IN MEMORIA DI ANNA KULISCIOFF, A PIU’ DI 90 ANNI DALLA SCOMPARSA

“Il 29 dicembre 1925 moriva Anna Kuliscioff, la “dottora dei poveri” che lottò per il diritto di voto delle donne. Per sottolinearne il grande carisma il filosofo Antonio Labriola la definì “l’unico uomo del socialismo italiano”. Anna Rosenstejn nasce in Ucraina nel 1857, figlia di un’agiata famiglia di mercanti ebrei. Nel 1871 inizia gli studi a Zurigo dove cambia il nome in Kuliscioff, probabilmente utilizzando il termine tedesco “kuli”, facchino. Medico, giornalista, ma soprattutto protagonista delle battaglie politiche e sociali, la sua formazione politica è permeata dalla concezione materialistica della storia. Anna Kuliscioff è la figura femminile più importante del riformismo socialista. Fu in primo piano nelle lotte per la piena parità tra i sessi, per i diritti delle donne lavoratrici e madri nei luoghi di lavoro e per il suffragio universale. Nel suo fascicolo informativo del 1899, raccolto dalla Prefettura di Milano, si afferma che “ha molta influenza data la sua intelligenza e cultura”. Anna non accettava ambiguità, era realista ma coraggiosa, capace di analisi acute e di proposte concrete. Straordinario fu il suo legame affettivo e politico con Filippo Turati con il quale pur non mancò di registrare divergenze di analisi e proposte di cui dava conto puntualmente la “Critica Sociale”. La Conferenza sul “Monopolio dell’uomo”da lei tenuta nel 1890 al Circolo Filologico Milanese (in cui era al tempo preclusa l’iscrizione alle donne) può essere considerata il “Manifesto della questione femminile italiana” che pone sotto una nuova luce, anche per gran parte dei socialisti del tempo, la questione della subordinazione femminile nella società e nella famiglia, negando che sia un fatto naturale antropologico. Solo il lavoro sociale, retribuito al pari dell’uomo, può portare la donna alla conquista della libertà, della dignità e del rispetto; senza questo il matrimonio non fa che umiliarla in un dramma che le toglie la dignità e l’indipendenza. Netto è il suo distacco dal “feminismo“ che considera un fenomeno borghese. Gli studi di medicina la portano a frequentare nel tempo diverse università. Nel 1885 viene accolta a Pavia da Camillo Golgi, futuro Nobel della medicina, con cui collabora con una propria ricerca sulle origini batteriche delle febbri puerperali. Dopo la laurea a Napoli nel 1886, si trasferisce a Milano dove diviene la “dottora dei poveri” e affianca Alessandrina Ravizza, finche la salute glielo consente, nell’ambulatorio medico gratuito che offriva assistenza ginecologica alle donne povere. Nella fondazione del PSI a Genova nel 1892 la Kuliscioff presenta l’ordine  del giorno, che respinge le tendenze operaiste e decide il distacco dagli anarchici. L’attrice Marina Malfatti interpreta Anna Kuliscioff durante il suo arresto a Milano. Sceneggiato RAI del 1981 Arrestata dopo i fatti di Milano del 1898 e accusata ingiustamente assieme a Turati e ad altri di aver fomentato la rivolta, scrive dal carcere: “Se si aggravassero le mie condizioni di salute , vi prego a mani giunte di opporvi a qualunque passo che si volesse fare per ottenere la mia libertà come grazie personale o con un indulto speciale. Impedite a chicchessia che mi sia fatta un’offesa morale”. Il 19 giugno 1902 viene approvata la Legge per la tutela del lavoro femminile e dei minorenni che fa proprie molte delle rivendicazioni contenute in un progetto elaborato da Anna e proposto in parlamento da Turati. Appoggia senza riserve la Camera del Lavoro di Milano, cuore dell’azione riformista del tempo che tiene testa alle follie anarchiche e ripara ai danni dello sciopero generale. Per Anna “A Milano sono i riformisti la sola visibile forza morale ed elettorale del socialismo che con l’Umanitaria danno vita alle scuole operaie professionali, che con gli Uffici del Lavoro affrontano i problemi più urgenti dei proletari di città e campagne, fondano cooperative di produzione, diffondono biblioteche popolari negli strati più oscuri del proletariato.” La sua indipendenza di giudizio ne fa una voce fuori dal coro, capace di affrontare le scelte più difficili con grande chiarezza. Quando a Caporetto l’Italia rischia la disfatta Anna concerta con Caldara, il Sindaco socialista di Milano, un manifesto che esorta i cittadini alla calma e alla fiducia “perchè l’invasore sia al più presto ricacciato e rifulga nel mondo la pace e la giustizia imperi sui popoli” e chiede a Turati di “influire sullo spirito dei soldati con parole esplicite e serene per la difesa della patria.”. Nel 1920 raccoglie pareri autorevoli e materiali di documentazione per un programma organico economico di rinascita del Paese che viene illustrato alla camera da Turati nel discorso “Rifare l’Italia”. L’assassinio di Giacomo Matteotti, che considerava “suo figliuolo” è per Anna un dolore enorme a cui si aggiunge il fallimento dell’alleanza di tutte le forze antifasciste, da lei fortemente auspicato, che consegna il potere a Mussolini. La sua memoria fu per lungo tempo “dimenticata“ da un movimento socialista diviso e debole. Fu Bettino Craxi nel 1975 a rompere il silenzio, cui si erano sottratti in pochi , e a rivalutare la figura di Anna Kuliscioff . La costruzione di quello che oggi chiamiamo il “welfare”, la lotta per l’effettiva parità tra i sessi, la scelta di mantenere la battaglia politica e sociale sul terreno della legalità e del rispetto delle istituzioni , danno al suo pensiero una grande attualità”. Fondazione Anna Kuliscioff       SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

