1929, NOVANT’ANNI FA: IL PLEBISCITO FASCISTA

di Franco Astengo | Vinte le elezioni del 1924 grazie alla legge maggioritaria “Acerbo” e alle violenze squadriste, assunte le vesti di una vera e propria dittatura dopo il delitto Matteotti, costituito il Tribunale Speciale, il fascismo modificò in senso plebiscitario il sistema elettorale chiamando gli italiani alle urne il 24 marzo 1929. Il progetto della nuova legge elettorale, preparato da Alfredo Rocco, rimarcò a chiare lettere la negazione, da parte della dottrina fascista, del dogma della “sovranità popolare”, affermando al suo posto quella della “sovranità dello Stato” e dell’identificazione diretta dello Stato in un solo Partito, in conseguenza di sua natura totalitario. Secondo questo principio i deputati diventarono meri organi dello stato emanazione di un partito e non rappresentanti del corpo elettorale. Si pose quindi fine a quelli che Mussolini definì in Parlamento come “ludi cartacei” e si ratificò un progetto che pose la scelta dei futuri deputati nelle mani di due organi: la prima selezione a opera delle organizzazioni sindacali intese come scheletro dello stato fascista corporativo e da parte del Gran Consiglio del Fascismo, cui fu demandato il compito di compilare la lista dei 400 nomi da sottoporre al corpo elettorale affinché esso esprimesse il proprio consenso.  La legge era basata sul suffragio universale maschile, già previsto sin dal 1912. Il diritto di voto per i soli cittadini maschi era però subordinato al rientrare in una delle seguenti categorie: ·         A coloro che pagavano un contributo sindacale o erano soci di una società o ente che pagasse tale contributo, oppure da almeno un anno possedessero azioni nominative di società in accomandita per azioni o di società anonime ·         B coloro che pagavano almeno 100 lire d’imposte dirette allo Stato, alle province o ai comuni ·         C coloro che percepivano uno stipendio, un salario o una pensione a carico dello Stato ·         D membri del clero cattolico o di altro culto ammesso dallo Stato Nel complesso risultarono iscritti nelle liste elettorali 9.638.859 cittadini rispetto ai 12.069.336 del 1924. Il 24 marzo 1929 furono così aperti i seggi per l’elezione della nuova Camera dei Deputati. La partecipazione al voto risultò altissima con l’89,86%, ben superiore a quella del 63,1 del 1924. In molte parti del Paese i fascisti incolonnarono gli elettori e li scortarono militarmente al seggio facendoli votare collettivamente con la deposizione della scheda del “SI” nelle urne. Infatti le due schede, del “SI” e del “NO” dovevano essere ritirate preventivamente all’ingresso del seggio consentendo così l’identificazione del voto. In queste condizioni il “SI” ottenne 8.517.838 voti pari al 98,34% dei voti validi. Ci furono 8.209 voti nulli pari allo 0,09%. I “NO” furono 135.773 pari all’1,57%, L’Italia era costretta in un regime dittatoriale ormai da quattro anni, i componenti dei gruppi dirigenti antifascisti erano stati assassinati, messi in galera, costretti all’esilio: ciò nonostante 135.773 elettori , da considerare veri e propri “eroi della democrazia”,trovarono il coraggio di rendere palese (visto il sistema di voto) il loro rifiuto non tanto del listone ma del regime, con grande rischio personale. Si trattò di un gesto di estrema coerenza morale e politica, agito in condizioni di difficoltà estrema. Un gesto del quale ci si è ormai dimenticati e che, invece, è ancora proprio il caso di esaltare. La composizione di quel “NO” dal punto di vista geografico e politico ci svela molte cose sull’origine di quel rifiuto. Oltre a una consistente opposizione di natura etnica, i tedeschi in Alto Adige e gli