IL SOCIALISMO IN GIAPPONE: DIRITTI SOCIALI, CIVILI E FEMMINISMO NONOSTANTE IL REGIME NAZIONALISTA

Nell’immagine di copertina Hiratsuka Raicho di Christian Vannozzi | La storia del socialismo in Giappone è sempre stata avvolta nel mistero, non perché questo sia una sorta di società segreta nell’Impero nipponico, ma per colpa dell’Occidente, che ha sempre ignorato questa via nel Paese, considerando i giapponesi un popolo arretrato e autoritario dal punto di vista politico, dove la matrice shintoista e confuciana che ha sempre appoggiato i poteri imperiali ha fatto il modo di rendere il popolo servile e i diritti civili e sociali più antiquati. Anche dalla sinistra italiana il Giappone è sempre stato visto come un Paese nazionalista e quindi poco propenso al socialismo, molto vicino agli Stati Uniti, economicamente parlando, e con un sistema capitalistico che non aveva niente da invidiare all’Occidente. Niente di vero, ma solo supposizioni, in quanto lo shakaishugi, ovvero il socialismo, è vivo in Giappone sin dal 1880, quando si sviluppò un movimento liberale per i diritti civili, l’eguaglianza, la libertà e il suffragio universale. Nel 1882 fu fondato il Toyo shakaito, ovvero il Partito Socialista dell’Oriente, formazione politica che fu subito sciolta dall’esercito perché antistatale, ma l’anno dopo fu fondato lo Shakaito, Partito Socialista, che nel corso degli anni attirò le simpatie di numerosi intellettuali della sinistra liberale e si avviò verso un socialismo moderno, e una coesistenza con le tradizioni e il regime imperiale, un pò come accadeva nel partito laburista inglese. Il nuovo partito socialista iniziò a tessere legami con i socialisti statunitensi e specialmente con gli operai che migrano in America in cerca di fortuna. Questi lavoratori entrano in contatto con le idee socialdemocratiche che circolavano negli USA provenienti dall’Europa. Nel 1897 Takano Fusataro, un intellettuale giapponese, pubblicò Shokko shokun ni yokosu, ovvero l’Appello ai compagni lavoratori, per denunciare le ingiustizie sociali del capitalismo. Lo stesso Fusataro fondò un sindacato per difendere i diritti degli operai nipponici. La reazione del Governo imperiale non mancò, e nel 1900 dichiarò illegali le attività sindacali e proibì la traduzione di libri in giapponese di Zola, Engels, Marx e Tolstoij, chiudendo letteralmente le porte ai movimenti socialisti, sia intelletuali che politici. I sindacati continuarono a operare come società private di mutuo soccorso, ai limiti della legalità, ma con la funzione sociale di poter aiutare materialmente le classi più deboli. Il socialismo in Giappone si sviluppò anche come circolo culturale, nonostante il forte controllo dell’esercito. Gli studi sul socialismo portarono le associazioni a chiedere il suffragio universale, il disarmo, la nazionalizzazione delle terre, dei capitali e dei trasporti, e l’istruzione pubblica a carico dello stato. Naturalmente furono dichiarate fuorilegge e sciolte. Ogni cosa che andava contro il nazionalismo imperiale era infatti visto come sovversivo e come mina per il crollo dell’Impero. Ogni causa era buona per muoversi in maniera violenta contro i socialisti, come nel 1909, quando una manifestazione con le bandiere rosse mosse la polizia a usare le armi contro i manifestanti, accusati di voler rovesciare la monarchia. Nel 1910 i socialisti furono invece accusati di volere la morte dell’Imperatore, accusa infondata, ma essendo militanti politici storicamente contro i privilegi e le cariche nobiliari per il Governo nipponico bastava per accusarli di tutto questo e usarli spesso come capro espiatorio. Leader indiscusse del movimento socialista in Giappone furono anche le donne, anche se nei testi occidentali non se ne parla mai. Queste furono la vera e propria anima del socialismo giapponese e svolsero un’intensa attività politica che portò all’emancipazione di queste in un Paese nettamente maschilista. Le donne chiedevano l’emancipazione, la parità dei sessi, l’istruzione, e il suffragio universale, tutte cose impensabili nel Paese prima dell’avvento delle idee socialiste. Hiratsuka Raicho (1886-1971) fu la leader del movimento di emancipazione femminile raccoltosi intorno alla rivista “Seito” (Calze blu), e negli ultimi decenni del 1900 la signora Doi Takako guidò il Nihon shakaito, Partito Socialista del Giappone a essere il maggior partito d’opposizione del Paese. In Giappone il socialismo non fu soltanto un movimento politico, ma anche e soprattutto un movimento intellettuale e sociale, perché grazie a esso il Paese si è avviato verso le riforme sociali e civili, verso i diritti delle donne e il suffragio universale, specialmente dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale e il crollo del regime militarista che aveva portato il Paese alla catastrofe. Bibliografia Kato, Shuichi, Storia della letteratura giapponese, vol.3., Marsilio, Venezia, 1996. Sato, Yoshimaru, Meiji nashonarizumu no kenkyu, Fuyo shobo, Tokyo, 1998. Shiba, Ryotaro, Shiba Ryotaro ga kataru zasshi genron hyakunen, Chuo Koron sha, Tokyo, 1998. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