I MOVIMENTI FEDERALISTI

Ernesto Rossi, economista, storico e giornalista d’inchiesta, è qui ritratto in una fotografia risalente agli anni dell’esilio svizzero a Ginevra (Archivio privato della famiglia Rossi, Firenze). di Piero S. Gragliadi | I movimenti federalisti fanno la loro comparsa, in tutta l’Europa, negli anni della Resistenza al nazi-fascismo e delle lotte nazionali di liberazione. Mentre precedentemente le idee federaliste – tranne poche eccezioni – si trovavano strette nella dimensione nazionale della lotta politica, che non ne permetteva lo sviluppo autonomo, durante gli anni che vanno dal 1940 al 1945 esse acquistano una fisionomia più definita e orientata principalmente verso la dimensione internazionale (federalismo europeo) e verso quella interna (federalismo infranazionale). Questi due aspetti del federalismo si trovano talvolta accoppiati in alcune formazioni politiche, e talvolta elaborati indipendentemente, ma tutti i movimenti che si sono definiti “federalisti” hanno finito per confrontarsi con le due facce del federalismo. Non si riscontra d’altronde un’omogeneità sul piano dei riferimenti ideali: i modelli preesistenti sono principalmente l’esperienza anglosassone del federalismo, che trova negli Stati Uniti d’America la sua realizzazione più solida sul piano istituzionale; nonché il pensiero federalista francese (da Proudhon in poi), più attento alla dimensione “sociale” e che porterà alla nascita anche di una corrente federalista detta “integrale” (Alexandre Marc, Denis De Rougemont). L’idea fondamentale del federalismo (la cessione di parte della sovranità delle istanze inferiori ad una istanza superiore, in determinate materie, nel rispetto delle rispettive sfere di autonomia) trova quindi un’applicazione diversificata, a seconda che si parli di federalismo applicato ai rapporti tra gli stati e di federalismo applicato all’interno dello stato. La problematica della riduzione del potere statale per ridare vigore alle “autonomie primarie” (comuni e regioni e, in Italia, anche le provincie) è stata affrontata in vario modo dalla grande maggioranza dei movimenti di sinistra che si opposero ai totalitarismi, ma non venne considerata invece dal movimento comunista internazionale. Dopo il tentativo di Trotskij, nei primi anni Venti, di immettere nel dibattito comunista internazionale la parola d’ordine degli “Stati Uniti d’Europa”, in funzione della rivoluzione antiimperialista europea, l’opposizione di Lenin e poi quella, ben più determinata, di Stalin, eliminò ogni traccia di dibattito sul federalismo tra le file dei partiti comunisti. Molto più attivo il dibattito invece nel seno del movimento libertario e anarchico, dove esso fiorì sin dagli anni Ottanta dell’Ottocento in una prospettiva istituzionale per poi affievolirsi e riprendere vigore con il sorgere dei totalitarismi. Il caso italiano, in questo senso, è particolarmente indicativo della ricerca di una sintesi tra i due aspetti del federalismo ora sottolineati, ricerca spesso alimentata dalla polemica contro il centralismo statale caratteristico prima del regno sabaudo e poi del fascismo. Non mancarono ad esempio motivi federalistici all’interno della stampa del movimento socialista italiano prima dell’avvento del fascismo (Filippo Turati, Claudio Treves, Ugo Guido Mondolfo su “Critica sociale”), intesi sempre in funzione della lotta contro il centralismo fascista e per la pace tra gli stati europei; e su un piano più maturo si posero il movimento socialista liberale di Carlo Rosselli e di Gaetano Salvemini, “Giustizia e Libertà”, che recuperava anche motivi polemici contro il centralismo statale avanzati già alla fine dell’Ottocento da Gaetano Salvemini, e il movimento “Libérer et Fédérer” animato dal veneto Silvio Trentin e attivo nelle file della Resistenza francese. Nel caso di Trentin, che elaborò anche un disegno costituzionale per una repubblica federale da applicarsi all’Italia e alla Francia, si cercava di contemperare il controllo pubblico dell’economia con il rispetto delle “autonomie primarie”, costituite dalle formazioni “naturali” del vivere sociale (famiglia, comune, consigli di fabbrica, cooperative agricole) che erano depositarie dell’autogestione e dell’autocontrollo dell’economia. Nondimeno, ancora notevole è il peso attribuito da Trentin allo “stato”, seppure federale, che egli immagina, in un difficile tentativo di sintesi tra attività regolatrice del “centro” e libertà di iniziativa delle autonomie primarie. La scomparsa di Trentin prima della fine del conflitto ha impedito ulteriori sviluppi del suo pensiero, che attingeva spunti e suggestioni anche dalle posizioni del movimento di Carlo Rosselli “Giustizia e Libertà”. In particolare “Giustizia e Libertà” mostrò di essere in grado di effettuare una sintesi felice tra polemica contro il centralismo burocratico fascista e la richiesta degli “Stati Uniti d’Europa” come modello per la ricostruzione europea; tali posizioni vennero espresse in particolare dalle pagine del settimanale “Giustizia e Libertà”, edito a Parigi, e sui “Quaderni di Giustizia e Libertà”, che ebbero una limitata diffusione anche in Italia, in articoli comparsi tra il 1931 e il 1936. Bisognava però attendere il 1941 perché l’idea federalista trovasse una sua definizione teoricamente coerente e un movimento espressamente ispirato ad essa. Nella primavera di quell’anno infatti comparve il documento fondamentale del federalismo europeo, il Manifesto di Ventotene, scritto materialmente da Eugenio Colorni (1909-1944) Ernesto Rossi (1897-1967) e Altiero Spinelli (1907-1986), due antifascisti confinati dal fascismo sull’isola di Ventotene, che avevano già scontato lunghe pene detentive (Spinelli venne arrestato nel 1927, Rossi nel 1930). Alla base del documento stava una riflessione sui limiti dell’organizzazione dell’Europa in stati nazionali sovrani e sulle conseguenze del protezionismo economico tra gli stati. Tale riflessione, maturata sulla base di letture di autori anglosassoni e tedeschi (in particolare l’economista britannico Lionel Robbins, e gli altri autori del gruppo Federal Union, attivo a Londra sin dagli anni Trenta; nonché Philip Henry Wicksteed, Arthur Cecil Pigou, Ludwig von Mises, Friedrich Meinecke), trasse spunto dalla lettura delle riflessioni di Luigi Einaudi, fatte all’indomani della fine del primo conflitto mondiale, sull’impossibilità di far sorgere una “Società delle Nazioni” in Europa tra stati rimasti formalmente sovrani. Il documento scritto nella primavera del 1941, segnava un cambiamento notevole nel panorama del pensiero europeista in Europa: per la prima volta l’idea della federazione europea diveniva un valore prioritario della lotta politica, non un elemento accessorio di visioni politiche più generali. Solo attraverso l’abbattimento del mito della sovranità statale assoluta poteva essere possibile raggiungere la giustizia sociale e la libertà politica. Altri punti che Spinelli e Rossi sottolineavano erano il superamento della dicotomia marxista tra borghesia e proletariato, individuando le forze “progressiste” in quelle favorevoli all’unificazione europea, e quelle …

EMILIO LUSSU «LA NASCITA DI GIUSTIZIA E LIBERTA’»

