo per chi osa scrivere da un angolo di lontana periferia dell’impero testimoniare della sua figura di lucida anticipatrice nel panorama “storico” della sinistra comunista in Italia e in campo internazionale. Vale però la pena di riflettere sugli straordinari passaggi via via verificatisi nel corso della sua vita politica e culturale: dalle responsabilità assunte ai vertici del PCI con le segreterie di Togliatti e Longo, alla radiazione del “Manifesto”, alla trasformazione della rivista in quotidiano come vero e proprio “miracolo” in equilibrio tra editoria e politica nel corso dei decenni più travagliati della vicenda italiana. Senza alcuna volontà di esternazione retorica ritengo però che, ancora, il momento più alto di questa storia sia stato rappresentato dalla vicenda del “Manifesto” gruppo politico, o tendenza o sensibilità, all’interno del PCI fino alla radiazione. Questo giudizio mi pare avvalorato da almeno tre ragioni: la prima quella della straordinarietà di livello culturale e politico di quel gruppo, la seconda quella della forza della capacità di analisi in essere nelle argomentazioni poste nel corso dello scontro con la direzione del PCI, la terza perché quel gruppo ha rappresentato l’espressione politica più importante nell’originalità della presenza della sinistra comunista in Italia. Rossana Rossanda è stata, con grande coraggio e livello di dimensione intellettuale, capace di rappresentare la presenza di una sinistra comunista caratterizzata all’interno del “caso italiano” fin dall’elaborazione gramsciana a partire dall’articolo profetico “la Rivoluzione contro il Capitale” e dal congresso di Lione ’26 e poi ,a discendere, fino alle analisi riguardanti lo sviluppo del capitalismo italiano , alle analisi relative alle dinamiche internazionali, alle riflessioni sul mutamento nelle forme della politica e sul rapporto tra questa e i vorticosi mutamenti delle categorie sociali. Il gruppo del Manifesto è stato semplicemente (ma radicalmente) portatore di un dato di modernità nella prospettiva dello sviluppo individuandone i motivi profondi della crisi ed egualmente era stato capace di reclamare una forte innovazione nella possibilità di espressione dei propri fini politici. Ci trovavamo all’epoca dentro a un quadro molto complicato segnato dal modificarsi nell’insieme delle relazioni internazionali (guerra del Vietnam, decolonizzazione in Africa, nuova fase del bipolarismo dopo la stagione kruscioviana) e dalla ripresa delle lotte (il ’68 era trascorso, ma in Italia resisteva la contestazione con la saldatura operai/studenti, la stagione dei consigli, la spinta verso la democratizzazione del Paese). L’origine del confronto tra PCI e le diverse espressioni di sinistra comunista e no (pensiamo a Panzieri, ai Quaderni Rossi, all’operaismo, a parti di CGIL e PSIUP ) si era però sviluppata nel tempo ed era maturata con gradualità: almeno dal ’62 dal convegno del Gramsci sulle tendenze del capitalismo italiano, poi con la morte di Togliatti, l’XI congresso, l’invasione di Praga. L’invasione di Praga rappresentò, come molti ricorderanno, lo snodo decisivo. Per tutti gli attori in campo, Manifesto compreso c’era da segnalare il permanere di un pesante bagaglio ideologico, anche con una qualche espressione di ingenuità nella ricerca di riferimenti diversi. Però l’oggetto del contendere era chiaro: quello della ricerca intorno a quali valori della modernità si poteva fondare un progetto alternativo. Un progetto alternativo che indicasse un orizzonte in quel momento giudicato “maturo” rispetto ad un modello di fraintendimento dell’inveramento statuale della rivoluzione avvenuta, giudicato già con grande anticipo come irriformabile. Cercando di usare categorie gramsciane si può affermare che il PCI, nell’occasione della radiazione del Manifesto, finì con il rinunciare a una possibilità originale di esercizio della guerra di posizione collocandosi invece, nei suoi i tratti essenziali, dentro a un processo di “rivoluzione passiva”. Un processo di “rivoluzione passiva” introiettato drammaticamente come prologo alla caduta degli anni’80 e alla sostanziale incapacità di resistere alla controffensiva dell’avversario. Rossana invece ha resistito da allora fino alla fine ostinatamente in direzione uguale e contraria e sta in questo punto, a mio giudizio, il grande valore della sua presenza politica, culturale, morale. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

REFERENDUM COSTITUZIONALE L’IMPORTANZA DEL PARLAMENTO