IL CENTROSINISTRA E IL PARTITO SOCIALISTA UNIFICATO

di Christian Vannozzi | Il 1960 è un anno cruciale per il nostro Paese, in quanto il democristiano Fernando Tambroni cercò di formare una maggioranza parlamentare con il PSI di Pietro Nenni, che però a quel tempo era ancora ancorato all’idea di unità a sinistra, cosa che fece deviare la DC verso un Governo appoggiato esternamente dal Movimento Sociale e dai monarchici. Proprio il Movimento Sociale, erede della tradizione fascista, in cambio dell’appoggio al nuovo Governo, ottenne il permesso di celebrare a Genova il proprio Congresso Nazionale, in una città che era stata l’emblema della lotta al nazifascismo durante la Resistenza. I cittadini naturalmente protestarono appoggiati dalla CGIL, e ben presto le lamentele si estesero a tutta l’Italia, trovando l’appoggio anche degli altri sindacati e soprattutto del PCI. La DC decise quindi di rinunciare all’accordo con i missini per trovare altre soluzioni. Nel 1962 Amintore Fanfani formò un Governo monocolore DC con l’appoggio del Partito Repubblicano e dei Socialdemocratici, che vedeva l’astensione del PSI. Nenni, in questo modo, iniziava a muovere i suoi primi passi verso il “Centro” e verso una possibile alleanza con i partiti centristi. Per l’Italia e per la socialdemocrazia fu un anno storico, in quanto, pur se con la sola astensione dei socialisti, il Governo Fanfani diede vita a numerose riforme tra cui la scuola media unificata, la nazionalizzazione delle industrie dell’energia elettrica (ENEL) e la cedolare d’acconto. Primi passi verso uno Stato Sociale che iniziò a formarsi in maniera più consistente nel 1963, quando l’onorevole democristiano Aldo Moro formò il primo Governo di Centro-Sinistra che vedeva l’ingresso nella maggioranza del PSI di Pietro Nenni, con propri ministri. Iniziava in questo modo una nuova epoca per la politica italiana, in quanto oltre ai socialdemocratici anche i socialisti entravano nel Governo, con la possibilità di riunificare il PSI in un unica anima. Purtroppo non tutti i socialisti la pesavano in questo modo, e la parte più massimalista, rimasta ancorata all’alleanza con il partito comunista, nonostante le sconfitte elettorali e la sudditanza verso l’alleato, formò il Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria, (PSIUP). La rottura nel primo Centro Sinistra avvenne però proprio sui fondi da destinare al welfare e sulla riforma urbanistica che vide il veto del Vaticano e degli industriali. Nel giugno del 1964 cadde il Governo Moro, e la ciliegina sulla torta fu rappresentata dalle minacce, o per meglio dire, dalle paure di colpo di Stato da parte del generale De Lorenzo, in quello che passerà alla storia come Piano Solo. L’elezione come Presidente della Repubblica di Saragat, nel 1964, vide un nuovo accordo tra la DC e il PSI, proprio per scongiurare eventuali colpi di mano della destra militarista e nuovi tentativi di Golpe. Un ulteriore passo in avanti fu fatto il 30 ottobre 1966, con la riunificazione tra il PSI e il PSDI nel Partito Socialista Unificato, che vedeva la riconciliazione tra le due anime che si erano separate nel 1947 con la scissione di palazzo Barberini. Quello che si era perso a sinistra con l’uscita degli esponenti del PSIUP si era in questo modo acquistato al Centro, con i socialdemocratici, che mantennero comunque la propria autonomia, anche sul simbolo presentato alle elezioni, che vedeva entrambi gli emblemi socialisti esposti sul manifesto comune. Le elezioni non andarono però come si sperava, e il Partito Socialista Unificato ottenne un risultato inferiore a quello che avevano ottenuto i due partiti socialisti presentati da soli. Appena 91 deputati e 46 senatori, per un esperimento elettorale che si dimostrò fallimentare. Al contrario il PSIUP ottenne un discreto risultato, ben 23 seggi, a dimostrazione di come la base elettorale preferisse un partito socialista di sinistra, e non di centrosinistra. Purtroppo i compromessi che si dovettero raggiungere con il Vaticano e con gli industriali che appoggiavano la Democrazia Cristiana, snaturò un po’ il PSI, ma in politica questo è inevitabile, in quanto le alleanze si basano sul compromesso, e per fare delle riforme civili e sociali si doveva concedere qualcosa agli alleati, anche se questo poteva far storcere il naso ai più intransigenti. I due partiti, PSI e PSDI si sciolsero l’anno dopo, per rimanere fermi sulle posizioni assunte nel 1947. Certo ora c’era un Centro-Sinistra, ed era finita, almeno per il PSI, l’alleanza con i comunisti per lottare assieme ai partiti di centro, ma ormai i nenniani e i saragattiani avevano una propria autonomia e così sarà per tutta la Prima Repubblica. Oggigiorno non esiste più questa differenza e si lavora per una casa comune di tutti i socialisti, in modo da guardare agli esempi vivi di Paesi socialdemocratici, come la Svezia e la Danimarca, che sono all’avanguardia nel welfare e possono insegnare tanto all’Italia, portando un modello socialista e democratico europeo, a cui si avvicina anche la Germania, e che rappresenta la via di mezzo al socialismo reale, ancora in vigore in Cina, Corea del Nord, Vietnam e Cuba (nonché in altri Paesi asiatici e latino-americani), e il liberalismo estremo statunitense, che ha preso tanto piede in Italia e che sta oggi cancellando ciò che di buono si era fatto nei governi di centrosinistra. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

IL PSIUP DEL DOPO GUERRA: DAL MAGGIOR PARTITO DELLA SINISTRA ALLA SUDDITANZA VERSO IL PCI

di Christian Vannozzi | A guerra finita non c’era soltanto un’Italia da ricostruire fisicamente, ma anche e soprattutto mentalmente, perché come ben si sa se la mente non è attiva il braccio non funziona. Monarchia o Repubblica, era questo il dilemma dell’epoca, per un referendum che farà la storia del nostro paese, non soltanto per la scelta di Stato, il passaggio cioè dal Re a un Presidente democraticamente eletto, ma anche, e soprattutto, per il voto alle donne. In un Paese arretrato dal punto di vista civile come l’Italia rurale, dove forse, anche per colpa di alcune frange estremiste della Chiesa e sicuramente dell’eredità fascista, che vedeva la donna come moglie e custode dei figli e della casa, più che come persona, il poter esprimere la propria idea, con il voto politico, fu senza dubbio una rivoluzione, che portò avanti l’Italia di parecchi anni, colmando il distacco che c’era con gli altri Paesi democratici d’Europa. La sconfitta della Monarchia significò anche la sconfitta del fascismo, cosa che oggigiorno noi tutti che non facciamo parte di quella generazione dovremmo ricordare, in quanto la maggioranza degli italiani, donne incluse, vollero dare un taglio netto verso un passato in cui non si riconoscevano più, macchiato da un regime monarchico autoritario che nell’800 contrastò la classe operaia anche con il cannone. La data che forse rimarrà sempre come macchia indelebile sulla Casata dei Savoia, prima dell’idillio con il regime fascista, fu il famigerato 8 maggio del 1898, quando il Re diede ordine di sparare sui manifestanti che protestavano per l’aumento del costo del pane. Già da quel tempo si doveva ben capire che tra il Re e il suo popolo qualcosa si era rotto e che forse la dinastia piemontese più che vedere lo Stato al servizio dei cittadini vedeva i sudditi come servitori dello Stato e della corona. Alle elezioni per l’Assemblea Costituente il Partito Socialista, che si chiamava PSIUP, Partito socialista di Unità Proletaria, fu il secondo partito italiano, dietro solo alla Democrazia Cristiana, formazione politica che poteva contare sul voto dei moderati terrorizzati letteralmente dal comunismo e dall’Unione Sovietica. Nella sinistra il PSIUP era emerso come il maggior partito operaio, portando ben 115 rappresentanti nell’assemblea che scriverà la Costituzione Italiana del 1848. Purtroppo quei voti erano però solo espressione di progressisti anticlericali non comunisti, bacino di voti sicuramente buono, ma difficile da gestire e da fidelizzare, in quanto i progressisti sono da sempre in continuo divenire e se pur non hanno simpatie per i partiti che si ispiravano all’epoca al totalitarismo staliniano, sono ben volubili e pronti a cambiare formazione politica quando la situazione è più consona (l’esperienza politica, ormai quasi giunta alla fine, sia di Forza Italia che del Movimento 5 Stelle ne saranno l’esempio ai nostri giorni). La divisione del mondo, e dell’Europa in particola modo, nei due blocchi, comunista e capitalista ha fatto in modo che sempre più cittadino iniziarono a preoccuparsi del PCI e dei suoi forti legami con l’Unione Sovietica, e pian piano, nonostante le battaglie costituzionali per garantire le libertà civili e religiose che hanno condotto i costituenti socialisti, i cittadini iniziarono a voltarsi verso la Democrazia Cristiana, partito che divenne la casa dei moderati, degli impiegati, degli industriali e anche degli operai cristiani, che trovarono nel partito di Alcide De Gasperi la soluzione migliore per le proprie esigenze. Anche all’interno del PSIUP gli accordi che si stavano tessendo con il PCI iniziavano a essere troppo stretti per le parti più democratiche del partito, che non volevano avvicinarsi troppo alle posizioni estremiste dettata direttamente da Mosca dal leader Sovietico Stalin, che aveva imposto la democrazia popolare, altro nome per indicare la dittatura comunista, a tutti i Paesi ‘liberati’ dai sovietici. A farne le spese furono la Polonia, la Bulgaria, la Romania, l’Ungheria, la Cecoslovacchia, le Repubbliche Baltiche e la Jugoslavia, anche se quest’utima con il Gran Maresciallo Tito, si staccherà subito dai diktat russi per sviluppare un proprio comunismo, rigido come quello staliniano, ma svincolato dalla politica sovietica. In tutto questo calderone gli Stati Uniti rimasero a guardare, volgendo però le proprie attenzione verso la Democrazia Cristiana, che rappresentava sicuramente l’interlocutore privilegiato, come lo fu la Chiesa Cattolica, che aveva, come gli USA, un nemico comune nel comunismo ateo. Per il socialismo italiano era il momento di prendere una decisione, in nome dei numerosi partigiani e martiri che aveva avuto nella lotta antifascista. Nel 1924 aveva infatti perso la vita per la causa Giacomo Matteotti, nel 1937 Nello e Carlo Rosselli, nel 1944 Bruno Buozzi, per non parlare dei leader antifascisti che venivano tra le file del PSIUP, esponenti di primo piano, come Sandro Pertini, tutti combattenti per la libertà e contro ogni forma di dittatura in nome di una democrazia parlamentare che potesse essere espressione di tutti, minoranze incluse. Per ragioni politiche che vedevano una matrice comune marxista tra i due maggiori partiti politici della sinistra, l’allora leader, Pietro Nenni, stabilì di continuare a lottare assieme al PCI in nome dell’unità della sinistra e del marxismo, decisione che alla lunga non ripagherà il partito che venne sorpassato dall’alleato e non riuscirà più a riprenderlo. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