sloveni in Istria e in Venezia Giulia, la gran parte dei voti contrari si concentrò nel “triangolo industriale”, tra Lombardia, Piemonte e Liguria. Le regioni delle grandi fabbriche meccaniche, metallurgiche , elettromeccaniche e chimiche fornirono infatti 69.226 voti al fronte del “NO”, pari al 50.98% del totale. Oltre il 2% dei voti contrari si ebbero soltanto nelle regioni del Nord, mentre al Centro si superò l’1% soltanto in Toscana e in Umbria. Al Sud e nelle Isole (dove il fenomeno dell’incolonnamento degli elettori risultò generalizzato) si registrano complessivamente: 5.416 “NO” pari al 4% del totale. In tutta la Basilicata si registrarono 10 voti contrari e in Calabria 74. Dal punto di vista della consistenza del NO dal punto di vista della collocazione geografica lo schema di riferimento fu comunque quello già osservato con le elezioni del 1924. In quell’occasione le liste di opposizione alla lista fascista, suddivise in 11 formazioni politiche, ottennero complessivamente il 35,1% dei voti ed egualmente nel triangolo industriale Genova – Milano – Torino il fascismo ebbe il minimo dei consensi. Di grande interesse, da questo punto di vista, la dislocazione dei voti del Partito Comunista e dei due Partiti Socialisti: il Partito Comunista d’Italia ottenne, infatti, nel 1924 il 3,7% (una flessione minima rispetto al 1921 dove aveva ottenuto il 4,6%) : i due partiti socialisti avevano ottenuto rispettivamente il 5.0 e il 5,9 (nel 1921 il 24,5% cedendo quindi oltre il 13%). Rispetto al voto del plebiscito del 1929 diventa quindi di grande interesse notare che le sole regioni dove i partiti socialisti avevano superato il 10% e i comunisti il 6% fossero proprio la Lombardia, il Piemonte e la Liguria. Si può quindi affermare come il “NO” al listone nel 1929 fosse di origine diretta dal voto dei partiti della sinistra, socialisti e comunisti, e dalla loro capacità di mantenere l’organizzazione dell’opposizione nelle grandi fabbriche e così sarebbe stato per tutto il ventennio. Per concludere ecco il dettaglio del voto per il “NO” regione per regione in cifra assoluta e in percentuale: Piemonte 20.881 2,58% Liguria 11.217 3,82% Lombardia 37.128 3,06% Trentino Alto Adige 7.902 6,55% Veneto 20.587 2,58% Friuli Venezia Giulia (con Zara) 4.080 2,14% Emilia Romagna 14.843 2,01% Toscana 7.251 1,04% Marche 1.665 0,67% Umbria 1.783 1,23% Lazio 3.020 0,72% Abruzzo e Molise 616 0,19% Campania 2.417 0,34% Puglie 165 0,04% Basilicata 10 0,01% Calabria 74 0,02 Sicilia 861 0,10% Sardegna 1.273 0,71% SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle …

PUOI FIDARTI ANCORA, COMPAGNO

di Fernando Santi | Discorso pronunciato al VI Congresso Nazionale della CGIL, Bologna, 31 marzo – 5 aprile 1965, in cui Santi annuncia la sua decisione di lasciare la segreteria della CCIL. Il cammino del sindacato in Italia Questo Congresso è l’ultima occasione che mi è offerta per intrattenermi con voi. E non mi è facile parlarvi, dar corso cioè in modo adeguato ai sentimenti che in questo istante si agitano in me. Siamo stati molti anni insieme, fin dal lontano 1947. Insieme abbiamo camminato per le strade difficili, lottato e sofferto. Comuni ci furono le amarezze degli insuccessi e le gioie delle vittorie. Comuni ci furono e comuni ci restano le grandi attese ideali. In questo giorno di commiato, reso necessario dal fatto che le mie condizioni fisiche non mi consentono di far fronte con pienezza di forze alle fatiche sempre più impegnative della direzione confederale, voglio dirvi soltanto alcune cose. Non intendo infatti intervenire nel dibattito congressuale, per un dovere di elementare correttezza. Sarebbe inoltre cosa di cattivo gusto, per me che