I SOCIALISTI ITALIANI E LA QUESTIONE MEDIORIENTALE

da sinistra Bettino Craxi, Yasser Arafat, Enrico Berlinguer di Francesca Pacifici | L’atteggiamento dei socialisti italiani nei confronti della questione mediorientale negli anni della segreteria di Bettino Craxi fino al principio degli anni Ottanta, quando, con la Dichiarazione di Venezia, l’OLP fu riconosciuta dagli Stati europei. Sotto la guida di Craxi il partito si attivò con impegno crescente a favore del diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese, anche se l’area maggioritaria del PSI continuò ad attestarsi su posizioni di estrema cautela e moderazione, senza lasciare mai in secondo piano il sostegno allo Stato di Israele. Come sempre, tuttavia, i socialisti si posizionarono nei confronti del conflitto arabo-israeliano con sensibilità molto diverse tra loro, che emersero tutte all’interno degli organi di informazione di partito. Sia il quotidiano Avanti!, sia il mensile Mondo Operaio registrarono puntualmente queste vedute differenti, che si dipanavano tra le tradizionali posizioni filo-israeliane e nuove e crescenti sensibilità filo-palestinesi. Il segretario socialista stesso mantenne inizialmente un atteggiamento piuttosto equidistante e pragmatico rispetto alla questione mediorientale, mostrando un’attenzione profonda e costante per la causa politica palestinese, la cui soluzione fu considerata da Craxi un elemento irrinunciabile per il raggiungimento della pace nella regione. Ma, accanto al riconoscimento del protagonismo del popolo palestinese, il segretario del PSI fu sempre attento a ribadire in tutte le occasioni l’irrinunciabilità del riconoscimento dello Stato di Israele e della sua sicurezza come altro fattore necessario per una composizione pacifica del confitto, anche quando si rivelò difficile difendere gli israeliani per la loro politica estera piuttosto aggressiva, usata come strategia dal governo di destra di Menachem Begin. In questi anni il partito socialista e i suoi rappresentanti continuarono ad impegnarsi per costruire un dialogo con entrambe le parti in causa, mostrando grande determinazione nel cercare di assumere un ruolo attivo negli eventi, e soprattutto registrando un profondo cambiamento della cultura politica del partito rispetto alle questioni internazionali, in particolare rispetto alla ricerca di un maggiore attivismo nell’area mediterranea, al di fuori della logica bipolare. Tratto da: UNIVERSITA’ DEGLI STUDI ROMA TRE Dottorato di ricerca in “Storia dell’Italia contemporanea: politica, territorio, società” Ciclo XX Francesca Pacifici I SOCIALISTI ITALIANI E LA QUESTIONE MEDIORIENTALE (1948-1987) Il documento integrale: †† SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

LUGLIO ’60

Comizio di Pertini in piazza della Vittoria a Genova di Franco Astengo | La necessità di rinnovare con costanza la memoria storica del nostra Paese si colloca ben oltre alla discussione sul neofascismo rampante nella difficile situazione dell’Italia di oggi. Per questo motivo è più che mai valida la ricostruzione storica (per eseguita in maniera assolutamente sommaria) di ciò che accadde tra la fine di giugno e il luglio del 1960: cinquantanove anni fa. Era l’Italia del 1960. Ci si trovava in pieno miracolo economico, ma il benessere nascondeva profonde lacerazioni politiche e sociali. Si stava provando, con fatica, a uscire dagli anni’50 e a far nascere il centrosinistra. Un giovane democristiano, Fernando Tambroni esponente della corrente del presidente della Repubblica Gronchi, assumeva la Presidenza del Consiglio sostenuto da una maggioranza comprendente il partito neofascista, l’MSI. Quell’MSI che stava tornando alla ribalta con la sua ideologia e la sua iniziativa: quell’MSI che decise, alla fine del mese di Giugno, di tenere il suo congresso a Genova, Città medaglia d’oro della Resistenza. L’antifascismo, vecchio e nuovo, disse di no. Comparvero sulle piazze i giovani dalle magliette a strisce, i portuali, i partigiani. La Resistenza riuscì a sconfiggere il rigurgito fascista. Ma si trattò di una vittoria amara, a Reggio Emilia e in altre città la polizia sparò sulla folla causando numerose vittime. Questi i fatti, accaduti in quell’intenso e drammatico inizio d’estate di cinquantanove anni fa: è necessario, però, tornarvi sopra per riflettere, partendo da un dato. Non si trattò semplicemente di un moto di piazza, di opposizione alla scelta provocatoria di una forza politica come quella compiuta dall’MSI di convocare il proprio congresso a Genova e di annunciare anche come quell’assise sarebbe stata presieduta da Basile, soltanto quindici anni prima, protagonista nella stessa Città di torture e massacri verso i partigiani e la popolazione. Si trattò, invece, di un punto di vero e proprio snodo della storia sociale e politica d’Italia. Erano ancora vivi e attivi quasi tutti i protagonisti della vicenda che era parsa chiudersi nel 1945, ed è sempre necessario considerare come quei fatti si inserissero dentro una crisi gravissima degli equilibri politici. Una crisi inserita anche in un mutamento profondo dello scenario internazionale, nel quale si muovevano i primi passi del processo di distensione ed era in atto il fenomeno della “decolonizzazione”, in particolare, in Africa, con la nascita del movimento dei “non allineati”. Prima ancora, però, dovrebbe essere valutato un elemento di fondamentale importanza: si è già accennato all’entrata in scena di quella che fu definita la generazione “dalle magliette a strisce”, i giovani che per motivi d’età non avevano fatto la Resistenza, ma ne avevano respirato l’aria entrando in fabbrica o studiando all’Università accanto ai fratelli maggiori; giovani che avevano vissuto il passaggio dall’Italia arretrata degli anni’40-’50 all’Italia del boom, della modernizzazione, del consumismo, delle migrazioni bibliche dal Sud al Nord, di una difficile integrazione sociale e culturale. In questo senso i moti del Luglio’60 non possono essere considerati semplicemente un punto di saldatura tra le generazioni, anzi rappresentavano un momento di conflitto, di richiesta di cambiamento profondo, non limitato agli equilibri politici. In quel Luglio ’60, da non considerare – ripetiamo – soltanto per i fatti accaduti in quei giorni, ma nel complesso di una fase di cambiamento della società e della politica, si aprì, ancora, a sinistra, una discussione sulla natura della DC, fino a quel momento perno fondamentale del sistema politico italiano. Molti si chiesero, a quel momento, se dentro la DC covasse il “vero fascismo” italiano: non quello rumoroso e un poco patetico del MSI, ma quello vero; quello che poteva considerarsi il vero referente dei ceti dominanti, capace di portare al blocco sociale di potere l’apporto della piccola e media borghesia. Il partito democristiano appariva, dunque, a una parte della sinistra, soprattutto nei giorni infuocati della repressione, come il partito che avrebbe potuto in qualunque momento rimettere in moto in Italia (ricordiamolo ancora una volta: eravamo a soli quindici anni dalla Liberazione) un meccanismo politico –sociale –repressivo -autoritario tale da dar vita a nuove esperienze di tipo fascista. L’analisi sviluppata dal PCI togliattiano fu diversa. Nonostante le asprezze della polemica quotidiana il PCI aveva assunto come stella polare di tutta la sua strategia l’intesa con le masse cattoliche, da sottrarre al predominio moderato prevalente dal ’47 in poi (grazie alla “guerra fredda”) al vertice della DC. Ma la prospettiva non era così ingenua: essa comportava il proposito di far emergere le forze presenti all’interno della DC, anche al vertice del partito. In quel Luglio ’60 il PCI cercò di operare in quella direzione, e il successo dello sciopero generale, pur macchiato di sangue, si rivelò efficace e significativo anche perché dall’interno della DC si aprì finalmente un varco a quella parte del gruppo dirigente che, sulle rovine dell’esperimento Tambroni, poté riproporre con maggiore efficacia e speranza di esito positivo una soluzione diversa: quella che abbiamo già richiamato delle “convergenze parallele” e, successivamente, del centrosinistra “organico”. Oggi, a cinquantanove anni di distanza, possiamo meglio valutare l’esito di quei fatti: le contraddizioni che ne seguirono, il rattrappirsi progressivo della realtà riformatrice (a partire dal “tintinnar di sciabole” dell’estate 1964, fino alla disgraziata stagione del terrorismo, aperta nel 1969 dalle bombe di Piazza della Fontana), l’assunzione, in particolare da parte del PSI, via, via, di una vocazione “governista” sfociata nel decisionismo craxiano, i limiti di puro politicismo insiti nella strategia berlingueriana del “compromesso storico”, nello sviluppo abnorme di quella che già dagli anni’50 Maranini aveva definito come partitocrazia (con il contributo di un complessivo “consociativismo” allargato all’intero arco parlamentare) e, infine, nella “questione morale” che segnò, all’inizio degli anni’90, lo sconquasso definitivo del quadro di governo in coincidenza con la caduta del muro di Berlino (sulla quale furono commessi errori di valutazione enormi) e con l’avvio, con il trattato di Maastricht, della logica monetarista anti-democratica di gestione dell’Unione Europea sul modello reaganian-tachteriano della crescita delle diseguaglianze economiche e sociali fino alla drammatica attualità che stiamo vivendo in un quadro esaltato da un …