BRUNO BUOZZI AMATO DAGLI OPERAI, TRUCIDATO DAI NAZISTI

di Ilaria Romeo – Collettiva.it | Metalmeccanico, socialista, segretario generale della Cgdl, Buozzi finisce prima in carcere a via Tasso, a Roma, poi brutalmente assassinato assieme ad altre tredici persone. È uno degli ultimi scempi che le SS compiono ritirandosi dalla capitale nel giugno del 1944 Il 13 aprile 1944 Bruno Buozzi viene fermato per accertamenti dalla polizia fascista e condotto in via Tasso. Il Comitato di liberazione nazionale di Roma tenta a più riprese, ma senza successo, di organizzarne l’evasione e il 1° giugno, quando gli americani sono ormai alle porte della capitale, il nome del sindacalista (già segretario generale della Fiom e della Cgdl) ed ex deputato socialista viene incluso dalla polizia tedesca in un elenco di 160 prigionieri destinati a essere evacuati da Roma. La sera del 3 giugno, con altre tredici persone, Buozzi è caricato su un camion tedesco. Il giorno seguente – sembra per ordine del capitano delle SS Erich Priebke – viene trucidato con tutti i suoi compagni. Così, a un anno esatto dall’accaduto Giuseppe Di Vittorio ricorda sul Lavoro il compagno e amico: “Nessun lavoratore italiano che abbia conosciuto Bruno Buozzi potrebbe ricordare il suo martirio senza sentirne un profondo dolore. Bruno Buozzi è stato uno dei dirigenti sindacali fra i più amati dal proletariato, perché Egli fu il tipo più completo dell’organizzatore che abbia prodotto il movimento operaio italiano”. Operaio, Buozzi “ha amato gli operai e ne ha servito la causa con passione ardente, temperata da un senso elevato e impareggiabile di equilibrio. Bruno Buozzi non è mai stato un professionista dell’organizzazione. Egli è stato l’operaio che lotta per l’elevazione dei propri compagni di lavoro, per l’emancipazione della propria classe, e che nel corso di questa lotta è sempre più apprezzato dalla massa in cui lavora ed è da essa direttamente eletto a proprio capo ed elevato fino alla più alta carica della grande organizzazione dei lavoratori italiani, alla quale la sua forte personalità impresse un più alto prestigio (…) fu anche il tipo più compiuto e più vero dell’autodidatta. Pur continuando a lavorare nel suo mestiere di operaio metallurgico, altamente specializzato, s’era formata una vasta cultura, ch’Egli mise, come tutto se stesso, al servizio del proletariato, alla cui causa consacrò e donò la sua vita. Si poteva consentire o dissentire su alcune vedute particolari di Bruno Buozzi – come è capitato al sottoscritto -, ma ci si sentiva sempre legati a Lui da un profondo rispetto e da un grande affetto”. Bruno Buozzi nasce a Pontelagoscuro, provincia di Ferrara, il 31 gennaio 1881. Aderisce nel 1905 al sindacato degli operai metallurgici e al Partito socialista italiano, militando nella frazione riformista di Turati. Proprio in casa sua, nel 1932 Turati si spegnerà. Così Buozzi lo ricorderà così sulle pagine de L’operaio italiano: “Filippo Turati più che un capo politico deve essere considerato un altissimo maestro di vita e di morale. Grande cuore, non sapeva odiare. Contro lo stesso fascismo più che odio nutriva ripugnanza e disprezzo. Amava i giovani e in esilio era costantemente preoccupato che il movimento antifascista non ne avesse abbastanza”. Nel 1920 è tra i promotori del movimento per l’occupazione delle fabbriche. Più volte eletto deputato socialista prima della presa del potere da parte del fascismo, nel 1926 espatria in Francia (è fra i pochissimi sindacalisti che Mussolini corteggia, ma rifiuterà con convinzione ogni coinvolgimento con il nuovo regime). Qui apprende la notizia della decisione da parte del vecchio gruppo dirigente della CGdL di proclamare l’autoscioglimento dell’organizzazione. Contro tale decisione ne decreta la ricostituzione a Parigi. “La notizia dell’assassinio di Bruno Buozzi – scriveva l’Avanti (riapparso per la prima volta pubblicamente nella Roma liberata) il 7 giugno 1944 – si è abbattuta su di noi come una folgore. Nato dal popolo, operaio nei primi anni della giovinezza, si distinse subito per le doti eccezionali di intelligenza, di facilità di assimilazione, di comprensione dei problemi che interessavano specialmente gli operai dell’industria. Era uomo di vasta preparazione economica e sociale conquistata con volontà e per desiderio irrefrenabile di sapere. Abbiamo trepidato per lui, abbiamo sperato sempre; abbiamo tentato ogni strada, studiato ogni mezzo per strapparlo ai suoi aguzzini. Proprio quando la speranza ci sorrideva più viva, i carnefici nella fuga disperata l’hanno portato via, caricato sopra un autocarro con le mani legate dietro la schiena come un delinquente qualsiasi. Poi la vendetta, la brutale barbara vendetta; un colpo di rivoltella per uccidere con lui le speranze e l’attesa della classe lavoratrice italiana”. “Negli ambienti operai – affermava una nota per il Ministero dell’interno del 10 giugno 1944 – ha sollevato enorme impressione la notizia secondo la quale l’organizzatore socialista Buozzi sarebbe stato trovato cadavere non lontano da Roma. Taluni hanno avanzato l’ipotesi che l’avvenimento possa provocare reazioni nell’ambiente quali scioperi o manifestazioni del genere”.  “Bruno Buozzi – recitava un manifesto apparso sui muri della capitale finalmente libera a firma del Psiup – il nostro compagno di fede e di lotta, il socialista rimasto fedele durante tutta la sua vita all’ideale di elevazione della classe lavoratrice, è stato vilmente assassinato in Roma dai fascisti e dai nazisti. Proprio nella ricorrenza del XX anniversario dell’assassinio di Giacomo Matteotti, che fece fremere di sdegno il mondo civile, un altro dei migliori è andato ad accrescere l’albo del martirologio socialista italiano… Il nostro Bruno Buozzi, l’uomo caro ai lavoratori italiani che soprattutto a lui devono le migliori conquiste rivendicatrici, ha dovuto soccombere alla furia sanguinaria degli oppressori. La sua fermezza di carattere, la sua dirittura morale, la sua capacità organizzativa ed i suoi modi di buona convivenza con tutti, amici ed avversari, gli avevano attratto indiscutibilmente la generale stima e fiducia; ma l’atrocità del suo assassinio lo fa assurgere ben più in alto a bandiera di combattimento dei lavoratori italiani e di quanti lottano per il ripristino delle libertà democratiche… La gravità del momento, non permette di onorare degnamente questo nostro martire. Egli ne siamo certi, se fosse ancora con noi, pretenderebbe che, in quest’ora nella quale si decidono le sorti del mondo e della liberazione …