me ne vado. Non ho, d’altra parte, nessun testamento politico-sindacale da affidarvi. Anche perché non sono morto, non intendo venire commemorato e tanto meno commemorarmi. Né posso, infine, presumere di prodigarvi esortazioni e insegnamenti particolari. Quel poco che benevolmente si dice e si dirà ancora per qualche giorno di me, per la mia attività alla Cgil in questi 18 anni che restano indimenticabili nella mia vita: il senso del dovere, la fedeltà alla causa dei lavoratori, l’attaccamento alla Cgil e all’unità sindacale e – aggiungo io – la stessa ansia e talvolta la disarmante certezza di sentirsi impari ai grandi compiti e alle alte responsabilità, lo devo sì alla mia fede di socialista e di sindacalista che mi accompagna dall’adolescenza, ma lo devo anche al vostro esempio, di voi che avete lavorato, lavorate, lavorerete in condizioni ben più difficili di quelle che si incontrano alla attività di direzione della Cgil. Vi sono, compagni, nella vita di ogni uomo momenti nei quali è difficile mentire o tacere. In questi giorni mi sono chiesto di frequente: se dovessi per singolare prodigio della sorte ricominciare da capo la mia esperienza confederale, come mi comporterei? Quale linea cercherei di portare avanti? Rifarei le cose che ho fatto? La mia risposta è: sì compagni, rifarei le cose che ho fatto. Certo mi sforzerei di evitare gli errori commessi, brucerei i ritardi che si sono verificati, colmerei le lacune ed eliminerei le insufficienze riscontrate. Ma non mi sentirei, nella sostanza, di mutare la linea di fondo portata avanti dalla Cgil da allora ad oggi. Per l’età che già mi pesa, ho il privilegio di essere stato uno dei pochi sindacalisti italiani che all’esperienza consumata dalla Liberazione ad oggi, può sommare quella giovanile degli anni prefascisti. Alla Camera del Lavoro di Parma nel 1920, alla segreteria della Camera del Lavoro di Torino negli anni 1924-25, i tempi insanguinati di Brandimarte. Sono quindi in grado di misurare – non nella veste di storico ma in quella assai più modesta di testimone talvolta – il cammino percorso dal sindacalismo italiano, il suo divenire adulto, il suo maturarsi a rappresentare sempre più con gli interessi dei lavoratori, quelli generali della collettività nazionale. In realtà il processo di rinnovamento del sindacalismo italiano che esige una permanente verifica della realtà produttiva economica e sociale nella quale esso opera e che è condizione della sua efficienza e del suo potere, ha seguito e segue una linea di sviluppo costante, anche se talvolta noi stessi avremmo voluto imprimere a tale processo un ritmo più intenso e incisivo. Il sindacalismo italiano ha da vicino adeguato la sua linea alle trasformazioni verificatesi in Italia, da paese agricolo arretrato a paese agricolo industriale con punte di avanzata modernità, con tutti gli squilibri che ne conseguono. Ed è mia convinzione profonda che la Cgil abbia saputo nel complesso marciare coi tempi e, sia pure con taluni ritardi, salire a nuove e più alte responsabilità verso i lavoratori e verso il paese, elaborando e rinnovando nella continuità una linea di politica sindacale aderente alle nuove esigenze e arricchendola di iniziative che spesso apparvero illuminanti e precorritrici. I compiti del sindacato Sempre, ad ogni modo, pur operando in diverse condizioni storiche, il sindacato da noi ha assolto e continua ad assolvere al compito per il quale, fenomeno sociale di maggior rilievo del mondo moderno, il sindacato è sorto: la difesa degli interessi economici, professionali, sociali, morali dei lavoratori in ogni momento e in ogni sede, difesa che chiede pertanto la presenza attiva e autonoma del sindacato laddove