RICORDO QUEI GIORNI Ecco la mia breve testimonianza. Bisogna riandare a qualcosa come trenta e più anni fa: estate 1929. Contrariamente a quello che credono molti anche tra quanti si occupano di problemi politici, Giustizia e Libertà, cioè il movimento rivoluzionario antifascista repubblicano e democratico, come si definiva, non fu costituito a causa della fuga da Lipari. Sì, la fuga da Lipari, della quale il freddo e perfetto organizzatore tecnico dalla Francia e dalla Tunisia è stato il qui presente Tarchiani, è stata certamente un fatto clamoroso, nel suo genere direi unico, ed ebbe in quel periodo molto stagnante all’interno una immensa ripercussione e in Italia e all’estero. Peraltro, tirate le somme, una fuga è una fuga e, per ispirarmi al re Borbone, a scappare siamo buoni tutti. La fuga non servì che a liberare alcuni di quelli che saranno fra poco i protagonisti di una più vivace attività politica, fra cui il grande scomparso Carlo Rosselli. Ma Giustizia e Libertà, in realtà, esisteva già in formazione un po’ sparsa in varie parti d’Italia. A Firenze, attorno al gruppo “Non mollare” di Salvemini, erano i fratelli Rosselli, Ernesto Rossi, Nello Traquandi e altri. A Milano, attorno a Ferruccio Parri e Riccardo Bauer che avevano avuto già un’attività democratica culturale, erano alcuni giovani intellettuali e socialisti provenienti dal partito socialista. A Torino, attorno ai giovani venuti con “Rivoluzione Liberale” di Piero Gobetti, fra cui il più in vista Carlo Levi, erano quelli che erano stati allievi di Augusto Monti al liceo D’Azeglio, e qualche altro intellettuale e operaio. A Roma, era notevole anche numericamente, il gruppo giovanile repubblicano, con Baldazzi, Gioacchino Dolci, Fausto Nitti, Giuseppe Bruno, Dante Gianotti. E poi la parte più attiva del Partito Sardo d’Azione, di cui Piero Gobetti parlava già nel manifesto di “Rivoluzione Liberale”, che aveva, con Francesco Fancello e Stefano Siglienti, un centro continentale a Roma, collegato a Firenze e a Milano. E infine qualche isolato liberale o democratico, come A. Tarchiani e A. Cianca già in esilio, e qualche altro isolato in più parti d’Italia. V’erano certamente, e in città e in provincia, centinaia di isolati o piccoli gruppi, ma si ignoravano tra di loro e noi stessi li ignoravamo. Giustizia e Libertà come noi la costituimmo dopo la fuga da Lipari nei mesi di agosto, settembre, ottobre del 1929, si riferiva a questi vari gruppi e ad essi si legava. Ci univa tutti una comune totale rivolta morale, ideale, politica e sociale contro il fascismo e i suoi sostegni. Eravamo, può darsi, animati da quello spirito che traspare dalla esposizione sintetica politica che ci ha voluto fare oggi il professor Bobbio. Mentre a Parigi la Concentrazione, già costituitasi nell’aprile del 1927, si poteva considerare attraverso gli elementi che la formavano – i due partiti socialisti, uno riformista, l’altro massimalista, il partito repubblicano, la Confederazione generale italiana del lavoro, la Lega dei diritti dell’uomo – una specie di continuazione dell’Aventino, noi di Giustizia e Libertà non lo eravamo. E questo è fondamentale. Questi gruppi che ho elencato cosi affrettatamente poc’anzi, pur avendo partecipato all’Aventino e avendo riconosciuto all’Aventino una superiore e utile intransigenza morale di fronte al fascismo, avevano sempre negato all’Aventino stesso la giustezza della sua posizione polemica verso il fascismo. Mentre l’Aventino giocava tutte le sue carte antifasciste sul re, noi era sul popolo, e solo sul popolo, che fondavamo le speranze della liberazione. Mentre i continuatori dell’Aventino, uomini e maestri di vita morale a tutti noi di qualunque partito – cito fra i massimi, Turati, Treves, Modigliani, Buozzi, Baldini -, credevano, anzi ne erano sicuri e il presidente Nitti rafforzava questa fiducia, che Mussolini sarebbe caduto fra un mese o fra due, noi calcolavamo ad anni: cinque, sette o dieci, “se ci va bene”. Noi credevamo solo ed esclusivamente nella coscienza e nell’azione del popolo: solo il popolo sarà il protagonista della liberazione. E demmo a Giustizia e Libertà la definizione di movimento rivoluzionario antifascista, per la libertà, per la repubblica, per la giustizia sociale. Eravamo, cioè, la stessa espressione conciliativa e riassuntiva delle correnti politiche che avevano dato vita all’Aventino, ma potevamo esserne considerati come il superamento, non la continuazione. Eravamo socialisti, repubblicani, democratici, liberali, l’avanguardia, per i quali la lotta al fascismo continuava, ma con altri mezzi: l’Aventino era stato legalitario, Giustizia e Libertà era rivoluzionaria. I comunisti erano usciti dall’Aventino poco dopo la sua formazione e dopo le leggi eccezionali; in Francia, formavano un partito a sé, staccato dalla Concentrazione con cui non avevano che rapporti polemici. Io non saprei dirvi quale sarebbe stato il corso degli avvenimenti se dell’Aventino, prima, e della Concentrazione dopo, avessero fatto parte i comunisti. Eravamo due formazioni staccate, autonome, di cui quella comunista tendeva permanentemente all’organizzazione in Italia. Per definire il movimento di Giustizia e Libertà credo che dobbiamo fare uno sforzo di memoria. Discutemmo quasi due mesi a contatto con tutti i gruppi d’Italia e, a Parigi, non avevamo che riunioni permanenti. Si deve dire “Giustizia e Libertà” o “Libertà e Giustizia”? Sembra una cosa da nulla, eppure fu un continuo scambio di lettere clandestine, inchiostri simpatici, cifre, messaggi, tutti i nostri gruppi in Italia in movimento, e discussioni vivacissime a Parigi o a Saint-Germain-en-Laye, dove abitava Gaetano Salvemini, per breve tempo in Francia. “Giustizia e Libertà” o “Libertà e Giustizia”? A nessuno di chi si occupa di cose politiche sfugge la differenza. La corrente liberale democratica era per “Libertà e Giustizia”, la corrente socialisteggiante era per “Giustizia e Libertà”. Dopo lungo discutere, finalmente – e mi pare di ricordare che vi fu una manovra per ottenere la maggioranza – trionfò “Giustizia e Libertà”. Ora io non rido più, e neppure sorrido, quando leggiamo che, durante la presa di Costantinopoli, i saggi erano riuniti in assemblea a discutere impassibili da che parte giusta venisse la luce sul Monte Tabor. Eh, c’è una bella differenza, perché se sul Monte Tabor la luce viene dall’oriente, si ha una civiltà, ma se viene dall’occidente, se ne ha un’altra. Una parola messa prima o …

GIUSTIZIA E LIBERTA’: LA STORIA DI UOMINI CHE NON TRIONFARONO MAI, MA CHE NON FURONO MAI VINTI

di Gaetano Arfè | Ho dato inizio alla mia milizia politica nel 1942 aderendo a un piccolo gruppo clandestino di ‘Italia Libera‘, che faceva capo a un libraio di Napoli, Ettore Ceccoli, originariamente comunista, amico di mio padre, socialista, devoto al culto di Benedetto Croce, frequentatore abituale della sua libreria. Con Croce egli mi procurò un incontro nel corso del quale ebbi preziosi consigli, scrupolosamente seguiti, di letture risorgimentali, tra cui lettere dal carcere di Silvio Spaventa: l’idea dell’antifascismo come ‘secondo Risorgimento’ mi è venuta, precocemente di là, quando mi trovai anch’io a fare un breve assaggio di galera. Ricordo questo piccolo episodio perché, al di la del caso personale, mi pare indicativo dei modi attraverso i quali si poteva diventare giellisti: una educazione vagamente e genericamente socialista, indirizzata, al momento della scelta, da un ex-comunista, fervido credente della crociana religione della libertà. Ho partecipato poi alla Resistenza nelle formazioni Giustizia e Libertà dell’Alta Valtellina. Saltai l’esperienza del Partito d’Azione per aderire nel maggio del ’45 al Partito Socialista, seguendo questa volta la tradizione familiare, ma rimanendo in rapporti di collaborazione assai stretta con gli azionisti e per essi in particolare, ritornato nella mia Napoli, con Francesco De Martino. Seguii Saragat nella sua scissione e a darmi la spinta decisiva fu un discorso di Tristano Codignola, fortemente critico nei confronti del comunismo, che prendeva le mosse dal libro di Koestler, Buio a mezzogiorno. Presto, però, giunsi alla convinzione che alla rivendicata e conquistata autonomia dal Partito comunista corrispondeva una non voluta, ma ineluttabile, subalternità alla Democrazia Cristiana e rientrai così nella casa madre in coincidenza con la confluenza in essa della maggioranza del Partito d’Azione, guidata da Riccardo Lombardi. Ricordo l’emozione che provai quando lessi il testo del discorso col quale egli annunciava e motivava la confluenza nel Partito Socialista. Alcune frasi, non più rilette, mi sono rimaste impresse nella memoria: tra esse quella del ‘crisma’, della sacra unzione, che ciascun azionista si sarebbe portato addosso per tutta la vita. Considero tra i maggiori privilegi che mi siano toccati quello di essere stato legato come a padri o fratelli maggiori a uomini – rammento solo alcuni di quelli scomparsi – come Gaetano Salvemini, Ferruccio Parri, Piero Calamandrei, Ernesto Rossi, Riccardo Lombardi, Tristano Codignola, Piero Caleffi, Luciano Bolis, Giuliano Pischel, Enzo Enriques Agnoletti, Altiero Spinelli, Franco Venturi, Manlio Rossi Doria. Ho tra i miei ricordi più cari quello di un compagno, tra i meno noti e tra più nobili, che a questo gruppo appartenne, Nello Traquandi, il solo uomo capace di intimidire Salvemini con uno sguardo di disapprovazione, il quale volle, a suggello di un’amicizia che ancora mi riempie di commosso orgoglio, che io lo accompagnassi in una delle sue visite alle tombe di Trespiano, a salutare, mi disse, Carlo e Nello, quasi a presentarmi a loro. Tutto questo mi consente di sottrarmi alla regola, oggi tornata di moda, che sterilizza la ricerca storica in nome di una presunta scientificità, liberandola anche dall’impegno alla riflessione che perennemente ritorna su se stessa, via via adeguando la nostra capacita di intendere la storia al perenne maturare della nostra coscienza. Andrò ancora oltre dicendo che scrivo non già nelle vesti di storico, ma di chi è stato partecipe, tra gli ultimi e i più modesti, di una storia che ha avuto i colori dell’epopea e l’andamento di una chanson de geste, la storia di uomini che non trionfarono mai, ma che non furono mai vinti e che del loro operare hanno lasciato un segno incancellato e incancellabile. E’ un fatto che mentre la seconda generazione giellista, la mia, si viene anch’essa estinguendo, gruppi di giovani si vanno formando per i quali Giustizia e Libertà non è una sigla depositata negli archivi, ma un motto che indica le ragioni per le quali la vita è degna di essere vissuta. Poco meno di sessant’anni sono passati dalla morte di Carlo Rosselli e circa mezzo secolo dalla scomparsa del Partito d’Azione che fu, per breve stagione, l’incarnazione del movimento di Giustizia e Libertà. Il ciclo storico dell’antifascismo militante si è chiuso e si è chiusa con esso una fase della storia della nostra repubblica. Non si è spento il dibattito sulla tradizione giellista e azionista, anzi, al contrario di quanto è avvenuto per altri movimenti politici, esso è trapassato dal piano storiografico a quello ideologico e politico. Quanto forte sia la carica di questo dibattito e quanto ancora calato esso sia nella ‘battaglia delle idee’ lo prova il fatto che di volta in volta Rosselli è stato presentato come il precursore di un liberal-socialismo pudibondo – sia detto con tutto il rispetto per la persona – alla Giuliano Amato; come il costruttore di una ideologia da ‘utili idioti’, che ha fatto del giellismo e dell’azionismo la maschera del frontismo comunista – si è inventata nelle accademie la formula un po’ goffa, da agit-prop più che da studiosi, di Gramsci- azionismo-; come l’ispiratore remoto – e qui siamo alla faziosità sfrontata e canagliesca – delle brigate rosse. Una rassegna critica e ben ragionata di tali interpretazioni costituirebbe un contributo di notevole interesse alla storia delle sub-ideologie politiche del nostro tempo. Vero è che nella tradizione giellista coesistono e convivono in connessione dialettica motivi contraddittori che non sono meramente ideologici, che esprimono contraddizioni reali, a volte laceranti, le quali necessariamente si riflettono in chi nella storia in divenire intende incidere. Basti solo pensare che la formazione del gruppo dirigente di GL avviene nei brevi anni che vedono l’avvento di Hitler nella acquiescenza delle democrazie e delle socialdemocrazie; la sedizione franchista di fronte alla quale, da solo, si schiera dalla parte del governo legittimo, facendo gravare, però, attraverso i partiti comunisti una pesante e a volte fosca ipoteca sulla pericolante repubblica aggredita dal fascismo internazionale, mentre contemporaneamente esplode a Mosca, in forme ripugnanti, il terrorismo staliniano, mentre le democrazie preparano la vile e miope capitolazione di Monaco. Nella notte che seguì la conclusione del congresso di Venezia del 1957, nelle lunghe ore di attesa dei risultati, Nenni, che Rosselli …