130° ANNIVERSARIO DELLA CONFERENZA DI ANNA KULISCIOFF SU “IL MONOPOLIO DELL’UOMO”

di Walter Galbusera – Fondazione Kuliscioff | Care Amiche e Cari Amici, Giuliana Nuvoli, docente di  Letteratura italiana alla Facoltà di Lettere e Filosofia all’Università Statale di Milano, che fa parte del Comitato Scientifico della Fondazione Anna Kuliscioff, ci regala questa riflessione in occasione dei 130 anni dalla conferenza tenuta al Circolo filologico  di Milano dalla “ dottoressa  Anna Kuliscioff” sulla questione femminile del tempo. Giuliana fa una efficace e brillante rivisitazione  della relazione tenuta il 27 aprile 1890 , che fu una vera e propria ” lectio magistralis”, in una sala gremita del Circolo filologico nel quale allora  non era consentita l’iscrizione alle donne. Del resto già il titolo inequivocabile della conferenza, “Il monopolio dell’uomo” lascia spazio  a  pochi dubbi. Assai più convincente nel testo di Anna, che va al là della  rivendicazione dei pur essenziali diritti civili,  è il rigore delle argomentazioni, la chiarezza del linguaggio, il disegno di trasformazione sociale che  emerge dal discorso d’insieme  che è accompagnato da una passione forte ma tranquilla. E pensare che Antonio Labriola aveva coniato un paradossale giudizio (che voleva essere lusinghiero ma che probabilmente non fu gradito dall’interessata) secondo cui Anna Kuliscioff era il solo vero uomo del socialismo italiano !  Quei tempi sono lontani anche se, per usare le parole della Kuliscioff,  non è scomparsa  “la tenacia meravigliosa con cui tutti gli uomini, salvo poche eccezioni, difendono il loro privilegio chiamando in aiuto Dio, chiesa, scienza, etica e leggi vigenti”. Oggi è giusto valorizzare i risultati raggiunti. Se passiamo in rassegna le categorie del lavoro femminile  contenute nel “Monopolio dell’uomo”non compare la donna magistrato, che ai nostri tempi è una componente assai  rilevante dell’intero ordine giudiziario. E una  donna è stata eletta Presidente della stesso Corte Costituzionale. Ciò non toglie che la presenza femminile nel nostro paese  sia ancora assente o inadeguata in molte realtà e soprattutto, che siamo ancora lontani da una effettiva parità dei sessi in materia di occupazione, retribuzione e pensione.Nel ringraziare Giuliana Nuvoli per il suo  interessante contributo possiamo credere ragionevolmente  che  il presagio di Victor Hugo possa realizzarsi per le future  generazioni. Alleghiamo lo scritto di Giuliana Nuvoli con il testo della relazione di Anna Kuliscioff su “Il monopolio dell’uomo” e, dalla nostra biblioteca, la  copertina autografata della prima edizione.  Coi più cordiali saluti SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