LETTERA APERTA DI CESARE BATTISTI A BENITO MUSSOLINI

Pubblicata su Avanti! del 14 settembre 1914 La lettera di Cesare Battisti a pagina 2 | Caro Mussolini, vedo in una corrispondenza romana del tuo giornale messa in burletta una eventuale guerra italo-austriaca, per liberare … coloro che non hanno assolutamente alcun desiderio di staccarsi dall’Austria. Io non ho, né mi arrogo, caro Mussolini, il diritto di parlare in nome di tutti gli irredenti, per quanto mi giungano da Trieste e dall’Istria voci di consentimento; ma sento di potere, di dovere anzi dire una franca parola in nome del Trentino. Il Trentino ci tiene a staccarsi dall’Austria. Se tu fossi stato lassù nei giorni angosciosi della mobilitazione te ne saresti convinto. Avresti assistito alla partenza coatta di oltre trentamila uomini, montanari, contadini, gente abituata da preti e da poliziotti alla rassegnazione. Eppur tutti fremevano d’odio, tutti partivano lanciando all’Austria la maledizione. L’idea nazionale – non nel senso nazionalista, ma nel senso sano ed equilibrato di difesa di un proprio patrimonio di coltura – e per reazione al Governo austriaco fattosi sempre più feroce e per l’attrazione ed il fascino esercitato dall’incontestato progresso economico d’Italia – ha pervaso tutto e tutti. Certo nel Trentino non v’è un irredentismo che negli ultimi anni abbia pensato a congiure, forme ormai superate. Non c’era, né potea esserci finché si vedeva l’Italia legata alla Triplice, un irredentismo d’azione. Ma oggi  dai campi insanguinati della Galizia e della Bosnia come dalle città e dalle valli e da ogni luogo ove siano trentini si guarda fremendo all’Italia. Un cuore italiano che vive nella fortezza di Franzensfeste, coperto della divisa austriaca, mi scrive oggi eludendo la rigida sorveglianza: ‘Il mezzogiorno non si muove? Venite!’ Ora è il momento in cui l’irredentismo prende forma concreta ed ha ragione di essere. Ora c’è e mette in fuga tutte le paure, le prudenze, gli interessi dei tempi andati. E c’è non in questo o in quel partito. C’è nel cuore di tutto il popolo. Se così non fosse le stesse carceri austriache non ospiterebbero oggi, per la stessa colpa di amor patrio, e il redattore del giornale socialista Martino Zeni e il prete Mario Covi e l’organizzatore dei contadini Vero Sartorelli e non pochi liberali e nazionalisti. Se così non fosse, le città d’Italia, Milano prima fra tutte non ospiterebbero tanti profughi trentini, qui venuti sfidando infiniti pericoli. Vivono essi in trepida attesa ed in fervida fraternità; e son uomini delle più disparate classi sociali, avvocati, professori, contadini, operai, vecchi e giovani, ricchi e poveri, qui venuti nella speranza di tornare presto lassù con le armi in pugno. Per un tacito patto essi sono fino ad oggi vissuti oscuri, modesti, senza far parlare di sè. Io rompo oggi la consegna per gridar con loro la mia protesta, per dire ai fratelli d’Italia: ‘Se l’Italia non può ricordarsi di noi, irredenti, sia. Se l’operare per la nostra redenzione dovesse recarle rovina, noi subiremo ancora il servaggio. Sia tutto questo! Dimenticateci, se volete, ma non dite che noi non vogliamo staccarci dall’Austria. È un’offesa. È una bestemmia. Galleria Fotografica tratta dalla Mostra Cesare Battisti presso il Castello del Buonconsiglio di Trento. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