CARLO E NELLO ROSSELLI

di Gaetano Salvemini* | La banda di fascisti francesi che assassinò Carlo Rosselli a Bagnoles de l’Orne, in Francia, il 9 giugno 1937, non aveva nessuna ragione di volere la morte di un italiano la cui anima era tutta tesa verso l’Italia e che non prendeva nessuna parte nelle lotte politiche francesi. L’organizzazione cui gli assassini appartenevano preparava un colpo di stato in Francia. Mussolini le forniva i fondi e le armi. Il mercato fu: io vi do il denaro e le armi, voi datemi l’uomo. Non appena l’assassinio fu conosciuto, tutti senza esitazione ne fecero risalire la responsabilità a Mussolini. A quella certezza morale si aggiunsero presto le prove materiali. Carlo Rosselli era uno dei pochi capi che fossero sorti dalla generazione del dopoguerra. Aveva guadagnato la sua autorità nel carcere e nelle molteplici attività illegali. Il suo nome significava per centinaia di giovani in Italia coraggio e intransigenza morale. La sua agiatezza gli consentiva di dedicare tutta la sua energia alla lotta politica, e con il suo patrimonio egli contribuiva largamente alle spese per il movimento antifascista. Mussolini facendolo assassinare sperava che il settimanale “Giustizia e Libertà”, fondato e diretto da Carlo, avrebbe cessato di uscire quando l’opera e i contributi di Carlo fossero venuti meno. Poteva sperare che tutto il movimento che si era sviluppato intorno a lui in Italia si sfasciasse e che la sua morte seminasse il terrore fra gli antifascisti fuori d’Italia. Colpisci il pastore e si disperderanno le pecore. Ordinando l’assassinio di Carlo Rosselli, Mussolini intendeva schiacciare l’uomo che nel 1925, nell’ora del suo trionfo, lo aveva sfidato in Firenze insieme con Ernesto Rossi, pubblicando il “Non mollare“, – l’uomo che nel 1926, insieme con Ferruccio Parri, aveva condotto Filippo Turati a salvamento fuori d’Italia; – l’uomo che nel 1927, nel processo che ne seguì a Savona, si era trasformato da accusato in accusatore e aveva strappato una condanna che era un trionfo morale; -l’uomo che nel 1929, insieme con Emilio Lussu e Fausto Nitti, gli era sgusciato fra le dita da Lipari, in un’evasione che è passata alla storia insieme con quella di Felice Orsini e di Pietro Kropotkine;- l’uomo che, appena arrivato a Parigi, aveva ripreso contro di lui la lotta senza quartiere, forte solamente della volontà propria indomabile e della solidarietà fraterna e devota di pochi amici; -l’uomo che nel 1930 aveva scoperto in Bassanesi un giovane capace di montare un aeroplano e, con poche ore di esercizio, partire dalla Svizzera e rimanere per mezz’ora nel cielo di Milano seminando manifestini antifascisti e sfidando la tanto strombazzata efficienza dell’aviazione fascista ; l’uomo che spargeva fermenti di rivolta nella gioventù universitaria italiana e così demoliva l’illusione che la gioventù educata nel clima fascista gli fosse tutta fedele. In Carlo Rosselli, Mussolini volle sopprimere l’uomo che fin dai giorni più remoti era stato fra i primi e più tenaci a denunciare la gravità del pericolo fascista e la sua natura mostruosa, e che aveva previsto che una crisi così profonda non poteva non sboccare nella guerra. Nei suoi scritti settimanali in “Giustizia e Libertà” e in tutta la sua attività battagliera, Carlo Rosselli affermava costantemente che la pace in Europa era una finzione e la guerra la realtà. Quella voce che preannunciava la guerra con lucida coscienza e ne fissava in precedenza la responsabilità con logica implacabile,Mussolini volle far tacere per sempre. Facendo assassinare Carlo Rosselli, Mussolini volle infine, oltre che liberarsi del suo più attivo e temuto nemico, vendicare soprattutto le difficoltà da lui incontrate in quell’uomo che – di quelle difficoltà – era stato l’artefice primo. Interventi individuali a difesa della repubblica in Spagna si erano manifestati subito, prima che Carlo Rosselli prendesse l’iniziativa di un intervento collettivo. Ma quegli interventi individuali, pure essendo documento di generosità ammirevole, si disperdevano nel movimento generale della guerra civile spagnola e minacciavano di rimanere senza significato. Fu grande merito di Carlo Rosselli avere avuto immediatamente la visione chiara e netta della suprema importanza e dell’enorme significato, per la causa della libertà italiana, di un intervento collettivo antifascista con bandiera italiana nella guerra di Spagna. Fu suo merito l’aver compreso che quella eroica lotta di popolo per la sua libertà non era né doveva rimanere fatto nazionale della sola Spagna. Essa doveva dilagare al di là delle frontiere spagnole. Doveva esser portata in Italia e dovunque esistesse un regime fascista. Doveva essere il principio della guerra civile europea – guerra civile che non doveva essere giustificato, bensì voluta ed esaltata come legittima e sacrosanta. Vincendo tutte le esitazioni, rompendo ogni indugio, con quella straordinaria vitalità che era la nota caratteristica della sua personalità, Carlo chiamò a raccolta gli antifascisti esuli e proscritti dall’Italia: battendosi valorosamente sul fronte di Huesca coi suoi compagni, come gruppo italiano, sollevò nella massa dell’emigrazione italiana un movimento di commozione e di entusiasmo che atti di eroismo individuale non avrebbero creato. Col suo gesto egli rese possibile, in un secondo tempo, la formazione di quella legione garibaldina che in sei battaglie condusse alla vittoria di Guadalajara. Poca favilla gran fiamma seconda. Carlo Rosselli aveva gettato il grido di battaglia “Oggi in Spagna, domani in Italia“. Soltanto otto giorni dopo che Carlo era stato ucciso dai sicari di Mussolini questi ammise il rovescio di Guadalajara sul Popolo d’Italia. Ora che si era preso la rivincita poteva confessare la sconfitta. Insieme con Carlo, Mussolini fece assassinare suo fratello Nello. Quando fu preparato il delitto, Carlo era a Bagnoles de l’Orne, convalescente di una flebite dovuta agli strapazzi della guerra di Spagna. Nello era andato a trovarlo in una delle sue visite furtive che gli faceva non appena poteva uscire fuori d’Italia per i suoi studi. Nello era anch’egli un antifascista convinto e irreducibile. Consigliato più volte dagli amici a stabilirsi fuori d’Italia non aveva mai voluto: diceva che era necessario che qualcuno rimanesse in Italia a dare l’esempio di non cedere. Era suo dovere di farlo. Nello aveva saputo trovare forza e conforto negli studi. Il suo soggetto preferito era la …