25 APRILE LA RESISTENZA PUGLIESE

Foto ©ANSA | La Puglia, subito dopo la Sicilia, fu la regione del Sud con il maggior numero di partigiani caduti in combattimento, fucilati e deportati. Gli aderenti alla lotta di liberazione, originari della Provincia di Bari furono 505 (il numero più alto tra le provincie meridionali), subito dopo ritroviamo Foggia con 338, Brindisi con 146, Lecce con 134 ed infine Taranto con 111. Tra i resistenti della Terra di Bari si contarono circa venti donne – operaie, impiegate, casalinghe – provenienti da famiglie emigrate tra le due guerre mondiali da Barletta, Santeramo in Colle, Conversano, Canosa, Molfetta e soprattutto da Corato. Tra quest’ultime tre sorelle: Arcangela De Palma (nome di battaglia Emily), Antonietta (Nucci) e Luisa (Primula), la prima insegnate e le altre impiegate, tutte residenti a Torino, che collaborarono con la «3 divisione Alpi Servizio X». Fu da questa scelta che nacque la Resistenza italiana e la Puglia seppe esserne grande protagonista. A Taranto, Bari e in diverse altre località della regione, come Ceglie Messapica, Putignano, Bitetto, Castellaneta, Noci, Barletta e diversi paesi della Capitanata, alcuni reparti militari e molti civili si ribellarono ai tedeschi. Le truppe del Reich stanziate nella nostra regione avevano predisposto un piano di attacco ai porti, alle strutture delle radio-comunicazioni, ai depositi militari, alle più importanti vie di comunicazione, perfino all’Acquedotto pugliese, ma si trovarono di fronte una inaspettata e spontanea resistenza.  PARTIGIANI ED EMIGRANTI QUANTI PUGLIESI UCCISI di Vito Antonio Leuzzi – Gazzetta del Mezzogiorno | Riemergono le storie dei coraggiosi 1266 che lottarono in Piemonte contro fascismo. Anche donne: le «primule» Puglia è da scoprire, voglio dire che vi sono cose da noi che meriterebbero maggiore attenzione da parte del resto d’Italia». Era il 1965. Con queste parole Tommaso Fiore, in una conferenza a Torino. in occasione delle celebrazioni nazionali della Resistenza e della fine della guerra, su invito della «Unione meridionale degli immigrati» e del «Centro Gobetti», ricordava ad un folto pubblico di immigrati l’emancipazione culturale e sociale della Puglia al al contempo un aspetto meno conosciuto, «l’apporto del Sud alla lotta antifascista ed alla Resistenza». In questi giorni l’«Istoreto» (Istituto storico della resistenza in Piemonte) e il Comitato della Regione Piemonte per l’affermazione dei valori della Resistenza e della Costituzione, presentano i risultati di una ricerca sul contributo del Sud alla resistenza in Piemonte. Migliaia di pugliesi si distinsero nella lotta di liberazione, in particolare militari di tutte le armi che. dopo l’armistizio del settembre del 1943, opposero un netto rifiuto al nazifascista, schierandosi con il movimento partigiano. Quest’ultimo s i caratterizzò anche per una nutrita presenza di giovani esponenti di famiglie emigrate dalla Puglia a Torino negli anni Venti. Gli storici dell’«Istoreto» hanno censito 1266 pugliesi. su oltre 6000, provenienti da tutto il Mezzogiorno e direttamente coinvolti nell’attività resistenziale, tra il settembre del 1943 e il maggio del 1945. La Puglia, subito dopo la Sicilia, fu la regione del Sud con il maggior numero di partigiani caduti in combattimento, fucilati e deportati. Gli aderenti alla lotta di liberazione, originari della Provincia di Bari furono 505 (il numero più alto tra le provincie meridionali), subito dopo ritroviamo Foggia con 338, Brindisi con 146, Lecce con 134 ed infine Taranto con 111. Tra i resistenti della Terra di Bari si contarono circa venti donne – operaie, impiegate, casalinghe provenienti da famiglie emigranti tra le due guerre mondiali da Barletta. Santeramo in Colle, Conversano, Canosa, Molfetta. Tra queste ultime tre sorelle: Arcangela De Palma (nome di battaglia Emily), Antonietta (Nucci) e Luisa (Primula), la prima insegnate e le altre impiegate, tutte residenti a Torino. che collaborarono con la «3 divisione Alpi Servizio X». Un gruppo consistente di immigrati ebbe un ruolo rilevante nelle iniziative più rischiose, tra cui, Dante di Nanni, eroe nazionale e medaglia d’oro al valore militare (nato a Torino nel 1925 subito dopo il trasferimento della sua famiglia da Andria), che dopo una serie di azioni coraggiose nel cuore della capitale piemontese fu sopraffatto ed ucciso il 18 maggio del 1944 nell’alloggio di via S. Berardino (Borgo San paolo): i fratelli Vincenzo ed Antonio Biscotti originari di Peschici, il primo medaglia d’argento al valore militare (nome di battaglia «Mitra 1»). Immigrati nel Biellese che al comando di una brigata «Matteotti» dopo un rastrellamento messo in atto da tedeschi e fascisti furono uccisi in combattimento nel febbraio 1945 presso Pollone (Biella). Molti altri pugliesi, soprattutto militari caddero in combattimento o furono deportati per rappresaglia in Germania, tra cui Giovanni Barbarossa originario di Canosa di Puglia deceduto in campo di concentramento nel marzo del 1944. Tra i giovani immigrati assunti alla Fiat negli anni della guerra e molto attivi negli scioperi del 1943, ritroviamo Vito Damico (Douglas), nato a Barletta il 28 ottobre 1925, ed inquadrato nelle file della Brigata SAP «Eugenio Curiel». Questo coraggioso (combattente, nel dopoguerra fu responsabile sindacale di fabbrica e deputato in parlamento nelle file del Pci. Nomi, storie, lotte finite nel sangue. In base ai risultati di questa corposa indagine iniziata vent’anni fa, la valutazione complessiva delle vicende della lotta resistenziale assume un nuovo volto sul piano storiografico e politico-civile, rappresentando un notevole contributo al consolidamento dell’identità nazionale. Tra le tante vicende della Resistenza in Piemonte balza all’attenzione il Diario di Michele D’Aniello, nato a Terlizzi 11 gennaio 1924 che all’età di 19 anni fu assegnato come soldato di leva all’ 84 Reggimento dislocato ad Ivrea nell’Alto canavese. Michele, dopo l’armistizio, con l’aiuto di un terlizzese in servizio nella Guardia di finanza trovò rifugio da alcuni parenti emigrati a Torino ed in seguito assunse la decisione di partecipare alla lotta di liberazione nella 47 Brigata d’assalto «Garibaldi». D’Aniello, descrive con precisione l’attacco nazi-fascista condotto con mezzi pesanti in località «Voira» ed al comune di Pont Canavese, «Il primo carro armato che si avvicinò al paese, a distanza di circa 500 metri in linea diretta, lanciò una sola cannonata che colpì la facciata di una abitazione, come esempio di saluto alla cittadinanza e poi con l’entrata dei nazifascisti s’iniziò l’incendio di una scuola, mentre la …