DE MARTINO: IL PROFESSORE CHE HA ONORATO LA POLITICA

di Luigi Vertemati | Chi ha avuto la fortuna di frequentare Francesco De Martino oltre l’ufficialità ha potuto capire il suo modo di essere contemporaneamente professore, uomo pubblico e leader; in lui si fondevano l’amore per l’insegnamento della storia del diritto romano, l’amore per l’Italia, il desiderio di concorrere a cambiare in meglio il paese con forti e solide istituzioni democratiche. E’ partendo da questo “Professore” che possiamo leggere meglio l’impegno politico di militante, dirigente e leader del Partito Socialista Italiano. Il suo impegno è sempre stato totale anche quando dava l’impressione di essere distaccato, di pensare ad altro; la conferma viene da un curriculum di tutto rispetto che lo ha visto protagonista per decenni della storia d’Italia alla testa dei socialisti italiani. Durante la resistenza si schiera con il Partito D’Azione al quale si era avvicinato per combattere il fascismo, preparandosi a dare un contributo all’Italia del dopoguerra. Le vicende, divisioni del Partito d’Azione comprese, lo portano, insieme a Lombardi e Foa, a scegliere il PSI come “casa” per la nuova democrazia. Sono anni difficili. La scissione di Palazzo Barberini indebolisce in modo decisivo la forza dei socialisti, ma sono anche anni di buone notizie: la vittoria repubblicana nel referendum tra monarchia e repubblica e l’approvazione della Carta Costituzionale. Le basi per una stagione nuova sono state gettate ma l’Italia non sfugge alle regole della “Guerra Fredda”. Lo slancio unitario dell’antifascismo e della resistenza si affievolisce e le divisioni si aggravano. E’ la stagione dello scontro frontale del 1948, la sinistra esce sconfitta anche per l’errore dei socialisti di accettare il Fronte Popolare; responsabile non solo della sconfitta, ma del “sorpasso ” del PCI sul PSI che ha pesato per l’intero mezzo secolo che ci separa da quei giorni. Dopo queste sconfitte Francesco De Martino, con Lombardi, Mancini e tanti altri rafforzano il gruppo dirigente del PSI guidato da Nenni per incominciare il cammino dell’autonomia socialista. Lo dicono le pagine dei dibattiti congressuali socialisti degli anni cinquanta a Milano, Torino e Venezia; esse rappresentano lo sforzo e la fatica dei socialisti tutti, nel quale il gruppo dirigente si impegnano a fondo, per far uscire il paese dal clima di guerra fredda, liberandosi contemporaneamente dagli interessati richiami “unitarie” del PCI di Togliatti. Sono gli anni della rivoluzione democratica ungherese che il PSI sostiene, del “Rapporto Segreto” di Krusciov sul fallimento del comunismo che Nenni e De Martino valorizzano per rafforzare le spinte autonomiste socialista, l’incontro di Pralognan tra Nenni e Saragat, i capi socialisti che nel 1947 non furono capaci di stare insieme. I primi effetti del boom economico richiedono capacità di governo nuove, in grado di garantire i lavoratori e i governi centristi si dimostrano inadeguati ad affrontare le nuove sfide dell’Italia dell’industrializzazione. In quegli anni De Martino diventa braccio destro di Nenni, insieme, preparano il terreno per il centro sinistra che, dopo le elezioni amministrative dell’autunno del 1960, non casualmente, trova la sua prima realizzazione con la giunta di centro sinistra al comune di Milano. La nascita del centro sinistra è operazione difficile. La borghesia industriale rimasta prevalentemente codina è contro, una buona parte della chiesa pone ostacoli, il quadro internazionale non è favorevole; ma le esigenze dell’Italia lo richiedono e, nonostante tante iniziative pericolosamente messe in campo contro, penso al governo Tambroni, nel 1963 nasce il primo governo di centro sinistra. L’operazione politica socialista iniziatasi nella seconda metà degli anni cinquanta ha successo, è il risultato frutto del lavoro della maggioranza del PSI guidata da Nenni, con De Martino vice segretario. Dopo il messaggio di Nenni vice presidente del Consiglio: “Da oggi siamo più liberi”, l’impegno politico dei socialisti si estende. Bisogna reggere l’opposizione interna di coloro che, di li ad un anno, organizzeranno la scissione del PSIUP, poi confluito nel PCI a conferma di accordi preventivi. Le responsabilità di governo impegnano il partito in un confronto sempre più serrato con le varie realtà civili, economiche e sociali che vedono nel centro sinistra l’opportunità per l’Italia di entrare nel novero delle democrazie solide, con un’economia forte e uno stato sociale di garanzia per i lavoratori. E’ una delle stagioni più importanti e produttive per la qualità del confronto politico e civile che investe tutto il paese e il PSI ne è il motore. La guida del partito in quei primi anni di governo caricano sul segretario De Martino responsabilità grandi e il “Professore” regge bene; guida il partito in mezzo a tante opportunità ma anche a moltissime difficoltà. Siamo alle riforme del centro sinistra in tutti i settori dalla sanità allo statuto dei lavoratori, dalla riforma della scuola all’istituzione delle regioni, dalla corte costituzionale alla legge sul referendum; tutte conquiste, insieme ad altre, che hanno cambiato l’Italia, la vita di milioni di uomini e donne “dalla culla alla tomba”. I nemici non sono mancati dentro e fuori il parlamento. Penso alle stragi, alla brigate rosse, ai conservatori annidati nei più diversi settori della vita pubblica e nel “privato arretrato”, ma il PSI ha sempre retto lo scontro assumendosi in tutti i casi le proprie responsabilità. Una pagina amara, non solo per De Martino, è quella dell’unificazione socialista e della scissione: 1966/1969. In poco più di due anni la speranza di unità viene sconfitta e i socialisti italiani, ancora una volta, dimostrano poca capacità a stare insieme rinunciando a percorrere il cammino di quell’unità socialista che Turati considerava strada obbligata anche per gli scissionisti del 1921. De Martino lascia la segreteria del partito quando è chiamato alla vice presidenza del consiglio; sono anni molto difficili per lo scatenarsi del terrorismo stragista. Al governo De Martino non si trovò sempre a suo agio, non era “gestore del potere”; ciononostante seppe svolgerlo con autorevolezza. Il ritorno di De Martino alla guida del partito avviene nel congresso di Genova del 1972 per l’ottantesimo della fondazione del partito. Il risultato congressuale consegna la maggioranza all’alleanza tra i demartiniani e gli autonomista guidata da Craxi. Alla segreteria è rieletto De Martino con vice segretari due milanesi: Giovanni Mosca e Bettino Craxi. Inizia …