ANOMALIE A SINISTRA – DISCUTERE E UNIRE

di Gino Giugni | In questo numero del 1996 de “Le ragioni del Socialismo”, mensile diretto allora da Emanuele Macaluso, fu pubblicato un articolo di Gino Giugni , il quale intervenne nel dibattito aperto dalla rivista sulle prospettive della sinistra e sulla diaspora socialista. A distanza di 23 anni la situazione della sinistra italiana nel suo complesso è divenuta a dir poco ancora più paradossale e avvilente. Con un Pd partito liberal e con la Questione Socialista tutt’ora irrisolta. La natura non fa salti, e meno che mai accetta fughe in avanti. E in questa trappola rischia davvero di cadere l’alternativa tra partito democratico o dell’Ulivo e ipotetico partito socialdemocratico, punto di arrivo del grande travaglio del socialismo italiano: un travaglio che dura, a dir poco, dal lontanissimo giorno della scissione di Livorno. E’ risultato evidente che l’area dell’Ulivo, come ha dimostrato lo scarto positivo di quest’ultima rispetto all’esito proporzionale, gode di un vantaggio. Ma non è affatto detto che il modulo della coalizione, quello che ha presieduto alle positive sorti dell’Ulivo stesso, conduca ad una coincidenza necessaria tra quest’ultimo e l’area del partito che occupi, nell’ambito della coalizione stessa, la posizione di sinistra. Quest’ultima corrisponde oggi, la si chiami come si vuole, al modulo della socialdemocrazia. Ed essa poggia su consistenti basi. In primo luogo, vien da considerare l’organizzazione compatta e capillare che si è formata intorno al Pci, e che già dopo la Liberazione era divenuta patrimonio proprio, contestato debolmente, ed un po’ anche irresponsabilmente, dal Psi di allora. E’ una constatazione che va messa in primo piano: le solide e profonde radici di quello che fu all’origine un partito della Terza Internazionale hanno potuto attraversare un’autentica mutazione genetica (mai tale espressione fu impiegata così a proposito) grazie alla scelta di darsi un’organizzazione di massa, capace di resistere e, in larga misura, di manifestarsi poco sensibile al mutamento ideologico che veniva a svolgersi per lo meno dagli anni Sessanta in avanti. In secondo luogo, l’appello europeo dovrebbe operare come una spinta alla “normalizzazione” rispetto alla anomalia italiana, costituita dal venir meno di una rappresentanza socialista nelle istituzioni europee e determinata dal collasso del partito socialista, ormai scomparso anche dalla scena parlamentare. Le anomalie, da questo punto di vista, alla fine dei conti sono due, simmetriche tra loro: ossia, la scomparsa dell’entità socialista o socialdemocratica e il consolidamento egemonico, nell’ambito della sinistra, di quella anomala creatura che è il Pds, partito di fisionomia ben radicata nella realtà politica italiana, ma tuttora non assimilabile a nessuno dei modelli europei, o almeno a quelli dell’Europa occidentale, e forse unico nel suo genere: ed infatti l’accostamento a partiti postcomunisti, all’Est ma anche all’Ovest, sarebbe approssimativo e ingannevole. L’anomalia italiana occulta una realtà non decifrabile a prima vista. Quanti pensano ad una tabula rasa, o alla Storia che viene riscritta ex novo, si pongono fuori da ogni realistica interpretazione di vicende umane. Il Pds custodisce una sua memoria collettiva, di cui è anzi tutore molto geloso. Ma il passaggio che si tende a rimuovere è quella parte di quella storia che appartiene al “passato di un’illusione“, per usare qui la fortunata espressione di Furet. E questo passato è quello del Pci, che ad esso non può contrapporre l’artificio di un nuovismo ideologico, impiantato sul tronco di qualche pianta esotica, oppure sulla ricerca di una filosofia indigena che potrebbe nutrirsi anch’essa di una generosa e nuova illusione. Il tentativo più rigoroso compiuto negli anni Sessanta e Settanta fu quello che venne banalizzato nella definizione di cattocomunismo, e che in termini volgarizzati si espresse nell’idea di una “diversità” e di una separatezza in gran parte costruita sull’impervio impianto di una etica esclusiva di partito. A questa ipotesi “autoctona” o “indigena” è possibile invece opporne un’altra, quella che ci dovrebbe far entrare pienamente nell’area politica ma, prima ancora, in quella culturale della socialdemocrazia europea. Beninteso: la stessa terminologia “socialdemocrazia” allude ad una realtà tutt’altro che semplice e semplificabile. La socialdemocrazia in versione europea, oltre ad assumere identità diverse in ragione di percorsi storici propri, è in realtà un crogiolo, un crocevia in cui si ritrovano culture diverse; è, se vogliamo, una spugna la cui efficacia è stata dimostrata dalla capacità di assimilare esperienze diverse, dal pensiero sociale di varie appartenenze confessionali, fino alle grandi realizzazioni del liberalismo, da Roosevelt a Beveridge. La via orientabile a superare l’anomalia italiana è costituita, pertanto, invece dall’innesto della corposa realtà del postcomunismo italiano sulle antiche radici del socialismo e principalmente sulla memoria collettiva e storica segnata dalla appartenenza comune dei due partiti storici. Non è qui in gioco il tema, pur non trascurabile, del recupero di energie, quadri, appartenenze che si chiamarono un tempo socialiste senza ulteriori qualificazioni. Né è in questione in questa sede il tema delle varie diaspore da cui il socialismo italiano è uscito letteralmente distrutto. La diaspora socialista presenta vari aspetti, tra loro difficilmente ricomponibili, alcune delle quali che vanno dalle appartenenze nuove, visibilmente incompatibili con l’identità socialista, e interpretabili soltanto attraverso il modulo della mutazione genetica, fino al transito verso la destinazione finale in cui si comprendano le due sponde postcomuniste. E’ un aspetto che merita attenzione. Ma quello che interessa in questa sede, per rispondere alla domanda posta all’inizio, è se il percorso innovativo dovrà essere scelto nella ricerca della via tutta nuova di una identità diversa che riesca a procedere innanzi rispetto alla tradizione postcomunista e a quella non meno profondamente solcata nella nostra storia, del cattolicesimo democratico, o se riterrà di appoggiarsi al dato di una continuità interrotta, ma visibile nella nostra storia come nella nostra appartenenza geografica. Sono due strade legittime e rispettabili. Ma, forse, la prima di esse, l’Ulivo che tutto copre e comprende, potrebbe assomigliare un pò al sogno dei grandi navigatori, che partirono per buscar el poniente por el levante. E infatti, approdarono in terre nuove. Ci scoprirono l’America, ma la popolazione indigena ne pagò un caro prezzo. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei …

MOZIONI PRESENTATE AL XIX CONGRESSO NAZIONALE DEL PSI

Roma (1-4 ottobre 1922) Mozione massimalista Il Congresso, constatando come nonostante tutti gli sforzi unitari fatti dal Partito e i tentativi di armonizzare i diversi pensieri sulla tattica in una unica azione di disciplina, si è affermata, nella organizzazione socialista, una tendenza con propria disciplina, allo scopo confessato di condurre il Partito alla collaborazione con la borghesia e all’accettazione delle attuali istituzioni; constatando come a questo scopo, nettamente confessato, si siano accompagnati atti concreti per effettuarne la realizzazione, in dispregio ai tassativi divieti e ai deliberati dei Congressi e della opposizione della Direzione del Partito, e segnatamente i seguenti: 1 – manovre intese a partecipare alla soluzione della crisi ministeriale, promettendo eventuali appoggi a indirizzi di Governo; 2 – dichiarazione di autonomia del Gruppo parlamentare; 3 – invio di un rappresentante del Gruppo al Quirinale per indicare al re il modo di risolvere una crisi di Gabinetto; 4 – propositi chiaramente manifestati di provocare localmente o nazionalmente la costituzione di blocchi elettorali politici ed amministrativi coi Partiti borghesi; 5 – pubblicazioni in cui si ricusano precedenti atti politici per i quali soltanto era possibile la comune permanenza in un solo Partito; 6 – pubblica denuncia di pretese responsabilità della sola maggioranza del Partito nello scatenarsi della reazione; 7 – voti e atti intesi alla partecipazione ad un Governo cosiddetto migliore; 8 – propositi ed opere per deviare il movimento proletario dal suo indirizzo classista; constatando finalmente che il manifesto pubblicato dalla frazione collaborazionista, il voto del Convegno di Milano del 10 settembre e la mozione da essa presentata al Congresso sono in pieno, deciso, inconfutabile contrasto con le direttive segnate al Partito da tutti i Congressi, da Reggio Emilia del 1912, a Milano del 1920 e violano fondamentalmente il programma stesso del Partito, votato a Bologna dal Congresso del 1919 e confermato da allora in tutti i susseguenti congressi; per questi motivi il Congresso delibera: 1 – Tutti gli aderenti alla frazione collaborazionista e quanti approvano le direttive segnate nel manifesto e nella mozione anzidetta, sono espulsi dal Partito Socialista Italiano; 2 – Le Sezioni, i Gruppi di compagni, i singoli, ecc., che, pur avendo contribuito ad apportare attività o deleghe non conformi alla presente mozione, abbiano tratto dalle discussioni il convincimento che le decisioni proposte in questa mozione siano conformi all’interesse classista del proletariato, sono invitati a richiedere la propria iscrizione nel Partito ricostituito. Mozione unitaria Il XIX Congresso straordinario del Partito Socialista Italiano mentre rinvia ai Congressi ordinari la discussione sopra questioni di metodo e di astratti propositi di frazioni che oggi ne confessano la immediata inattuabilità preoccupato invece degli eccezionali avvenimenti odierni e delle condizioni in cui trovasi il Partito di fronte al proletariato nella grave ora presente; del suo dovere, anche dove la reazione medioevale è pienamente trionfante, di non permettere che essa abbia a trovare compagni dispersi in gruppi acefali e antagonistici immancabilmente sorti dallo sminuzzamento del Partito ma per quanto è possibile in forza compatta, ad opporre il programma di una società socialista a quello illogico e antistorico, nonché improduttivo e infecondo, di un nuovo feudalesimo e di una nuova servitù riaffermando, mentre ripudia dal suo seno ogni regressiva tendenza operaista, che l’azione sindacale e di classe è ormai immedesimata in quella politica, sia che il Partito ha la funzione di conservare i beni morali e materiali svolgendo l’azione come può spettare solamente a un forte partito politico centro dell’unità delle forze lavoratrici per la immancabile riscossa; mentre riconferma l’indirizzo di politica internazionale fin qui seguita, diretta a tutelare efficacemente e prontamente l’azione di quei gruppi che si propongono di accordare tutto il proletariato oggi diviso, in un’unica vera e potente Internazionale, condizione necessaria a difendere in modo definitivo le conquiste sindacali nei confronti della progressiva reazione, ad annullare i trattati di pace imperialisti e a debellare il pericolo imminente di nuove guerre; passa all’elezione del suo Comitato centrale affidandogli la facoltà di mezzi ai detti fini e di disciplinare rigorosamente uomini e organismi in modo da ottenere la più stretta unità di azione. La votazione diede i seguenti risultati: Massimalisti voti  32.100 Unitari  voti  29.119 Rassegnato, Turati così espresse il rammarico degli esponenti della mozione riformista: «Noi ci separiamo da voi: o, forse più esattamente (non vi sembri una sottigliezza), voi vi separate da noi. Comunque ci separiamo. Accettiamo l’esito della votazione.» Terminò con queste parole: «Accomiatiamoci al grido augurale di “Viva il socialismo!“, auspicando che questo grido possa un giorno – se sapremo esser saggi – riunirci ancora una volta in un’opera comune di dovere, di sacrificio, di vittoria!» Il 4 ottobre 1922 Turati diede quindi vita insieme a Giacomo Matteotti, Giuseppe Emanuele Modigliani e Claudio Treves al Partito Socialista Unitario, di cui Matteotti fu nominato Segretario. Treves assunse la direzione del periodico La Giustizia, la cui sede venne trasferita da Reggio Emilia a Milano e divenne l’organo ufficiale del nuovo partito. Nelle file del PSU confluirono inoltre i due terzi del gruppo parlamentare socialista.   SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