LUIS SEPULVEDA

di Sergio Negri – Gruppo di Volpedo | Ho conosciuto Luis Sepulveda grazie a un’intervista che mi fu commissionata dalla Cgil nazionale in occasione del suo centenario. Era il 2006 e lo scrittore era giunto ad Arona, bella cittadina sul lago Maggiore, a presentare il suo libro “Il Potere dei Sogni”. Fu una chiacchierata molto gradevole, allo stesso modo come fu ascoltare le sue parole, le argomentazioni, i pensieri espressi durante la presentazione del suo libro. Iniziò raccontandomi qualcosa di sé. Mi rivelò di essere stato, con altri suoi coetanei, un giovanissimo consigliere di Salvador Allende, il Presidente del Cile assassinato l’undici settembre del 1973 dalle forze militari del generale Pinochet con la complicità della Cia. Affermò che il Presidente cileno, ogni sera, aveva l’abitudine di chiamare a rapporto i suoi consiglieri e di invitarli a esporre le loro osservazioni sul suo operato, ma che esigeva che si parlasse solo dei suoi eventuali errori e di non destinargli alcun complimento. “Se ho fatto qualcosa di buono – era il suo ammonimento – significa che ho fatto solo il mio dovere. Voi dovete invece evidenziare i miei errori, affinché io possa correggerli e non commetterne altri”. Sepulveda era poi fuggito dal Cile dopo il golpe e la barbara esecuzione del Presidente Allende. Il nostro colloquio era poi proseguito sul tema del lavoro. Alla mia domanda se riteneva che il valore del lavoro dovesse ancora occupare uno spazio importante nell’arte, nella letteratura, nel cinema come era stato rappresentato e descritto in molte opere di Pelizza da Volpedo, di Guttuso, di Gazzone; da scrittori come Verga, Volponi, Calvino e da registi come Olmi, Petri, Rossellini, Bertolucci, la risposta era stata puntuale: “Il lavoro è un’attività sublime nel tempo di vita dell’essere umano – aveva affermato – E’ qualcosa di fondamentale che ti permette di vivere, che ti dà il pane. Di lavoro bisogna sempre parlare e continuare a considerarlo come un valore assoluto. Tutta l’arte deve continuare ad occuparsi di questo bene assoluto”. In quell’anno la Cgil, compiva cento anni e la nostra conversazione si era occupata di questa importante ricorrenza. “Nel corso di questi 100 anni – era stata la mia prolusione – non è mai mancato l’impegno dei dirigenti della Cgil per l’emancipazione e il progresso, per la tutela e i diritti delle persone più esposte, quelle lasciate spesso ai margini della società. Cento anni di battaglie tenaci per costruire un mondo di civiltà. “Ci domandiamo spesso come sia stato possibile arrivare fino ad oggi ancora con questa freschezza, con questa voglia di esserci, di essere attori protagonisti della storia recente di questo nostro paese, così come in quella passata. “E la risposta porta a credere che ci sia un filo rosso che congiunge quanto è avvenuto nel corso di questo secolo – avevo proseguito – Un collante formidabile che tiene insieme passato e presente e già si annoda al futuro. “E questo straordinario legame non può che essere l’umanesimo. “Secondo la tua opinione – avevo concluso – l’umanesimo è ancora un valore da riaffermare nella moderna società tecnologica?” “Più che altro l’Umanesimo non deve mai essere dimenticato – aveva risposto – L’Umanesimo è una parte fondamentale della visione del mondo. Una visione umanistica è una visione generosa che guarda in prospettiva, che pensa al futuro, soprattutto guarda ai giovani, al loro destino. “L’Umanesimo deve essere un ingrediente essenziale in tutto quello che facciamo, il motore che muove la nostra esistenza. “Non esiste futuro senza Umanesimo, ma solo barbarie e inciviltà. “Voglio inviare un sentito ringraziamento e un caro saluto a tutti i compagni della Cgil – aveva concluso – che da sempre sono impegnati a lottare per migliorare le condizioni di vita e di lavoro della parte più debole della collettività”. Un incontro fuggevole, ma intenso, di quelli che si conservano accuratamente nella memoria. Poi, come accade anche nei giorni di sole, una nube minacciosa e aggressiva arriva a violare il cielo terso e luminoso. E calano il buio e il silenzio. E un nemico invisibile ci ha privati di una presenza importante. Quando, in casi come questo, si vuole tracciare il profilo di una persona straordinaria e importante come per lo scrittore Luis Sepulveda, il rischio di cadere in una falsa e vuota retorica può essere presente in ogni frase, in ogni paragrafo della nostra narrazione. E le parole appaiono sempre inappropriate, non corrispondenti al valore di chi si vorrebbe descrivere e lontane dall’emozione che si prova a incontrare uno scrittore e un compagno come Luis Sepulveda. Conservo ancora questo ricordo e lo ripongo tra le cose più preziose della mia personale collezione di rapporti umani. Addio compagno Luis, ma forse è solo un arrivederci. Pubblicato anche su cittafutura.al.it SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

QUANDO LA NAZIONE DEGLI OPPRESSI DISSE: «FACCIAMO UN PARTITO!»

La Romagna fine Ottocento di Andrea Costa, l’abbandono della politica insurrezionale e il lavoro organizzato tra le masse. Sono i passaggi storici affrontati nel secondo volume Einaudi della Storia del socialismo italiano, che ha per sottotitolo «Dalle prime lotte nella valle Padana ai Fasci siciliani». Ne abbiamo parlato con Renato Zangheri, che da qualche anno sta portando avanti un’opera avvincente ed imponente. di Guido Liguori | Dall’epoca dei pionieri, degli individui isolati, a quella dei primi gruppi e movimenti di massa. Consiste in questo il passaggio dal primo al secondo volume della Storia del socialismo italiano, opera imponente e avvincente che Renato Zangheri sta scrivendo da qualche anno. Il nuovo tomo, in libreria proprio oggi, ha come sottotitolo Dalle prime lotte nella Valle Padana ai Fasci siciliani (Einaudi, pp. 620, lire 90.000). È lo sviluppo del movimento socialista, dunque, negli ultimi due decenni dell’Ottocento: anni contrassegnati dalle prime lotte organizzate, dalla nascita delle Camere del lavoro e dei sindacati di categoria, dagli scioperi che prendono il posto delle rivolte spontanee, dallo sviluppo della stampa socialista, dal farsi partito del movimento stesso. Un ciclo di eventi dimenticato. Che abbiamo ricapitolato con l’autore del volume. Zangheri dove cresce il movimento socialista italiano, e come mette radici? Avviene in Romagna, con la nuova politica di Andrea Costa e dei suoi amici, che abbandonano la politica insurrezionale e iniziano a lavorare tra le masse. Nei primi anni ottanta dell’Ottocento è attivo in molte città il Partito socialista rivoluzionario romagnolo, esce il primo Avanti! spesso sequestrato dalle autorità. I maestri e altri intellettuali iniziano una propaganda tra le popolazioni rurali. Sorgono presto altri gruppi: a Mantova, dove agiscono, fra i muratori e fra i lavoratori della terra, uomini che vengono dal garibaldinismo, dalla molteplicità di esperienze ostacola dapprima la creazione di un partito nazionale, ma è un grande fattore di radicamento tra le masse. Siamo ai primi anni dell’unità nazionale. Come vi si rapporta il movimento socialista? Contribuisce a creare un senso comune nazionale o consolida la più che comprensibile sfiducia delle masse proletarie verso lo Stato unitario? La sfiducia prevale. La critica viene del resto anche da esponenti delle classi dirigenti, da Jacini a Sonnino. La loro preoccupazione è che le plebi rurali, influenzate da un clero antiunitario, si pongano definitivamente fuori dallo Stato: e sono la grande maggioranza degli abitanti del Regno, analfabeti, decimati dalla pellagra e dalla malaria, privi – diremmo oggi – di diritti di cittadinanza. Alla polemica democratica, mazziniana, contro lo Stato monarchico, si affianca la polemica dei socialisti, creando un clima di sfiducia, di delegittimazione delle istituzioni nazionali. Ma c’è anche un rovescio della medaglia: il movimento socialista porta un ordine dove c’erano tumulti, incoraggia e promuove l’alfabetizzazione, suscita una speranza, rende consapevole i braccianti mantovani, gli operai di Torino, i contadini siciliani di una sorte comune, li fa partecipare alla vita pubblica, nelle lotte elettorali e politiche. Anche le feste, soprattutto il 1° maggio, che si incomincia a celebrare nel 1890, costituiscono un appuntamento, l’occasione di una nuova socialità. I giornali socialisti sono poco letti, specie nelle campagne. Ma i cantastorie girano nelle fiere, raccontano le novità. Giovani intellettuali abbandonano gli studi per andare a propagandare il socialismo. Perché non avviene in Italia quel processo di «nazionalizzazione delle masse» che avviene, ad esempio, in Francia? In Francia c’è una borghesia democratica, repubblicana, che in Italia è debole, dispersa. In Italia spetta ai socialisti condurre nella comunità nazionale le masse diseredate, e vi riescono, in una certa misura, sebbene contrastati e perseguitati. Crispi prima si definisce un «borghese rivoluzionario», poi finisce per reprimere duramente i lavoratori e scioglierne il partito. Non punta a «nazionalizzare» le masse, ma contribuisce a mantenerle fuori e contro lo Stato. Solo alla fine del secolo, con Giolitti e Zanardelli, e grazie anche a un forte slancio industriale, si faranno avanti settori di borghesia più liberale. Cosa comporta il fatto che il movimento socialista abbia, nel nostro paese, un iniziale tratto agrario? Una maggiore capacità di espansione in ceti non operai. L’80% della popolazione italiana viveva nelle campagne. La conquista delle campagne è un grande evento nazionale. Anche sul piano ideologico ci sono conseguenze rilevanti di questo socialismo rurale: una ripresa in forme nuove di antichi miti, di una attesa quasi messianica. Il socialismo italiano si adegua necessariamente a questa visione, la qualcosa comporta anche una rinuncia alla laicizzazione delle mentalità. Se i contadini mettevano insieme (non solo nel Sud) Garibaldi, Marx e la Madonna, non era per scelte superficiali o solo per la debolezza teorica degli apostoli socialisti. Corrispondeva a risonanze culturali profonde. Qual è il ruolo specifico della classe operaia industriale in questo periodo? E quali sono le prime categorie a organizzarsi e a essere conquistate alla causa socialista? La classe operaia è poco concentrata, la manifattura tessile è ancora prevalente. Gli orari di lavoro raggiungono le 14-16 ore, i salari sono molto bassi, insufficienti spesso ad acquistare due chili di pane al giorno. L’organizzazione del lavoro muta in questi anni, ad esempio a Milano, ma limitatamente a una quota del 20-30% degli operai meccanici e metallurgici. Entra in crisi il mestiere, sorge la nuova professionalità degli specializzati, aumentano gli operai comuni. Gli scioperi si intensificano, specie in Lombardia, Piemonte, Emilia, nell’edilizia, nel tessile e nei trasporti. Più tardi si allargano al metalmeccanico e all’alimentare. Muratori e tipografi sono fra le categorie più organizzate. Molti tipografi aderiscono al Partito operaio italiano. Ma i voti che raccolgono i candidati socialisti nelle elezioni legislative sono ancora scarsi. I primi deputati (Costa, Badaloni, Prampolini) vengono da zone rurali. 1892: nasce a Genova il partito socialista. Che rappresentatività territoriale possiede? Alle regioni dell’Italia settentrionale e all’Emilia si aggiungono la Toscana e la Sicilia. Garibaldi Bosco, leader dei Fasci siciliani, è chiamato alla presidenza del Congresso di Genova. E’ in questo momento che il movimento socialista oltrepassa veramente l’ambito regionale. E rompe con anarchici da un lato e repubblicani e radicali dall’altro, affermando così nettamente una nuova identità. L’alleanza con i partiti «affini» venne poi recuperata pochi …