PIU’ DI 100 ANNI DEL SOCIALISTA GIACOMO MANCINI

Nella Foto da sinistra Giacomo Mancini con Vincenzo Balzamo Fu socialista. Ma sarebbe più giusto essere precisi e dire che, almeno fino a quando si occupò in prima persona di politica e del partito, fu socialista autonomista, nenniano, come si diceva un tempo e come si poteva essere nenniani nel Mezzogiorno e in Calabria. Alla Camera entrò nel ’48, 26 mila voti di preferenza tra la sua gente, eletto nelle liste del Fronte Popolare: ci resterà per nove legislature. Giorgio Napolitano, che come Paolo Bufalini, Gerardo Chiaromonte, Emanuele Macaluso, Rosario Villari lo conobbe negli anni delle lotte meridionaliste, ricorda Mancini come un autonomista sempre fiero delle proprie ragioni, e ostinato nel difenderle, che non fu mai, però, anticomunista. Si tratta, crediamo, di un giudizio onesto, per quel tempo e anche per le stagioni successive al 1956, quando, all’indomani della feroce repressione sovietica della rivoluzione ungherese le strade dei socialisti e dei comunisti si separarono, e Mancini fu chiamato da Nenni a occuparsi di un’organizzazione, quella del Psi, che non voleva essere più vassalla della ben più potente organizzazione di Botteghe Oscure. Fu socialista. Autonomista, nenniano, uomo di governo nel centro-sinistra, ministro nei governi Moro e nei governi Rumor. Da ministro della Sanità impose l’introduzione del vaccino antipolio Sabin, alla faccia delle resistenze burocratiche e degli interessi economici consolidati. Da ministro dei Lavori pubblici fu severo verso gli speculatori, come all’epoca proprio non usava, dopo la frana di Agrigento. Sbagliò anche, tantissimo, come testimonia il disastro del quinto centro siderurgico nella sua Calabria. Fu socialista. E quindi, ovviamente, antifascista: nel ’44, a Roma, era nell’organizzazione militare clandestina della Resistenza. Della destra missina fu uno dei bersagli prediletti. Quando il Candido di Giorgio Pisanò funse da capofila nella campagna sullo scandalo Anas. Ma anche, e molto più, una decina di anni dopo, quando Reggio Calabria quasi insorse con i «boia chi molla» di Ciccio Franco, contro Catanzaro diventata capoluogo regionale, contro Roma, contro Mancini e quello che già allora si chiamava il «mancinismo», un’idea e una pratica spregiudicate, cioè, della politica, nel tentativo di far fronte alla Dc sul suo stesso terreno. E anche in materie a dir poco delicate, come l’industria di Stato, e i servizi. Fu socialista. Autonomista, nenniano, riformista. Si battè per l’unificazione tra Psi e Psdi, ma quando questa rapidamente fallì non arrestò la sua corsa e, nel 1970, divenne segretario del partito. Durò solo un paio di anni, ma furono anni importanti. Qualcuno, più tardi, vi scorse anche una premessa, un’anticipazione della stagione di Craxi, una sorta di variante meridionale di quella politica di collaborazione sì, ma anche di competizione a muso duro con la Dc che Bettino avrebbe condotto in stile milanese. Di certo Mancini non apprezzò affatto la linea del suo successore, Francesco De Martino, di cui pure era personalmente amico: né la teoria degli «equilibri più avanzati» né, tanto meno, l’idea che il compito dei socialisti fosse essenzialmente quello di favorire l’imminente compimento dell’evoluzione del Pci. Altrettanto certamente fu lui, nel luglio del ’76, a pilotare il Comitato centrale del Midas, che dopo la sconfitta elettorale aveva defenestrato De Martino, verso l’elezione di Craxi: un po’ perché quel suo vicesegretario che conosceva così poco non gli dispiaceva, molto perché pensava che, debole come all’epoca Craxi era, sarebbe stato facile guidarlo da padre nobile. Un altro errore, in tutta evidenza. Scontato con una rapida emarginazione nel partito. Fu socialista. Autonomista, nenniano. E garantista, come a un socialista si conviene. Si battè sempre in primissima linea per i diritti civili: a cominciare dalla battaglia per il divorzio. Negli anni di piombo non si associò al fronte della fermezza contro il terrorismo, e gli furono rimproverate, in specie dai comunisti, debolezze e simpatie personali verso esponenti di primo piano dell’Autonomia. La sinistra extraparlamentare gli era lontana mille miglia: ma per libertarismo e anche per calcolo politico non le sbatté mai la porta in faccia. Fu socialista. E calabrese. E cosentino. Può darsi, come pensano in molti, che questo sia stato il suo limite più forte. Ma lui lo ha vissuto come un suo tratto distintivo, e un suo merito. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

CARTE INEDITE DAGLI ARCHIVI DI BUFALINI: COSÌ ALL’XI CONGRESSO DEL PCI, NEL 1966, NACQUE E MORÌ L’IDEA DI UNA FORMAZIONE UNICA CON I SOCIALISTI