CONCLUSO IL CONGRESSO DI UNIFICAZIONE I SOCIALISTI FRANCESI HANNO UN NUOVO LEADER

Tratto dall’Avanti! del 15 giugno 1971 Dall’inviato Luca Bianchi Lo schieramento della sinistra francese non comunista ha da ieri sera un nuovo partito e un nuovo leader. Dal Congresso di unificazione al Épinay-sur-Seine è nato infatti il nuovo partito unificato, che ha deciso di chiamarsi come il vecchio, cioè, molto semplicemente partito socialista; contemporaneamente, la maggioranza del Congresso ha messo da parte il vecchio leader della SFIO, Guy Mollet e l’attuale segretario del partito, Alain Savary. Francois Mitterrand che nel ’65 fu il candidato della sinistra unita contro De Gaulle, è il nuovo astro nascente del socialismo francese; la sua mozione, infatti, che postula il rinnovamento organizzativo del partito, e una politica di intesa immediata, elettorale e di governo, con il partito comunista, ha avuto la meglio sulla mozione presentata da Savary e Mollet, favorevoli alla continuità organizzativa e a un preventivo chiarimento ideologico con i comunisti, prima di qualsiasi accordo elettorale e di governo, 43.926 voti ha avuto Mitterrand: 41.733 voti hanno avuto Savari e Mollet. La mozione dell’ex leader della Convenzione delle istituzioni repubblicane è stata votata dai convenzionali, naturalmente, dall’estrema sinistra del partito socialista (la vecchia SFIO) e, curiosamente da Gaston Defferre, sindaco di Marsiglia e leader della federazione delle Bocche del Rodano, e da Pierre Mauroy, della potente federazione del Nord, i quali sono sempre stati tiepidi nei confronti del dialogo con comunisti. L’appoggio di Defferre e Mauroy nonché alcuni vivaci accenti critici di Mitterand nei confronti del PCF, hanno fatto scrivere all’organo dei comunisti francesi che il Congresso di unificazione si è concluso nella confusione. Altri rilevando dietro il gioco delle mozioni quello antico e personale dei mandarini della vecchia SFIO, si domandano se la nuova formazione non corre il rischio di diventare ingovernabile, come lo stato, nel tempo, vecchio partito Socialista. Il che sarebbe grave per una formazione che pone la sua candidatura al governo addirittura del Paese. Ma per il momento il barometro è all’ottimismo. Un ottimo e ispirato soprattutto dalla personalità del nuovo leader François Mitterand e senza dubbio l’uomo nuovo della sinistra francese. Lo ha dimostrato nel recente dibattito sulla fiducia all’assemblea nazionale, lo ha dimostrato all’epoca del braccio di ferro con De Gaulle, che riuscì a mettere in difficoltà alle presidenziali de 1965, lo ha dimostrato nel corso della preparazione di questo Congresso, e con il suo intervento di ieri. Un intervento estremamente lucido ed abile, che è stato salutato dall’applauso di tutti i congressisti. Per Mitterrand, il problema numero uno della sinistra francese è quello di raccogliere tutti i suffragi socialisti, in modo da dare al nuovo partito, un peso che lo salvaguardi dal pericolo di essere dominato dai più forte alleato, il partito comunista. Non è naturale — egli dice — che cinque milioni di francesi scelgano il partito comunista perché essi sentono che questo partito difende la loro vita. Il compito del partito socialista e quello d’essere il partito più rappresentativo della classe operaia. E a ciò si arriverà attraverso azioni concrete. Bisogna innanzitutto conquistare quelli che oggi si chiamano i “gauchistes“. Finché il partito socialista non esprimerà il bisogno di responsabilità e di dignità che è spesso quello dei giovani che si chiamano abusivamente “gauchistes” esso non arriverà a collocarsi nella realtà del nostro tempo. Ma anche i cosiddetti liberali devono essere conquistati dal nostro partito. Li si deve poter convincere che tra la tirannia, l’involuzione capitalistica e noi, non c’è altra scelta. Mitterrand considera che è vano continuare il dialogo ideologico con i comunisti. Forse che questo dialogo risolverà il problema di due filosofie, di due concezioni dell’uomo e della società? Certamente no. Vuol forse dire questo che, se non ci si intenderà sul piano ideologico, non ci si intenderà nemmeno alle elezioni? Sicuramente no. C’è dunque, in tutto ciò una profonda contraddizione. Infatti, non ci sarà alleanza elettorale, se non ci sarà un programma elettorale. Non ci sarà una maggioranza di sinistra se non ci sarà fin accordo di maggioranza, e non ci sarà governo, senza un accordo di governo. Mercoledì venturo, il nuovo partito eleggerà i suoi organi dirigenti: direzione, presidente e segretario generale.                                                                                                                                                                                   SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. 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I GRUPPI SOCIALISTI FRANCESI ALLA RICERCA DELL’UNIFICAZIONE

Tratto dall’Avanti! dell’11 giugno 1971 | Dall’inviato Luca Bianchi Domani a Épinay Sur Seine i socialisti francesi delle varie famiglie tenteranno, per l’ennesima volta, di trovare un accordo per mettere in piedi un partito unico e nuovo. Il congresso dl unificazione durerà tre giorni. Sapremo domenica sera se la vocazione unitaria avrà la meglio sulla vocazione litigiosa che è stata la maledizione della sinistra non comunista francese per tutti questi anni. L’ultimo tentativo unificatorio è avvenuto, come sapete, nel 1969 e finì male, perchè anziché superare le divergenze esistenti tra i vari gruppi le approfondì. Questa volta l’operazione si presenta sotto migliori auspici. Dopo la rissa del 1969, determinata dalle ambizioni presidenziali del sindaco di Marsiglia Gaston Defferre, e del «leader» della convenzione repubblicana Francois Mitterrand, gli animi ai sono distesi. In più c’è la scadenza del 1973, cioè le prossime elezioni legislative che preoccupano fin d’ora le segreterie di tutti I partiti e che ai socialisti In particolare pongono un problema di vita o di morte: o si presentano uniti e hanno qualche probabilità di sopravvivere e anche di raggiungere qualche buon risultato (è la prima vola che i gollisti affrontano le elezioni senza De Gaulle), o si presentano in ordine sparso e sarà la fine. Chi partecipa al congresso di Épinay? Chi sono i soci fondatori del partito? Ci saranno settecentocinquanta della convenzione delle istituzioni repubblicane, cioè della formazione di Mitterand e centocinquanta rappresentanti di vari club e associazioni di carattere socialistico, molte delle quali a ispirazione più cattolica, anzi cristiana, che socialista, come il club «Obbiettivo ’72» diretto da Raymond Buron che fu ministro di De Gaulle e uno dei firmatari del trattato di Evian che ha posto fine alla guerra di Algeria. Due problemi saranno al centro del dibattito: le strutture del futuro partito, l’orientamento politico dello stesso. Per quel che riguarda il primo problema, due tendenze si sono già manifestate. L’una partigiana di una formazione elastica, decentralizzata, desidera stabilire con lo stesso relazioni pressoché permanenti di «riflessione e di azione», l’altra, più tradizionale, che non vorrebbe scostarsi molto dalle strutture attuali del partito socialista. Della prima tendenza fanno parte Mitterrand, il sindaco di Marsiglia, Defferre, il potente segretario della federazione del Nord, Mauroy. Della seconda, l’attuale segretario del partito Alain Savary, e il vecchio leader Guy Mollet, che ha d’altra parte fatto sapere che non porrà la sua candidatura alla direzione del nuovo partito. Per quanto riguarda gli orientamenti politici, il discorso è più complicato. Sull’obbiettivo finale da assegnare all’azione del partito, le idee non sono molto chiare. La maggior parte dei socialisti francesi sa indicare bene quello che non vuole, ma non altrettanto bene quello che vuole. Si esclude seccamente sia il modello capitalistico, comunque presentato e condito, sia quello sovietico, che non è più proposto, del resto, nemmeno dai comunisti; e risultano assai diminuiti, ridotti all’ultima minoranza, i partigiani del modello svedese. Resta il discorso su una vaga società fondata sull’autogestione, discorso che è portato avanti soprattutto dai socialisti di provenienza cattolica e che è considerato con molto interesse dal sindacato CFDT, ex sindacato cristiano, che si è schierato apertamente, nel 1970, su posizioni socialiste. Meno generico il discorso sugli obbiettivi immediati. Tutti auspicano che il partito riacquisti nel Paese il posto che gli spetta; tutti concordano nel ritenere che Il nuovo partito socialista debba presentarsi al Paese come partito di governo, come alternativa, cioè, al gollismo. Ma, anche nell’ipotesi di una rapida crescita, è difficile immaginare che Il nuovo partito possa, da domani, rappresentare, da solo, la forza alternativa al gollismo. Si pone pertanto il problema delle alleanze. E’ previsto un accordo contrattuale con i radicali, e con quei gruppi centristi che non sono stati imbarcati sulla barca governative di Chaban Delmas. Sarà un apporto certo consistente, ma non decisivo. Per vigilare la forza gollista, è necessario anche l’accordo con i comunisti. Il problema dei rapporti con il partito comunista è la questione più importante e spinosa che si pone ai congressisti di Épinay. Secondo Mitterrand, non c’è dubbio che il nuovo partito si debba accordare con i comunisti, ma non prima di avere raggiunto dimensioni tali che escludano il rischio di apparire dominato dal più forte alleato. Quanto a Savary, cioè all’attuale segretario del PS, egli ha da tempo accettato il dialogo con i comunisti, senza peraltro approdare a grandi risultati, tanto che, alla vigilia del congresso egli ha detto che «le condizioni per realizzare un accordo politico con il partito comunista, ancora non sono riunite. E non soltanto per colpa nostra: c’è per esempio il problema dell’alternanza al potere. Per noi il suffragio universale è sovrano, e nessun regime, nessun partito può sottrarsi al suo giudizio”. Recentemente, i leaders comunisti Marchais, Duclos, e altri, avevano proclamato che una volta realizzata una società socialista, indietro non si torna. Ma hanno anche aggiunto, e confermato in una lettera inviata al congresso di unificazione, essere tuttavia disposti ad esaminare e discutere il problema con i socialisti. 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LA LEGGE SUI PIENI POTERI E LA RELAZIONE DI MATTEOTTI