si operano le grandi scelte che determinano direttamente o indirettamente le condizioni del lavoratore nella fabbrica e nella società. In questo quadro assumono rilievo preminente la natura, la politica e l’azione della Cgil erede naturale del sindacalismo dei nostri pionieri, fondendo in sintesi unitaria le varie scuole e le varie esperienze: di chi voleva impaziente forzare le tappe e di chi voleva marciare con passo più lento perché più sicuro. Più che mai c’è da credere alla funzione del sindacato come stimolo permanente al progresso tecnico, economico, sociale, culturale del paese. Se il sindacato non potesse liberamente e autonomamente dispiegare tutta la sua forza di sollecitazione, lo stesso sviluppo del paese non potrebbe mai raggiungere i livelli che caratterizzano oggi un paese moderno e progredito. Il sindacato nel suo significato storico è anzitutto un fatto di democrazia e di libertà. Un fatto di civiltà. Un’immensa forza liberatrice. Per me personalmente il nostro sindacato è stato anche una grande scuola di formazione umana. Mi ha consentito di calarmi da vicino, direttamente, nella realtà viva della condizione operaia. E più ho trovato questa condizione avvilita dalla miseria, dallo sfruttamento, dall’abbandono, più ho trovato alta la fiamma delle aspirazioni, delle speranze più nobili e più vere. Solo chi ha fame apprezza il sapore del pane, solo chi ha sete di giustizia sa dare alla giustizia il suo vero volto: giusto e umano. Ma il sindacato oggi non si occupa di solo …

ELENCO DEI CADUTI NELLA GUERRA 1915-18 ISCRITTI AL PARTITO SOCIALISTA

Tratto da “Almanacco Socialista” del 1919 Si tratta di un elenco parziale in quanto non tutte le sezioni del partito, a detta degli stessi compilatori, tenevano aggiornate le posizioni dei singoli compagni o rispondevano alle circolari che richiedevano l’invio delle informazioni sui caduti. Aina Michele. Cerano. Morto il 19 dicembre 1917.Amoretti Arturo. Oneglia. Classe 1893. Morto nel luglio 1916. per ferite al fronte.Andreoli Domenico. San Martino in Rio. Classe 1881. Morto il 23 maggio 1917.Andreoli Giudo. San Martino in Rio. Classe 1888. Morto il 19 ottobre 1915.Ancilli Vincenzo. Casale di Passi. Morto il 18 marzo 1917, a Cormons.Aquadro Pasquale. Pralungo. Morto il 21 luglio 1916, sul Monte Nero.Baldini Costante. Mezzano Ravenna. Morto nel settembre 1917.Barbaglia Ludovico. Boca. Morto a Monfalcone.Bisetti Agostino. Boca. Morto a Caporetto.Bisagno Celeste. Rosasco. Medaglia d’argento.Bianchi Domenico. Luco nei Marsi. Morto il 19 dicembre 1917, nell’affondamento della Nave Umberto I.Berardi Enrico. Brandisso. Irreperibile.Berardi Egisto. Macerata Feltria. Morto in prigionia. Essendo rimasto prigioniero mentre trovavasi degente per ferite in un ospedale da campo durante la ritirata di Caporetto.Bassi Angelo. Codogno. Morto in seguito a malattia contratta sotto le armi.Ballerini Pietro. Castellazzara. Morto il 23 novembre 1915, sulle cave del Selz Piave.Ballerini Luigi. Castellazzara. Morto il 15 novembre 1917, colpito da una scheggia di granata.Bellotti Ferdinando. Classe 1878. Morto a Trieste, ex prigioniero.Bellotti Albino. San Martino in Rio. Classe 1891. Morto il 17 febbraio 1918.Bottazzi Umberto. San Martino in Rio. Classe 1895. Morto il 10 ottobre 1916. Baffigo Mario. Chiavari. Classe 1888. Caduto sull’Isonzo nei primi mesi della guerra.Bucchi Spartaco. Citta di Castello. Morto1’8 giugno 1916, sull’Altopiano dei sette comuni.Cabrieli Vincenzo. Luco nei Marsi. Morto il 31 gennaio 1918. Ciocci Pasquale. Luco nei Marsi. Morto nel settembre 1916.Casaroli Ercole. Cerano. Morto il 31 maggio 1918.Camani Francesco. Cerano. Morto il 6 dicembre 1916.Cigolini