PROCESSATI PERCHE’ AFFIGGEVANO I MANIFESTI DI PIETRO NENNI

di Tullio Piacentini | Per molti giovani di oggi, includendo in questa categoria anche tanti 40enni/50enni, è difficile comprendere quanto sia stato difficile per le generazioni precedenti ottenere quel senso di libertà che conosciamo ora in Italia. Nel mio tour romano di incontri mi sto piacevolmente confrontando con molte persone che negli anni passati hanno dedicato la loro vita alla politica degli ideali e non solo dell’amministrazione della res pubblica, nella speranza di rimuovere in loro quel senso di guida della società per la quale hanno combattuto e che poi, visti gli andazzi di corruzione dilagante, hanno abbandonato… abbandonando, in qualche caso, anche il suolo dell’amata Patria per la quale (chi è riuscito a sopravvivere alla seconda guerra mondiale) hanno rischiato la loro vita. Grazie all’invito fattomi da uno squisitissimo signore di Subiaco (Roma), ho così avuto il piacere di incontrare un socialista ex Presidente della Giunta della Regione Lazio, che mi ha fornito un’ampia e concreta radiografia del panorama politico locale attuale mettendo in evidenza il paradosso tra chi un tempo lottava per gli ideali e chi ora, invece, fa politica manageriale. Sapevo che mi avrebbe raccontato qualcosa su mio padre Tullio, sapevo e so tuttora che ho su di me e sulla mia educazione una figura paterna molto forte e molto viva anche nel ricordo di chi lo ha conosciuto. Nonostante mi capiti spesso di sentire lusinghe ed apprezzamenti su quest’uomo, mio padre, mai però avrei immaginato di sentire il racconto di un processo giudiziario penale per l’affissione di manifesti con la raffigurazione di Pietro Nenni. Tuo padre era troppo avanti per queste zone (Subiaco e dintorni), è stato troppo innovativo – mi ha raccontato questo compagno – però qui (terra di destra e del Generale Graziani) ha portato il Partito Socialista! Era un uomo di azione. In quel periodo (1965-1968) fare politica e non essere della Democrazia Cristiana significava essere sovversivi, soprattutto se eri socialista o comunista. Lui voleva far capire alla gente di qui cosa era il PSI e chi era Nenni. Una notte, all’incrocio di Marano (con Via Tiburtina nel tratto tra Tivoli e Subiaco), ci venne a beccare il Maresciallo dei Carabinieri Marras che era stato mandato da qualcuno che ci teneva sott’occhio e ci portò in caserma segnalandoci come “socialisti sovversivi”. Sovversivi socialisti! Facemmo il processo alla Pretura di Subiaco. Io non so se in Italia ci siano stati mai processi penali per l’affissione di manifesti politici durante le elezioni, però se non siamo stati gli unici siamo stati sicuramente uno dei casi rarissimi soprattutto perché dovemmo difenderci dall’accusa di “sovversivi”. Del processo se ne occupò tuo padre – ha continuato a raccontarmi ed emozionato per la birichinata fatta in gioventù – e anziché nominare un avvocato del Partito chiamò l’avvocato De Lupis, un socialdemocratico. Non ho mai capito perché questa scelta. In queste cose tuo padre ci sapeva fare. Venimmo prosciolti – con un’espressione di compiacimento sul volto di Carlo – perché l’avvocato dimostrò al Pretore che non era possibile attaccare dei manifesti senza avere la colla per affiggerli. Il Maresciallo se la legò al dito questa cosa. Comunque, poi e per molti anni, Subiaco è stata socialista. Di mio padre conosco tante cose che puntualmente segno in un memoriale che ancora sto scrivendo dal 2005, anno della sua morte, senza mai riuscire ad arrivare ad un punto finale perché ogni volta che incontro qualcuno che lo ha conosciuto scopro sempre cose nuove che mi rendono orgoglioso di aver avuto la fortuna di essere stato suo figlio. Ma mai avrei immaginato che la sua vita fosse piena anche di azioni semplici e comunque fondamentali per portare avanti le battaglie per la democrazia e per la libertà dell’uomo. Con questo spirito di riscoperta delle ideologie, e non solo per orgoglio familiare, sto affrontando una modesta campagna di comunicazione che abbia il fine di far rimuovere le persone ed i loro animi… intorpiditi dal “progresso”, dalle televisioni e dalla dominazione economico-sociale che sta annientando il senso di società civile, di democrazia e di libertà! SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