Il fascismo come movimento politico fu fondato da Benito Mussolini a Milano il 23 marzo 1919, nel 1921 si costituì in Partito Nazionale Fascista. Nel 1921 (28 ottobre) conquistò il potere con la marcia su Roma. Nominato Mussolini capo del governo, gli furono concessi pieni poteri, con legge 3 dic. 1922 n.1601, per tutto il 1923. In quell’anno fu varata la riforma Gentile della pubblica istruzione, fu creata la Milizia volontaria per la sicurezza nazionale, fu modificata la legge elettorale in senso maggioritario. Con le elezioni di aprile 1924 il P.N.F. ebbe la maggioranza in Parlamento. Nel giugno dello stesso anno veniva assassinato il deputato socialista Giacomo Matteotti, rivelatosi il più intransigente e preparato oppositore del regime che si stava costituendo. Tra il 1925 e il 1928 fu soppressa la libertà di stampa, furono sciolti i partiti e i sindacati non fascisti, fu istituto il Tribunale speciale e la polizia segreta OVRA. Furono create organizzazioni fasciste come l’Opera Nazionale Balilla, poi Gioventù Italiana del Littorio, l’Opera Nazionale Maternità e Infanzia. La scuola fu utilizzata come strumento di propaganda fascista. Nel 1929 furono firmati i Patti Lateranensi con la Santa Sede. Negli anni trenta, ottenuto il consenso interno e con l’affermazione del Nazismo in Germania, il governo fascista aggredì l’Etiopia (1935-36), intervenne militarmente in Spagna contro il legittimo governo repubblicano (1936-39), occupò l’Albania (1939), si alleò con la Germania Nazista (patto d’acciaio 1939), intervenne in guerra a fianco di essa nel 1940, fu travolta dalla sconfitta militare (25 luglio 1943). Il Duce, imprigionato e poi liberato dai tedeschi, fu a capo ancora per venti mesi della Repubblica Sociale Italiana (13 settembre 1943 – 25 aprile 1945). Dal punto di vista istituzionale la prima legge che diede al Fascismo modo di cambiare le istituzioni del Regno fu quella “dei pieni poteri”. Legge 3 dic. 1922, n. 1601, concernente la delegazione di pieni poteri al Governo del re per il riordinamento del sistema tributario e della pubblica amministrazione. (G. U. 15 dic., numero 293)1.   1. Per riordinare il sistema tributario allo scopo di semplificarlo, di adeguarlo alle necessità del bilancio e di meglio distribuire il carico delle imposte; per ridurre le funzioni dello stato, riorganizzare i pubblici uffici ed istituti, renderne più agili le funzioni e diminuire le spese, il governo del re ha, fino al 31 dicembre 1923, facoltà di emanare disposizioni aventi vigore di legge.   2. Entro il mese di marzo 1924 il governo del re darà conto al parlamento dell’uso delle facoltà conferite dalla      presente legge.  3. La presente legge andrà in vigore il giorno della sua pubblicazione nella Gazzetta ufficiale. Nello stesso giorno cesseranno di aver vigore la legge 13 agosto 1921, n. 1080, la proroga della legge stessa accordata dall’art. 2 della legge 22 agosto 1922, n. 1169, e ogni altra disposizione contraria alla presente legge. L’opposizione parlamentare a questa legge fu principalmente dovuta al deputato socialista Giacomo Matteotti (1885-1924) che poco dopo pagò con la vita la sua critica intransigente e documentata all’affermarsi del Regime. Riportiamo per esteso la relazione di minoranza di Matteotti alla legge sui pieni poteri. La minoranza della commissione si sarebbe potuta limitare a una pregiudiziale generica avversa a una delega di pieni poteri, o specifica contro il governo cui i pieni poteri si propongono affidati, sotto l’aspetto politico o sotto l’aspetto della capacità di attuazione. In tale caso non avrebbe neppure redatta una relazione di minoranza, affidando piuttosto le ragioni intuitive della sua opposizione alla stessa relazione della maggioranza. Ma, contro il progetto che ci è presentato, stanno tante altre e tutte fondamentali ragioni, che non ci possiamo esimere dal darne esposizione più larga al parlamento.  Anzitutto, da un punto di vista più generale, quali sono le ragioni che possono indurre il potere legislativo a rimettere i pieni poteri al potere esecutivo? Per «la crisi dello stato» afferma la relazione del governo, perché «l’autorità dello stato si era ormai progressivamente indebolita». – Ma sarebbe facile obiettare che la ragione cade nel momento stesso in cui il nuovo governo sale al potere, con la presunzione di riaffermare, perciò solo, l’autorità dello stato, fino al punto di ritenere di poter governare anche contro la camera e contro ogni diversa opinione o corrente politica.  Altri avverte piuttosto che la delegazione dei pieni poteri «discende come conseguenza dal modo quasi rivoluzionario per il quale una parte si è impadronita del governo». – Ma anche sotto tale aspetto, o la rivoluzione continua e non ha bisogno di chiedere i pieni poteri, o la rivoluzione è già legalizzata e consentita dalla maggioranza della camera, e non vi è più bisogno di una legge eccezionale.  Si dice anche che «la camera si è dimostrata incapace di risolvere i problemi più gravi dell’economia e della finanza». – Ma o la incapacità è ritenuta costituzionale, organica, dipendente dallo stesso modo di funzionamento dei parlamenti moderni, e allora la vera legge attendibile sarebbe quella che ne riformasse la costituzione o il modo di funzionare 2; o la incapacità è di questa sola camera, e, a parte la dimostrazione che manca, l’unica risoluzione da prendere sarebbe quella che la camera fosse immediatamente sciolta e sostituita da un’altra capace di riprendere subito ed esercitare il suo potere e la sua funzione.  La verità è che il disordine amministrativo ed economico attuale non tanto dipendono da difetti del parlamento, ma traggono inizio proprio dal momento in cui il parlamento cessò di funzionare normalmente, e la legislazione, anziché conforme alle norme costituzionali, fu tutta affidata, dalla dichiarazione di guerra in poi, al potere esecutivo, all’alta burocrazia e alle altre forze che sulle prime due hanno agito.  La farragine dei decreti sovrapposti, l’abitudine degli organi esecutivi ad agire ormai senza controllo né preventivo, né consuntivo, la protratta liquidazione delle gestioni straordinarie di guerra, costituivano tanti ostacoli alla ripresa della normale funzione legislativa e al riassetto amministrativo dello stato. Ma è allora più che mai strano che, proprio nel momento in cui il parlamento ha ripreso in parte il suo funzionamento, ricominciata la discussione dei bilanci, ristabilito …