Abele. Codogno. Falegname. Morto in combattimento.Casali Adelmo. Villa San Maurizio. Classe 1888. Morto il 4 ottobre 1916.Colli Armando. San Martino in Rio. Classe 1894. Morto il 15 agosto 1915.Cipullo Giovanni. Santa Maria C. Vetere. Classe 1882. Morto nel maggio 1916. Caramella Giobatta. Quarto dei Mille. Classe 1884. Morto nel Maggio 1918, sul Grappa.Canova Lorenzo. Pralungo. Morto il 21 luglio 1916, sul Monte Nero.Costa Angelo. Dovia. Morto l’11 giugno 1917, all’Ospedale di Caserta, per ferita a una gamba.Di Gianfilippo. Luco nei Marsi. Morto il 22 luglio 1917.Di Giamberardino. Luco nei Marsi. Morto il 19 maggio 1917.Del Vecchio. Luco nei Marsi. Morto il 30 agosto 1917.Dondi Giovanni. Cerano. Morto il 31 granaio 1916.Dondi Giuseppe. Cerano. Morto il 29 giugno 1916.Danelli Francesco. Sant’Ilario D’Enza. Classe 1886. Morto il 5 maggio 1916, sul Carso.De Luca Alberto. Santa Maria Capua Vetere. Classe 1878. Morto il 6 gennaio 1918. Soldato 232° Fanteria.De Santis Domenico. Rocca di Papa. Classe 1885. Morto a Oppacchiasella il 2 gennaio 1917.De Carli Luigi. Macerata Feltria. Morto il 10 luglio 1916, in seguito a ferite al l’Ospedale Croce Rossa di Schio.Elena Lorenzo. Pinerolo. Morto nel 1916. Iscritto alla Federazione Giovanile Socialista.Ferraguti Umberto. San Martino in Rio. Classe 1880. Morto il 13 ottobre 1915.Formica Domenico. Settingiano. Morto il 6 marzo 1918.Gioia Giambattista. Volpiano. Morto nel 1916, sul Col di Lana.Gambarelli Emilio. Villa S. Maurizio. Classe 1876. Morto il 13 giugno 1918, all’Ospedale di Piacenza; fu Consigliere della Società cooperativa Muratori di Reggio Emilia e Consigliere della Società cooperativa di consumo Villa San Maurizio.Gabriellini Lamberto. Pontedera. Classe 1899. Tornitore in legno.Ghezzi Alessandro. Cusano Milanino. Morto nel 1916, a Taranto per febbri malariche. Era presidente della Società Cooperativa di Lavoro «L’Edilizia».Garafoli Domenico. San Martino in Rio. Classe 1886. Morto l’11 ottobre 1915.Giannini Pasquale. Chiavari. Classe 1892. Morto l’8 luglio 1915, colpito da una granata.Grassetti Gioachino. Recanati. Morto il 30 giugno 1916.Giuliano Bartolomeo. Fossano. Soldato nel 2° Alpini. battaglione Val Maira. Disperso nel combattimento del 30 maggio 1916 sul Monte Cimone.Guarducci Galileo. Classe 1878. Morto nel Trentino.Lancia Leonardo. Luco nei Marsi. Morto il 27 marzo 1916.Latornini Antonio. Luco nei Marsi. Morto il 10 gennaio 1918.Lupano Adolfo. Ticinetto. Classe 1891. Morto il 16 settembre 1916, a Doberdò. Bersagliere 5° reggimento.Loli Secondo. Dovia. Morto il 20 luglio 1915.Marioli Silvio. Citta di Castello. Morto nel luglio 1915.Marioli Baldo. Citta di Castello. Morto nell’aprile 1917.Magi Giuseppe. Citta di Castello. Morto nel luglio 1917.Moretti Giuseppe. Citta di Castello. Morto nel dicembre 1915.Maffeo Giuseppe. Cerano. Morto il 2 settembre 1916.Magnolfi Alimo. Vaiano. Disperso.Minero Rocco. Miagliano. Morto il 24 maggio 1917.Martinelli Umberto. Cari. Classe 1898. Morto il 24 settembre 1917.Macchini Francesco. Morciano di Romagna. Morto il 23 giugno 1915.Minguzzi Domenico. Ammonite Santerno. Morto il 24 maggio 1918, all’ospedale civile di Ravenna.Maestroni Ottorino. Bareggio. Morto il 15 giugno 1916.Masenghini Arturo. Bergamo. Morto nel 1916, sull’Altopiano dei Sette Comuni.Massaro Angelo. Luco nei Marsi. Morto il 2 giugno 1917.Mattei Umberto. Morbrgno. Disperso.Narducci Eugenio. Citta di Castello. Morto nel luglio 1918.Orlando Fortuna Amilcare. Nemi. Disperso.Ottino Giuseppe. Pratolungo. Classe 1893. Morto il 25 novembre 1916.Patrioli Giovanni. Cerano. Morto il 18 giugno 1916.Patrioli Giuseppe. Cerano. Morto il 10 settembre 1916.Provini Oliviero. Codogno. Cestaio. Morto in