IL PADRE DEL SOCIALISMO ITALIANO

di Carlo Tognoli | Filippo Turati non amava la definizione “riformisti”, ma la riconosceva perché permetteva di contraddistinguere la sua corrente. Egli fondò nel 1892, a Genova (dove i congressisti si riunirono per usufruire degli sconti ferroviari concessi per le Celebrazioni Colombiane – 400° anniversario della scoperta dell’America) il Partito dei Lavoratori, divenuto poi Partito Socialista Italiano, insieme ad Andrea Costa e ad Anna Kuliscioff. Turati fu un grande ‘leader’ (diremmo oggi) del socialismo italiano ed europeo. Si identificò con il PSI quanto meno dalla fondazione (1892) sino al 1912 quando venne messo in minoranza. Tuttavia sino al 1926 fu la personalità eminente del socialismo e, dopo la sua fuga in Francia, fu tra i capi più ascoltati ed apprezzati dell’antifascismo. Aveva ereditato da Arcangelo Ghisleri la rivista culturale di orientamento positivista ‘Cuore e Critica’, che, con Anna Kuliscioff (la sua compagna della vita e della politica) egli denominò, nel 1891, ‘Critica Sociale’. La nuova pubblicazione, che aveva una cadenza quindicinale, fu la più importante del socialismo italiano. Ad essa collaborarono, tra gli altri, Benedetto Croce, Luigi Einaudi, Olindo Malagodi. Turati morì il 29 marzo 1932, settant’anni fa, a Parigi, in casa della famiglia di Bruno Buozzi, in Boulevard Raspail, dove era ospitato. Venne considerato un perdente, perché non riuscì ad impedire l’avvento di Mussolini e del regime fascista, di cui aveva lucidamente e profeticamente intuito le intenzioni totalitarie, al contrario di Gramsci e Togliatti (e della stessa Kuliscioff) che prevedevano una breve durata della ‘parentesi’ Mussolini.(1) Fu a lungo dimenticato Turati fu poco ricordato dopo la seconda guerra mondiale (eccezion fatta per Saragat, per il PSDI e per il gruppo della ‘Critica Sociale’ – la rivista creata con la Kuliscioff nel 1891 – i cui redattori, Ugo Guido Mondolfo e Giuseppe Faravelli, insieme ad altri, tra cui Antonio Greppi, erano stati suoi giovani discepoli). Il ‘riformismo’ infatti era bandito nei due maggiori partiti del movimento operaio, il PCI e il PSI, uniti tra loro dal patto di unità d’azione, sottoscritto prima della guerra e rimasto in essere sino al 1957. Se l’oblio non coincise con la ‘damnatio memoriae‘, poco ci mancò. Per la verità nell’ottobre 1948 la traslazione delle ceneri di Turati e di Treves, dal ‘Père Lachaise’ di Parigi al Cimitero Monumentale di Milano, avvenne in un mare di folla. Ma fu l’ultimo riconoscimento delle ‘masse’ ai grandi costruttori del socialismo italiano. Le feroci parole che Togliatti su ‘Lo Stato Operaio’ dell’aprile 1932 dedicò a Turati = ‘…una intiera vita politica spesa per servire i nemici di classe del proletariato – per servirli nel seno stesso del movimento operaio… la sua abilità di parlamentare incarognito… corrotto dal parlamentarismo… rifugiato all’estero (e Togliatti dov’era? n.d.r.) …rimasticava i luoghi comuni della mistica democratica… = lasciarono il segno nei decenni successivi nei confronti del riformismo. Il dirigente comunista Giorgio Amendola, figlio di Giovanni, protagonista con Turati della secessione ‘aventiniana’ (astensione dei deputati democratici antifascisti dai lavori della Camera dopo l’assassinio di Matteotti) parlando nel dicembre 1957 = (dopo la repressione sovietica della rivolta d’Ungheria il PSI aveva preso le distanze dall’URSS e dal PCI) = all’assemblea delle fabbriche di Milano, esprimeva la sua preoccupazione perché, “…abbiamo assistito, e non possiamo negarlo, al rapido crescere in alcuni settori del movimento operaio di una influenza riformista nei suoi vari aspetti, del riformismo socialdemocratico, del riformismo cattolico e anche del semplice qualunquismo…forme in cui si esprime la rinuncia rivoluzionaria…” (riformismo = qualunquismo – sic!). Craxi rilanciò il riformismo Fu Craxi, con la sua volontà revisionistica e con la sua politica, a restituire al riformismo socialista la sua dignità, a ricordare che senza i riformisti il PSI non sarebbe cresciuto, non sarebbero nati sindacati e cooperative, non sarebbero stati conquistati diritti fondamentali per il mondo del lavoro e per il movimento operaio. Craxi anche formalmente, al congresso del PSI di Palermo (1981) diede il nome di riformista alla propria corrente, ricollegandosi idealmente al riformismo turatiano. Naturalmente il riformismo liberalsocialista di Bettino Craxi aveva caratteristiche differenti rispetto a quello dei primi anni del novecento. Erano trascorsi 60 anni dal periodo più felice per il PSI di Turati. Erano cambiati i tempi e i problemi. Ma non cambiavano il metodo e la volontà di percorrere la strada delle innovazioni e del rinnovamento delle istituzioni e della società, a vantaggio di un mondo del lavoro diverso e molto più vasto e nell’interesse della maggioranza dei cittadini e della nazione italiana. Era la riaffermazione definitiva della democrazia e della libertà come scelte di fondo di una sinistra indipendente dall’URSS, legata agli interessi italiani ed europei, svincolata dal massimalismo e dall’estremismo, capace di governare il Paese e di difendere i lavoratori senza ‘spaventare’ i moderati. I comunisti più corretti diedero ragione a Turati In seguito a questo ‘rilancio’ del riformismo, proprio nel 1982, in occasione del 50° della morte di Turati in esilio, e in parallelo all’evidente crisi del sistema sovietico e del comunismo, ci fu finalmente un dibattito storico politico su scala nazionale che investì la sinistra ed ebbe eco sui grandi organi di stampa e in televisione. Autorevoli dirigenti e fondatori del Partito Comunista, come Umberto Terracini, riconobbero che Turati aveva avuto ragione. Nel suo profetico discorso al Congresso di Livorno del 1921 (quello della scissione che diede luogo al Partito Comunista d’Italia) aveva tra l’altro detto: “…Ond’è che quand’anche voi aveste organizzato i soviet in Italia, se uscirete salvi dalla reazione che avrete provocata e se vorrete fare qualcosa che sia veramente rivoluzionario, qualcosa che rimanga, come elemento di società nuova, voi sarete forzati a vostro dispetto – a ripercorrere completamente la nostra via (riformista) la via dei socialtraditori di una volta, perché essa è la via del socialismo, che è il solo immortale, il solo nucleo vitale che rimane dopo queste nostre diatribe…“. Non fu quindi solo un perdente, Filippo Turati. Certo dovette soccombere al fascismo, commise degli errori tattici, fu prigioniero della sua lealtà verso il PSI la cui maggioranza massimalista e velleitaria considerava tradimento la partecipazione dei socialisti a un governo democratico di …