Nella foto, Salone del Parlamento della Patria del Friuli, Castello di Udine di Avv. Luca Campanotto* | 20 Settembre 2020, Referendum costituzionale sulla proposta di taglio dei seggi parlamentari … la nostra storia può farci riflettere sul Parlamento, sulla sua importanza, sul suo ruolo … il Friuli rivaleggia con l’Inghilterra quanto ad antichità e importanza della sua assemblea rappresentativa; quando il Capo dello Stato era un ecclesiastico (il Patriarca di Aquileia, Principe del Friuli), il Parlamento della Patria del Friuli venne progressivamente ampliato: prima vi godevano di un seggio i Membri dell’Alto Clero e gli Abati e le Badesse; la Nobiltà Imperiale e la Nobiltà Patriarcale; anche le Principali Città del territorio patriarcale; poi tutti i Comuni Urbani della Patria del Friuli; in un terzo momento ancora successivo la Contadinanza. Con la conquista armata da parte della Serenissima il Friuli fu smembrato in due tronconi e solamente nella sua minore parte orientale rimase all’Impero fino alla Prima Guerra Mondiale mentre i poteri del Parlamento vennero svuotati e accentrati sul nuovo organo monocratico costituito dal Luogotenente di Venezia nella Patria del Friuli; con l’arrivo di quel rivoluzionario dittatore che si chiamava Napoleone Bonaparte anche tale simulacro venne formalmente soppresso e perfino i confini della Patria vennero modificati dall’alto d’autorità per dare un contentino a Venezia. Dopo il Trattato di Campoformido (Mandamento di Portogruaro); quando dopo la Seconda Guerra Mondiale il Padre Costituente Tiziano Tessitori riuscì ad affrancare il Friuli dal Grande Veneto Serenissimo dovette contestualmente accettarne l’innaturale e ugualmente dannosa unione col nuovo capoluogo regionale di Trieste in una artificiale e innaturale Regione Autonoma duale CON TRATTINO che oltretutto risulterebbe quella più penalizzata in assoluto qualora vincessero i SI. Basta conoscere la propria storia parlamentare per votare NO il 20 Settembre 2020, ma anche la più recente storia regionale effevuggina può davvero risultare illuminante: in questa Regione (Autonoma solo di nome poiché si continuano a seguire le sirene del sistema politico statale) abbiamo già assistito svariati anni fa al grave sfregio anti-democratico e oligarchico che ora rischia di ripetersi ingigantito a livello statale: la L. Cost. 1/13 ha già tagliato i seggi del Consiglio Regionale della Regione Autonoma Friuli – Venezia Giulia … e senza possibilità di referendum costituzionale (vietato ex L. Cost. 2/01, sulle modifiche allo Statuto Speciale, sia pur per altri motivi) … risultato di tale taglio: i territori più piccoli come il Friuli Orientale Goriziano e quelli meno popolati come la Montagna dell’Alto Friuli stanno soffrendo, mentre la qualità della rappresentanza in Consiglio Regionale non è affatto migliorata, anche grazie a una legislazione elettorale regionale che per molti motivi sia generali sia speciali. Già oggi si può ben etichettare F-VG-PORCELLUM ancor prima del possibile futuro blocco delle liste e Dio non voglia addirittura dei listini regionali sul modello del ROSATELLUM BIS TER già in vigore quale legge elettorale politica per il Parlamento Italiano: ECCO ULTERIORI MOTIVI DAVVERO EMBLEMATICI PER VOTARE NO IN OCCASIONE DEL PROSSIMO REFERENDUM COSTITUZIONALE 20 SETTEMBRE 2020 anche se poi ci sono anche i friulani (addirittura friulanofoni) che mi scrivono addirittura in perfetto friulano che voteranno SI, ma speriamo appartengano oramai a una specie in via di estinzione in Friuli assieme ai grillini poiché il Friuli sempre che non voglia scomparire dalla cartina geopolitica nel giro di qualche anno dovrebbe darsi una bella svegliata AD ESEMPIO VOTANDO IN MASSA NO IL PROSSIMO 20 SETTEMBRE 2020. * Avv. Luca Campanotto – diritto civile, penale, amministrativo Udine Fonti storiche: Istitutladinfurlan.it SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

DAL 25 LUGLIO ALLA COSTITUZIONE

di Franco Astengo | Un ricordo del 25 Luglio 1943 non può essere riservato semplicemente alla narrazione dei fatti che portarono alla caduta del fascismo, attraverso quella che generalmente viene ricordata come “una congiura di palazzo”. Appare importante, proprio in questa fase di vero e proprio “sfrangiamento” del nostro sistema politico, valutare anche i fatti di quel giorno fatidico alla luce di quanto accaduto nei successivi fondamentali passaggi dell’8 Settembre 1943 e del 25 Aprile 1945 sotto l’aspetto del dibattito e delle relative scelte che si svilupparono e furono adottate in funzione della costruzione/ricostruzione della democrazia in Italia. Processo di costruzione/ricostruzione della democrazia in Italia che trovò poi nell’Assemblea Costituente la sua sede d’espressione fino al varo del testo costituzionale. Il testo della Costituzione del ‘48 resta ancora oggi il punto di riferimento fondamentale attorno al quale stringersi per difendere e affermare la nostra democrazia. La democrazia moderna non è una forma spontanea di organizzazione della società, ma il frutto di una conquista lenta e difficile. In Italia dopo il fascismo le difficoltà della ricostruzione democratica si innestarono di su un processo storico che, già, prima del fascismo appariva fragile e incerto. Non si deve perciò immaginare la rinascita democratica in Italia, nel secondo dopoguerra, come liberazione di un corpo estraneo o come ritorno a una scontata fisiologia democratica. Per entrare in questa prospettiva critica è necessario accennare ad alcuni fra i tanti elementi della eredità del passato che condizionarono la rinascita democratica: un’incertezza, anzitutto, nella classe politica antifascista, sulla stessa idea di democrazia legata alle diverse premesse ideologiche e alla diverse letture della storia del Paese; una ancor più profonda incertezza su quello che potremmo definire uno statuto democratico dei partiti politici; infine il complesso e contraddittorio vissuto degli italiani nel corso del ventennio. Rientrarono in scena i partiti politici che, fino a quel momento, avevano vissuto tra esilio e lotta interna le vicende di una difficile sopravvivenza, ma non erano disposti a ripartire dal passato, al di là delle polemiche sulla consistenza del fascismo, dell’antifascismo e dell’afascismo. La fase di riorganizzazione impedì ai partiti di avere influenza sugli avvenimenti che portarono al colpo di Stato del 25 Luglio. Il ruolo dei partiti risultò, invece, assolutamente decisivo subito dopo l’8 Settembre, e per questo fatto il loro processo di ricostituzione va considerato fondamentale per lo sviluppo dei fatti storici dell’epoca e per affermare, senza alcun dubbio, dove andasse a collocarsi la continuità dell’unità nazionale, rispetto alla successiva formazione della Repubblica Sociale Italiana. La trasformazione del comitato dei partiti antifascisti in Comitato di Liberazione Nazionale, avvenuta fin dal 9 Settembre a Roma, collocò subito la Resistenza come secondo Risorgimento approvando fin dal giorno 10 Settembre una mozione che costituiva un punto fermo di grande importanza politica. Vi si legge: “Nel momento in cui il nazismo tenta di restaurare a Roma e in Italia il suo alleato fascista, i partiti antifascisti si costituiscono in Comitato di Liberazione Nazionale per chiamare gli italiani alla lotta di Resistenza e per riconquistare all’Italia il posto che gli spetta nel consesso delle nazioni libere”. La democrazia italiana che rinasceva dopo il fascismo riprendeva un cammino interrotto proprio dallo stesso fascismo e si presentava, quindi, in linea di continuità con lo Stato Liberale o ci si sarebbe dovuti avviare verso una strada del tutto nuova? Il fascismo aveva segnato una totale rottura rispetto alla storia precedente o non aveva nella storia dello stato liberale le sue radici? Si svilupparono, nel corso della fase storica cui ci stiamo riferendo, risposte diverse: la posizione liberale, rappresentata da Benedetto Croce e quella azionista, che si opposero tra di loro ma, per certi aspetti, finirono entrambe con il rimanere interne a una stessa concezione della politica che era quella degli eredi del Risorgimento nelle sue due componenti: la moderata e la democratica. Si manifestò così un doppio cleavage fra le forze politiche italiane; vi si trovava, certo, una discriminante sul tema della libertà e del suo rapporto con la democrazia e sui contenuti della democrazia stessa, se solo formali o anche sostanziali; ma vi trovava anche un’altra e più profonda  contrapposizione che riguardava, per così, dire i “protagonisti” della democrazia e il ruolo, rispettivamente, dei gruppi di élite legati alla tradizione del Risorgimento e dei partiti che rappresentavano le realtà popolari. Il problema della democrazia si intrecciava, subito all’indomani del 25 Luglio, con quello dei soggetti politici della democrazia e sul ruolo dei partiti. La continuità dello Stato fu confermata sulla base degli accordi di Salerno e un mutamento degli equilibri istituzionali e politici fu rinviato a una volontà popolare espressa in libere elezioni. In quel dibattito si era confrontata, in sostanza, la proposta azionista di una guida giacobina della ricostruzione democratica con quella di una continuità formale entro la quale i partiti popolari avrebbero potuto esprimere le loro future potenzialità. In definitiva i partiti popolari assunsero un ruolo centrale nella ricostruzione democratica senza che di questa decisa innovazione non vi fosse neppure esplicita coscienza. I partiti si sarebbero affermati in ragione di una necessità storica più forte di qualsiasi consapevolezza critica, attraverso la stagione delle grandi formazioni di massa, capaci di condurre ,attraverso un forte radicamento sociale, un lavoro capillare di insediamento della democrazia nel Paese: la scelta del “Partito Nuovo” compiuta da Togliatti fu, in questo senso, del tutto fondamentale per la conformazione dell’intero sistema. Si tratta di un altro elemento dell’eredità del passato sul quale giova riflettere. Nell’assoluta centralità del ruolo avuto dalla Resistenza nella costruzione del nuovo processo democratico italiano, soprattutto sul piano morale, non si può dimenticare quanto le radici della democrazia, non solo a livello di idee e di cultura politica della classi dirigenti, ma anche della sensibilità popolare fossero fragili e incerte. Già Federico Chabod, nelle sue lezioni alla Sorbona nel 1950, aveva posto in luce l’esistenza di “tre Italie” i cui confini erano stati segnati dallo svolgimento delle operazioni militari: al Sud, al Centro e al Nord. Ebbene, fu con questa Italia, con le sue contraddizioni e le sue arretratezze, che …