di Pierluigi Battista Il partito mai nato Altri tempi, certo. Altro linguaggio, altro stile, altra severità. Tempi di ferro, anche. Tempi in cui il dissenso era scoraggiato e imbrigliato, la linea doveva essere e apparire monolitica, e la disciplina di partito faceva premio sulla libera e «sregolata» articolazione delle idee. Il materiale era custodito da Paolo Bufalini, e la rivista Le ragioni del socialismo diretta da Emanuele Macaluso presentò in un convegno dedicato alla figura del grande dirigente comunista poi scomparso. Documenta un frammento molto importante nella storia della sinistra italiana ed è testimonianza di un nodo tuttora irrisolto della sua identità. Documenta un punto cruciale di svolta, situato nel biennio `65-´66, nella vicenda del Pci e testimonia ancora una volta la centralità della «questione socialista» nella fisionomia politica e culturale della sinistra. Il materiale contenuto nell´archivio Bufalini si riferisce al dibattito serrato apertosi nel Pci nella prospettiva dell´XI congresso del partito. Il primo congresso del dopo-Togliatti. Con il centrosinistra già avviato, che aveva sancito la rottura tra socialisti e comunisti. E con la prospettiva della riunificazione (destinata, peraltro, a vita effimera) tra i socialisti di Pietro Nenni e i socialdemocratici di Giuseppe Saragat. Il Pci, come ebbe modo di spiegare minuziosamente lo stesso Bufalini in un lungo articolo pubblicato dal Ponte nel 1992, veniva messo di fronte a un bivio. Nel novembre del `64 Giorgio Amendola, rispondendo a una lettera aperta di Norberto Bobbio in cui veniva severamente criticato il metodo con cui era stato destituito Krusciov, lanciò l´idea del «grande partito nuovo della classe operaia»: una formula che stava inequivocabilmente a significare la possibilità di riunire le forze separate dalla scissione di Livorno. Naturalmente la proposta amendoliana non nascondeva affatto un «cedimento» politico e culturale dei comunisti nei confronti delle ragioni dei socialisti. Anzi, essa veniva motivata dalla convinzione, che oggi appare inevitabilmente datata, secondo cui «nessuna delle due soluzioni prospettate alla classe operaia dei paesi capitalistici dell´Europa occidentale negli ultimi 50 anni, la soluzione social-democratica e la soluzione comunista, si è rivelata fino a ora valida al fine di realizzare una trasformazione socialista della società». Ma la semplice prospettiva di «partito unico» della sinistra italiana ebbe l´effetto di un terremoto nel partito orfano di Palmiro Togliatti. Bufalini racconta l´opposizione di Mario Alicata e soprattutto della «sinistra» interna guidata da Pietro Ingrao. Ma il segretario Luigi Longo incaricò proprio Bufalini di redigere un documento per motivare, racconta il protagonista, «una nostra proposta per l´unità socialista». Altri tempi. Altre liturgie. Altri liguaggi. Bufalini scrisse un corposo documento, quello oggi riproposto da Le ragioni del socialismo, di ben 57 pagine. Ma «il mio vecchio amico Ingrao con affettuosa cortesia manifestò insoddisfazione e dubbi profondi» su quel testo. A Ingrao venne perciò chiesto di rivederlo e di modificarlo. Ma il leader della sinistra interna non si accontentò di varianti minime e la sua revisione si concretizzò nella riscrittura delle prime 35 cartelle del documento in cui l’ipotesi amendoliana del «partito unico» della sinistra veniva radicalmente ridimensionata e rimessa in discussione. In un partito abituato a soppesare ogni parola, a limare con prudenza curiale ogni formula, quella drastica riscrittura non poteva che essere emblema di un dissenso radicale, destinato a manifestarsi nel corso dell´XI congresso del Pci nel `66 dominato dalla contrapposizione tra Amendola e Ingrao. Il seguito della storia fu tormentato e pieno di ostacoli. Una commissione composta da Longo, Amendola, Enrico Berlinguer, Ingrao, Bufalini, Rossanda, Secchia, Li Causi e Gerratana venne incaricata di redigere un nuovo documento sull´«unificazione socialista». Ma «emersero divergenze sostanziali», con «l´opposizione di sinistra» (Ingrao, Rossanda, Secchia, Gerratana) convinta che «l´unità dovesse perseguirsi tra forze rigorosamente e coerentemente classiste e marxiste». «Nelle votazioni Longo, Berlinguer e Bufalini venivano spesso messi in minoranza» racconta Bufalini, e ne risultò un documento «per tanti aspetti giusto e pregevole, ma per altri compromissorio e incerto e nel quale l´incisività di Longo non c´era più». Altri tempi, perché Bufalini non avrebbe voluto presentare un testo troppo diverso dalla «svolta» che avrebbe dovuto annunciare: «ma allora nel Pci non si usava comportarsi così. Perciò seguii la risoluzione della maggioranza e presentai io il nuovo documento, che d´altra parte riproduceva posizioni unitarie. Vi furono un certo numero di voti contrari “da sinistra”. “Da destra” (si fa per dire) per le mie stesse riserve sopra accennate, votò contro Gerardo Chiaromonte». L´ipotesi amendoliana di un «partito unico della sinistra» che comprendesse comunisti e socialisti venne di fatto svuotata e nell´XI congresso del 1966 lo scontro verrà sterilizzato e ricomposto con un esito immancabilmente (per i tempi) «unitario». Resta la testimonianza di una contrapposizione molto dura e di cui le due versioni del documento scritto da Bufalini e «corretto» da Ingrao (le cui rispettive parti dedicate al «partito unico» della sinistra vengono qui parzialmente riprodotte a mo´ di confronto) sono il segno più significativo. Resta la percezione di un´occasione perduta e del rifiuto di una svolta che avrebbe costretto i due partiti maggiori della sinistra italiana ad accelerare un chiarimento culturale e politico che si riproporrà drammaticamente solo molti anni più tardi, con le macerie del muro di Berlino e soltanto quando il terremoto giudiziario destinato a travolgere la politica italiana altererà per sempre il confronto tra i socialisti e gli ex comunisti e dopo anni di «duello a sinistra» senza esclusione di colpi in cui l´idea dell´«unità socialista» non riuscirà a decollare. Per colpa di inerzie e radicalismi ideologici che Paolo Bufalini aveva sempre contrastato. Pubblichiamo il passaggio sul problema dell’unità con i socialisti del documento del 1965 di Paolo Bufalini. E, dopo, le correzioni proposte da Pietro Ingrao. IL DOCUMENTO PER L´UNIFICAZIONE Ogni forza porta in questo grande orientamento contenuti particolari in relazione alle diverse posizioni e tradizioni di classe, politiche e ideali. E in tale differenza non vi è solo una difficoltà nuova e profonda per realizzare l´unità, ma vi è anche una nuova ricchezza di contributi positivi. Questa differenziazione è, comunque, la conseguenza e l´espressione di una avanzata, di una estensione del socialismo e come tale deve essere da noi, prima di …