combattimento.Papalini Giuseppe. Castellazzara. Morto il 23 novembre 1915, sulle Cave del Selz Piave.Prinnini Odoardo. San Ilario d’Enza. Classe 1886. Morto il 5 maggio 1916. sul Monte Vodil.Petricca Cesida. Luco nei Marsi. Morto il 21 agosto 1917.Run Mario. Peretola. Disperso.Rossi Filippo. Oneglia. Morto il 30 agosto 1917. in un Ospedale da campo.Rocchi Alberto. Sant’Ilario d’Enza. Classe 1889. Morto il 25 marzo 1917, all’Ospedaletto da campo N.137.Rimoaldi Adelmo. Dovia. Morto il 18 agosto 1915.Ragazzini Giovanni. Dovia. Morto il 12 giugno 1917.Ripaldi Giovanni. Luco nei Marsi. Morto il 22 novembre 1917.Ruboli Terzo. Fiumicino. Caporale classe 1895. Morto il 22 agosto 1917, sul Carso.Selva Luigi. Morbegno. Morto il 16 giugno 1916, in Trentino.Scudellari Vincenzo. Mezzano. Ravenna. Morto il 15 agosto 1916.Spagiaro Ercole San Ilario d’Enza. Classe 1882. Morto il 2 gennaio 1916, all’Ospedale Militare di Pordenone.Seregni Luigi. Cusano Milanino. Morto nel 1916, per uno scoppio di una mina. Era Consigliere Comunale. Direttore Societa Cooperativa l’Edilizia e Conigliere di tutte le organizzazioni economiche locali.Sintoni Enea. Fiumicino. Classe 1897. Nato a Mezzano di Ravenna. Morto il 20 gennaio 1918, in un’avanzata nel Trentino.Sassi Giuseppe. Dovia. Morto il 3 settembre 1917, all’Ospedale di Modena.Silvestrini Luigi. Luco nei …

ANTONIO PICCININI, UN SOCIALISTA MASSIMALISTA NELLA “PROVINCIA COOPERATIVA”. TRUCIDATO DAI FASCISTI, ERA CANDIDATO ALLE ELEZIONI POLITICHE DEL 1924

di Giorgio Boccolari | Il 28 febbraio del 1924 a Reggio Emilia, veniva assassinato da elementi fascisti al soldo della federazione provinciale, Antonio Piccinini. Candidato alle elezioni che si sarebbero svolte il 4 aprile successivo, era il “fiduciario” del PSI reggiano (all’epoca massimalista).[1] Non aveva ancora compiuto quarant’anni.[2] L’assassinio destò un grande scalpore e non soltanto a livello locale. La Direzione nazionale del suo Partito decise di far riversare sul suo nome le preferenze degli elettori socialisti e, in conseguenza di ciò, egli risultò eletto deputato, come si scrisse allora, “post mortem”. L’efferato delitto venne successivamente denunciato, assieme alle intimidazioni e alle violenze di quella vicenda elettorale, da Giacomo Matteotti, nella storica requisitoria alla Camera  del 30 maggio a seguito della quale sarà anch’egli assassinato da killer mussoliniani.[3] 1. La vita e l’azione politica La vicenda storica e politica del tenace operaio tipografo Antonio Piccinini fu doppiamente emblematica. Da un lato essa si collocava nell’alveo di quell’intransigenza classista, poi ripresa su basi ideologicamente rinnovate dall’ordinovismo gramsciano, che lo faceva restare – come si diceva allora – nella vecchia Casa Socialista, nonostante i contrasti che nell’immediato dopoguerra s’erano acuiti insanabilmente. Dopo la Grande guerra, infatti, anche nel PSI reggiano, accanto alla tradizionale corrente riformista “prampoliniana”, s’era costituita e andava sempre più rafforzandosi grazie al lavoro politico di Piccinini una corrente massimalista che nel 1920 si articolava nella componente “comunista unitaria” (della quale il massimo esponente nella federazione socialista reggiana era lo stesso Piccinini) e in quella “comunista pura” (l’ala radicale poi scissionista col PCd’I nel gennaio del ‘21). Fin dal 1914 egli si oppose alla fitta rete organizzativa ordita dal ceto dei leaders della federazione socialista reggiana, la cosiddetta “arca santa del riformismo”, diretta da avvocati, professori, maestri elementari, ecc. La critica di Piccinini al socialismo riformista prampoliniano puntava l’indice contro il tatticismo economicistica – del leghismo e del cooperativismo fini a se stessi – e contro il mito amministrativo, tutti elementi i quali, avendo come traguardo immediato i miglioramenti materiali, rischiavano d’intorpidire le coscienze e la combattività dei lavoratori.  