UN RICORDO DI EGIDIO MENEGHETTI

Nella foto a destra Egidio Meneghetti di Giampaolo Mercanzin | “Mi fa particolarmente piacere constatare che la figura di Egidio Meneghetti è ancora vivida nei nostri ricordi. Il fatto che quest’oggi se ne parli con relatori di prestigio, significa che il suo nome e la sua opera mai sono state dimenticate. Ringrazio quindi l’ass. Colasio ed promotori per averne portato il ricordo in questa sala. Egidio Memeghetti fu veramente un gigante del socialismo, della libertà e dell’antifascismo, oltre ad essere un valente scienziato, ricercatore e docente universitario.  Quello che di lui mi ha attratto ed impressionato è che “mai ha mollato’ dagli anni ’20 del secolo scorso fino alla sua morte nel 1961.  Il testamento da lui lasciato è la conferma di quanto egli fosse grande. Ha difatti istituito la fondazione “Lina Meneghetti” sua figlia, che come ben sappiamo perì, con la mamma Maria e la colf, sotto un “bombardamento amico” in quel di via Tiziano Minio nel dicembre del 1943.  La fondazione si basava soprattutto sull’affitto di una proprietà, che consentiva di mantenere 36 studentesse all’Università di Padova, fondazione curata, a mia memoria, dalla sig.ra Pasquato vice rag. capo dell’Università di Padova. Non ho più capito dove sia confluita quella fondazione. Certamente oggi 36 studentese non godranno di tale beneficio. Non solo questo fece, ma lasciò al suo partito una considerevole cifra che lo scissionista Ceravolo nel 1964 si portò illegalmente in dote quando con Vecchietti e Valori fu fondato il PSIUP. Di Lui parla a cuore aperto Norberto Bobbio nella commemorazione svolta il 25 luglio 1985, in aula magna del Bo all’epoca dell’eclettico Rettore Marcello Cresti, a quarant’anni di distanza dal Suo rettorato. “Un uomo possente come una torre ferma che non crolla”. Bobbio ricorda la facilità poetica e letteraria del personaggio, osservatore attento della realtà, i suoi scritti, le sue publicazioni, le sue poesie. Il fatto che oggi rappresentanti siamo qui per conservarne l’archivio, è quindi una cosa molto importante. La sua esperienza che ci porta al 1914 con l’espulsione dell’on. Bissolati dal partito socialista da parte di Mussolini, emissario di Lazzari, contrari – ironia della sorte – all’intervento nella 1^ guerra mondiale dell’Italia, dove lui fu giovane ufficiale. A quell’epoca Meneghetti era un seguace appunto di Bissolati ed iscritto al Partito Socialista. Nel 1926, dopo ripetute provocazioni fasciste, lascia Padova ed emigra prima all’Università di Camerino e poi da questa a Palermo, dove il Rettore si duole di perdere un uomo del suo valore e rigore scientifico.  Ritorna nel 1933 e conduce una opposizione al fascismo pur essendo costretto ad iscriversi al PNF coordinando con Silvio Trentin (padre del sindacalista), come lui giovane socialista veneziano di S. Donà di Piave (era docente a Pisa, dove si era laureato), suo grande amico fin dagli anni universitari un folto gruppo di cittadini e di intellettuali che lo seguiranno fino alla Liberazione (qualcuno purtroppo anche lo tradì). All’epoca aveva quindi aderito a Giustizia e Libertà fondato da Carlo Rosselli esule in Francia. Ritornerà dopo il referendum del 2 giugno 1946, nel Partito Socialista. Non so come sarà interpretato, ma bisogna pur dire che credeva in un’europa federata e nell’autonomia regionale come Silvio Trentin sulla scorta del disegno di Carlo Cattaneo. Durante la Resistenza oltre a loro c’erano molti docenti universitari (Ezio Franceschini e Lanfranco Zancan ad esempio) Otello Pighin, il tipografo “geppetto” (Zanocco) editore di Pinocchio (le confidenze di Hitler) ed altre categorie. Ho i brividi quando racconto ciò, perché ho il ricordo di mio padre, richiamato e mandato in Albania e Montenegro dove, catturato agli inizi di febbraio 1942, fu seviziato ed ucciso dalle bande partigiane. Il corpo – recuperato grazie alla targhetta – è seppellito nel Cimitero dei Caduti d’oltremare a Bari (ma vive nel ricordo anche nelle lapidi di Caselle di Selvazzano e Padova). Io avevo un anno e mezzo. Personalmente sono stato veramente impressionato dalla Sua forza di volontà. Dalla perdita della famiglia – dicembre 1943 – praticamente appena fondato i Comitato veneto di liberazione alla sua cattura da parte della banda Carità, nel gennaio del 1945, dalla quale riesce a ricavare anche atti di bontà quale ad esempio quella del barbiere della stessa. Egli difatti analizza i suoi carcerieri uno per uno, attribuendo a ciascuno “pregi e difetti”. Era prorettore di Concetto Marchesi, che era riuscito a riparare prima a Milano e poi in Svizzera. “Carità stesso mi strinse le manette ai polsi procurandomi un forte rigonfiamento per la mancata circolazione del sangue, durata per quindici giorni”. Lì riesce a scrivere la lirica “la Partighana Nuda” di cui abbiamo appena sentito una pregevole lettura. Nel 1945 sotto la Repubblica di Salò – dall’altra parte c’era il Governo Badoglio – ma praticamente sotto occupazione tedesca, viene trasferito a Verona dove viene schetato e spedito al LAGHER di Bolzano per essere trasferito in Germania. Fortunatamente i continui bombardamenti anglo-americani danneggiano i binari e quindi egli rimane in quel lagher praticamente fino alla liberazione. E’ lì che vede gli orrori dei carcerieri Miscia e Oto, ucraini, che prima uccidono un ragazzo di nome Bortolo Pezzuti (“il giorno di Pasqua; Pasqua di resurrezione“), poi seviziano un’ebrea di cui non sa il nome “l’Ebreeta” che si lascierà morire di fame (“stanote xe morta l’Ebreeta”); che forza riportare queste torture. Egli stesso viene ferito ad un occhio, che rischierà di perdere per aver tentato una reazione verso i carcerieri. Dai documenti emersi tramite l’ANPI di Bolzano si possono ricavare gli atti del processo ai due ucraini Michail Seiffert ed Otto Sains (Miscia e Oto), criminali patentati. Rientra subito nel ’45 e viene eletto Rettore fino al 1947. Va detto, chiosando, che nel 1942, nonostante egli non avesse aderito all’imposizione di Mussolini (diversamente da Marchesi) venne proposto dal Rettore ANTI chiaramente fascista, come nuovo Rettore. Tanta era la stima per la sua rettitudine, la sua cultura e tanto il prestigio a livello nazionale ed internazionale.  Fu Lui a ricevere da Parri all’epoca pres. del Consiglio, la medaglia al valore all’Università di Padova, unica in Italia ad ottenere questo prestigioso riconoscimento. …

AGOSTO 1943 – CARABINIERE “SBANDATO”, UNITO AI PARTIGIANI

Il Brigadiere dei Carabinieri Vincenzo Profera di Italo Profera | A mio padre Vincenzo, in occasione di una sua azione in favore di 40 partigiani. Pro Leopoldo Gasparotto Voglio ricordare brevemente un episodio sul comportamento da me avuto durante la resistenza. Lungi da me l’idea di essere considerato un eroe ma, è cosa certa che, se il mio operato fosse stato scoperto, sarei stato passato per le armi.Un giorno due signori elegantemente vestiti si sono presentati nell’ufficio dell’aiutante maggiore, capitano Taddei. Erano due informatori. Riferivano di essere a conoscenza che nella villa di un tale Gasparotto, ogni sabato, notte tempo, erano soliti riunirsi partigiani, il comandante dei quali si chiamava Poldo Gasparotto. Per quanto esposto, pretesero si ordinasse un servizio di rastrellamento a sorpresa. Il capitano Taddei, ricevuto l’elenco nominativo dei partigiani, lo passò al mio capo ufficio, M.M. Barbieri, e questi a me ordinandomi di batterne due copie. Ne battei tre. Una la infilai in tasca.Chiesi al maresciallo di uscire per prendere un caffè. Il “vecchio maresciallo” capì e mi avvertì: “Vai. Stai attento! Una volta scoperto sarai fucilato. Con i tedeschi non si scherza”. Al che risposi: “Io sono uno. Loro sono quaranta. Arrivederla”. Consegnai ad una persona fidata la copia della lettera. Questa giunse nel luogo di destinazione. I partigiani si salvarono passando in Svizzera. Testimoni di questo episodio sono il capitano Carruba e il nostro concittadino Vincenzo Falcetta, comandante dei partigiani della Pasubio e intimo amico di Poldo Gasparotto. I nazifascisti, non avendoli trovati nella villa Gasparotto, bruciarono l’edificio e distrussero la piantagione.Tre giorni prima della fine della guerra i partigiani, dai monti nevosi scesero in città per combattere l’invasore. Il comandante Poldo Gasparotto, in seguito, fu catturato e ucciso. Appresi della sua fine a mezzo radio clandestina. Finita la guerra, il padre di Poldo Gasparotto fu nominato Ministro della Postbellica. Venuto a conoscenza della mia temeraria azione che permise a suo figlio e a quaranta partigiani di salvare la pelle in quella occasione, volle incontrarmi per esprimermi la sua riconoscenza. Vincenzo Profera SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

QUEI 31 RAGAZZI DI BASSANO DEL GRAPPA

di Italo Profera | Mi è difficile trattare l’argomento senza coinvolgimento emotivo. Forse, a distanza di 74 anni, non ho ancora elaborato. Difficile elaborare episodi vissuti, chissà poi se vissuti personalmente, o assorbiti nel grembo materno della mamma. Sono nato il 7 gennaio 1945, i miei genitori erano siciliani emigrati a Milano dove, mio papà, aveva lavoro. Brigadiere dei carabinieri nella caserma di via della Moscova. Abitavamo quindi a Milano, in Piazza Insubria n° 1. In seguito ai bombardamenti del 18 agosto 1943, i miei genitori, stanchi di svegliarsi con l’allarme della contraerea e correre nei rifugi, più volte a notte, con una bambina, mia sorella, sfollarono da Milano e finirono a Brembio (LO). Mio padre non aderì alla Repubblica di Salò. Decise di aiutare i partigiani! Divenne quindi un carabiniere sbandato cui, fascisti e nazisti davano la caccia. Volendo dare una compagnia a mia sorella, visto che la guerra non finiva e mia mamma aveva già 40 anni, decisero di mettermi al mondo nonostante tutto, in piena guerra. Quindi mia mamma si trovò, da sola a Brembio con una bambina di 5 anni e uno in grembo. Mio padre non si sapeva dove fosse. Nel 1944 mia mamma decise di andare a Semonzo del Grappa sia perché la sorella maggiore ivi insegnava e viveva, sia perché aveva sentito, ascoltando radio Londra, che si sarebbe formato un treno a Verona che, via Adriatica, avrebbe raggiunto la Sicilia. Ho voluto spiegare perché mia mamma, il giorno in cui quei ragazzi furono impiccati, si trovasse a Bassano. Quel giorno mia madre, al sesto mese di gravidanza con me in grembo, su una bicicletta da uomo, Bianchi 28, da Semonzo andò a Bassano per procurare medicine. In viale de Martiri, (oggi viale dei Martiri, allora la toponomastica era diversa), si accorse cosa stava accadendo. Vide il camion! I repubblichini, i nazisti, i poveri ragazzi. Tra i repubblichini riconobbe un compaesano (come è piccolo il mondo!). Un fascista di un paesino del trapanese che aveva aderito alla repubblica di Salò ed era lì a mettere il cappio al collo di quei ragazzini. Riconobbe un ragazzino sul camion, pronto all’impiccagione. Quel ragazzo lo conosceva. Forse era di Semonzo. Forse di un paesino vicino Semonzo. Non aveva 18 anni.  Era impietrita. Sentì delle grida. Era il fratello di quel ragazzo che stavano impiccando. Piangeva disperato. I fascisti se ne accorsero ed uno gridò: “E’ tuo fratello! Bene! Anche tu. Allo stesso albero”. Lo presero e lo impiccarono allo stesso albero. Accadeva in settembre 1944. Io nacqui il 7 gennaio 1945. Non ho visto nulla. Sono convinto di aver vissuto quelle esperienze assorbendo e vivendo le esperienze di mia mamma. Di averle succhiate col sangue. Di averle sentite più volte dai suoi racconti. Mi è difficile capire come, persone delle istituzioni, oggi possano snobbare la festa della liberazione. Mi è difficile capire. Non temo nulla. Non ho paura. Il vissuto dei miei genitori mi dà forza. Hanno avuto amore, coraggio, capacità di far fronte ad eventi estremi. Dovesse evolversi nel peggiore dei modi la situazione odierna, percorrerei gli stessi sentieri tracciati da mio padre. Saprei dove andare. Saprei da quale parte stare. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