Certo il massimalismo[4] rifletteva una fase di passaggio tra il socialismo delle origini e la nuova fase di lotta del movimento operaio e contadino caratterizzata dal successo della rivoluzione in Russia. Ma il tipografo massimalista non fu un cieco bastiancontrario come taluni vollero dipingerlo; perseguì certo una politica intransigente e rivoluzionaria, ma cercò sempre di rifuggire dal settarismo nel perseguire i propri obiettivi, come dimostrano i suoi rapporti affettuosi coi leaders riformisti locali considerati “padri” rimasti ancorati ai convincimenti della loro generazione, quella che diede origine al movimento socialista. La formazione della corrente massimalista all’interno della federazione socialista reggiana, poco dopo il primo decennio del Novecento, fu in larga misura il frutto dell’instancabile attività di questo modesto ma tenace operaio tipografo. La “tendenza” ideologica e politica massimalista nella riformistica Reggio prampoliniana, cominciò a configurarsi organizzativamente subito dopo il Congresso nazionale del PSI di Roma del settembre 1918. Essa crebbe e si sviluppò grazie all’instancabile opera di militanza di Piccinini che trovava terreno fertile nelle profonde lacerazioni sociali, politiche ed economiche prodotte dalla Grande guerra. Ma fin da quando iniziò a delinearsi la possibilità dell’ingresso dell’Italia nel primo conflitto mondiale, la coerente opera di critica che Piccinini svolgeva nei confronti della linea riformista del PSI, “tenue” nell’opporsi all’interventismo della classe dirigente nazionale oltre che prevalentemente interessata a rivendicazioni di carattere prevalentemente economico (sia pure a favore della classe lavoratrice), iniziò a manifestarsi non senza qualche irritazione fra i leaders riformisti reggiani.[5] Nato nel 1884 egli era espressione di una “leva” socialista che considerava criticamente seppure con grande rispetto gli esponenti della “vecchia guardia” dei “fondatori del Partito” al quale il giovane Antonio aveva aderito poco prima del 1914. Piccinini aveva iniziato, ventenne, anche l’attività giornalistica, svolta quasi esclusivamente sulle colonne de “La Giustizia” sia nella versione quotidiana, che in quella domenicale, attività che per lui costituiva il completamento dell’impegno politico. La sua “fede” socialista si rifletteva altresì nell’impiego presso la Cooperativa lavoranti tipografi, la stessa che stampava il giornale “La Giustizia”, e nell’opera sindacale sottesa a questa sua attività, esercitata nella Federazione (reggiana) del Libro.[6] Il primo articolo firmato da Piccinini, pubblicato su quotidiano socialista reggiano il 30 dicembre 1914 e intitolato La disoccupazione operaia e il dovere del governo, poneva in primo piano l’obiettivo della piena occupazione e rivendicava per il Paese “una politica saggia, democratica, di pace, di lavoro, di uguaglianza”.[7] Ma il suo impegno nel settore giornalistico andava ben oltre l’attività pubblicistica se si considera il suo coinvolgimento nella “Società per la diffusione della stampa socialista” che d’accordo con la “Società Editoriale Avanti!” di Milano, aveva aperto a Reggio nel ’16 una libreria per la rivendita dei giornali socialisti e di “tutte le opere che può fornire la suddetta Società”.