GRAMSCI E MATTEOTTI PER UNA SINISTRA DI ANTIFASCISMO MILITANTE

di Franco Astengo | Questa nota mi è stata dettata quasi d’impulso dalla notizia dell’imbrattamento della stele, inaugurata lo scorso 15 aprile, davanti a quella che fu la sede dell’Avanti! in via Visconti di Modrone a Milano per ricordare l’assalto subito dal quotidiano socialista il 15 aprile del 1919. Ha colpito soprattutto che i fascisti di oggi abbiano usato lo stesso slogan di cento anni fa scrivendo “l’Avanti! non c’è più”. Ho così pensato di riprendere un tema, quella della chiaroveggenza antifascista dimostrata dei due martiri Matteotti e Gramsci. Un tema, quello del pensiero di Gramsci e Matteotti, sul quale con il compagno Felice Besostri qualche tempo fa avevamo pensato di realizzare un incontro di riflessione funzionale all’avvio di un processo ricostruttivo della soggettività politica della sinistra italiana. Mi permetto allora di riproporre quel testo denunciando con forza la necessità di riprendere il tema dell’antifascismo militante che deve risultare intrinseco a quello più generale della ricostruzione della sinistra. Perché si proceda in questa direzione si evidenziano due grandi ragioni: 1)     Ciò che sta accadendo nel sistema politico italiano ed europeo, ben oltre le situazioni di governo. Verifichiamo nei fatti uno spostamento a destra dal chiaro significato razzistico, individualistico, nazionalista; 2)      A questo quadro generale corrisponde ancora, in Italia, una vera e propria escalation di provocazioni grandi e piccole che, in particolare, hanno accompagnato la celebrazione del 25 aprile. Per diverse ragioni la più grave, a mio giudizio, rimane quella compiuta a Milano con l’esposizione di uno striscione inneggiante a Mussolini nei pressi di piazzale Loreto, ma sarebbero tanti gli episodi da elencare. Emergono complicità e ipocrisie da parte del mondo politico. Complicità e ipocrisie che altro non rappresentano che il frutto delle tante e delle troppe concessioni fatte non tanto sul piano storico, ma su quello morale e sui cedimenti avvenuti nella definizione dei principi fondativi non solo della nostra Repubblica ma della stessa convivenza civile a partire dal mutamento di segno del concetto aberrante di razzismo. Il quadro generale è quello di un sistema politico estremamente fragile, di una struttura dello stato che non regge, di un governo basato su di una logica da “voto di scambio” esercitato a livello di massa e su di una società che non riesca a esprimere nulla di più di un corporativismo diffuso e di un “individualismo della paura”. Con grandi pericoli per la democrazia repubblicana. Sono questi i motivi che mi hanno indotto a riproporre i tratti comuni del pensiero anticipatore di Gramsci e Matteotti sul terreno dell’antifascismo. Il testo che segue si propone quale semplice esempio di una base di riflessione per procedere a un’iniziativa che, sulla base di una ripresa dell’antifascismo militante e della piana riaffermazione della Costituzione Repubblicana ,risulti anche utile a verificare tutti gli elementi praticabili per ridefinire un perimetro politico di una sinistra adeguata alle complesse necessità dell’oggi ma posta nel solco delle parti migliori del pensiero espresso dal movimento operaio italiano nel corso del tempo. Cerco di indicare a questo punto perché, a mio giudizio, Gramsci e Matteotti possono rappresentare il pensiero di base per recuperare una capacità concreta di antifascismo militante: “Gramsci in un’analisi molto approfondita perché delineata in una prospettiva storica molto ampia (cfr. “Le origini del fascismo” V edizione Editori Riuniti 1971) rintracciava le radici della reazione in questo modo : “Il terrorismo vuol passare dal campo privato a quello pubblico, non si accontenta dell’immunità concessagli dallo Stato. Vuole diventare lo Stato. La reazione è diventata forte al punto che non ritiene più utile ai suoi fini la maschera di uno Stato legale ma intende servirsi di tutti i mezzi dello Stato”. Così stando le cose si comprende come si dovesse proprio a Giolitti la decisione di quelle elezioni anticipate del 1921 nell’occasione delle quali si realizzò quell’alleanza tra liberali e fascisti che doveva aprire a Mussolini e ai suoi (35 eletti) non solo e non tanto le porte del Parlamento, quanto soprattutto la collaborazione attiva e passiva sempre più accentuata da parte dei più importanti esponenti di tutti i gangli dell’alta burocrazia statale (esercito, polizia, magistratura, prefetti) e della vecchia classe dirigente che le elezioni del 1919, svoltesi con la formula proporzionale, avevano spodestato dalla tradizionale posizione egemonica. Se già nel gennaio del 1921 (tre anni prima del suo ultimo fatale discorso) Matteotti poteva denunciare, in un suo intervento alla Camera, una così impressionante serie di sopraffazioni e di violenze fasciste perpetrate con la connivenza degli organi che avrebbero dovuto essere preposti all’ordine pubblico, tanto più ciò doveva avvenire dopo che lo stesso presidente del consiglio Giolitti e con lui l’intero governo, avevano dato il segno dell’orientamento politico filofascista attraverso quell’alleanza elettorale. Da allora lo squadrismo fascista non trovò più ostacolo consistente da parte delle cosiddette “forze dell’ordine”; da allora i capi del liberalismo e della democrazia “statutaria” non ebbero più né la forza né l’intenzione di opporre al fascismo una resistenza valida ed efficace. Di fatto, attraverso tali complicità e appoggi la via del potere fu aperta al fascismo, mentre da parte delle organizzazioni proletarie si tentava, esaurita la spinta rivoluzionaria, una difesa disperata. Le ragioni di tali complicità e appoggi risiedevano proprio nei motivi della divisione di classe che erano alla base della lotta tra fascisti e socialisti e che non sfuggivano fin dal 1920 – 21 né a Gramsci né a Matteotti. E’ questo un punto fermo nella storia del fascismo e dell’antifascismo che non bisogna perdere di vista, perché costituisce ancor oggi una bussola di orientamento non soltanto sul piano storico. Queste le parole di Matteotti ben prima della Marcia su Roma “La classe che detiene il privilegio politico, la classe che detiene il privilegio economico, la classe che ha con sé la magistratura, la polizia, il governo, l’esercito, ritiene sia giunto il momento in cui essa, per difendere il suo privilegio, esca dalla legalità e si arma contro il proletariato”. Gramsci, a quel punto, poteva a buon diritto sostenere che “solo la classe operaia non è responsabile all’interno delle condizioni in cui è stata piombata la …