[8] Coerente fu la sua battaglia antimilitarista che lo vide schierato sulle stesse posizioni radicalmente contrarie alla guerra della FIGS (la Federazione giovanile socialista). E fu tanto più coerente in quanto, “riformato” dal servizio militare per gracilità fisica. Ma il suo slogan, come peraltro quello dei socialisti reggiani nella loro stragrande maggioranza, era: “Guerra al regno della guerra, morte al regno della morte”. Prima dell’entrata in guerra dell’Italia, nel corso del Congresso collegiale (socialista) di Reggio Emilia del 7 marzo 1915, prospettò la possibilità di opporsi drasticamente a detta eventualità attraverso lo sciopero generale.[9] Già il 23 aprile del 1915 aveva deplorato l’adesione dei socialisti al Comitato d’organizzazione dei servizi civili (contro i danni della guerra) [10] ed ancora il 3 agosto di quello stesso anno aveva duramente stigmatizzato il “Comitato di preparazione civile” che giudicava “una forma primitiva di collaborazionismo”.[11] Nel corso di un’assemblea socialista, nel novembre del 1916 espresse ancora una volta critiche al larvato collaborazionismo manifestato da Turati e dalla corrente riformista del PSI verso il Ministero Boselli che s’era detto fautore di una pace fondata sul principio di nazionalità.[12] In effetti, il disastro della prima guerra mondiale coi lutti e le miserie che s’era trascinata con sé, ruppe gli esili equilibri del giolittismo e del …

LE VERITA’ NEGATE

La denuncia della guerra in un saggio di Mario Gianfrate. La pregevole prefazione del prof. Nicola Colonna Le verità negate è un libro contro la guerra. Con un linguaggio senza fronzoli, duro, efficace, Mario Gianfrate racconta una guerra diversa – parliamo della prima Guerra Mondiale -, la guerra vera con la crudezza della realtà che ha poco di patriottico: racconta di ingenti masse di contadini mandati al massacro, di una generazione ingoiata dalle fauci di uno sterminio come “carne da macello”. E il racconto si fa denuncia delle rappresaglie spietate e inumane ordinate contro i soldati, i fanti-contadini, che, come si esprime l’Autore, “mostravano titubanza in faccia al nemico”. Denuncia puntuale, peraltro, con documenti inediti, trovati nel lavoro di ricerca storica che, narrando di fucilazioni di massa nei confronti di chi si ribellava alle angherie, di condanne comminate senza uno straccio di processo, punta l’indice contro i vertici militari italiani e lo stesso Governo. Sul campo della gloria e dell’onore, secondo l’assurda logica di Cadorna,- scrive Gianfrate – è reato mostrare codardia “in faccia al nemico”. Se a questo si aggiunge che sottufficiali e carabinieri, protetti nelle trincee, avevano il compito di sparare addosso ai soldati italiani che, nell’attacco, indugiavano perché presi dal panico nell’avanzare, il quadro evidenzia quanto cinico e inquietante fosse il regime di disciplina imposto da Cadorna. Ma la denuncia va ancora oltre, si addentra nelle menzogne e nelle ritorsioni riservate ai soldati presi prigionieri a Caporetto, considerati “traditori”, un’altra pagina nera che non fa onore né a chi le mise in atto, né a chi le ha coperte.Un saggio, dunque, che si inserisce a pieno titolo nel filone del revisionismo storico sul conflitto mondiale che sconvolse l’Europa intera e che prepara le condizioni per quello successivo degli anni 1940/45, preceduto da una pregevole e dettagliata introduzione di Nicola Colonna, tra gli intellettuali più lucidi della nostra terra, che ricostruisce con una precisa analisi le cause reali del conflitto. Dunque, un saggio che si legge tutto d’un fiato sulla guerra vista dalla parte dei soldati per i quali la guerra si può riassumere in un breve scritto trovato nelle tasche di un soldato morto sulle Dolomiti:Tutti avevano la faccia del Cristo,nella livida aureola dell’elmetto.Tutti portavano l’insegna del supplizionella croce della baionetta,e nelle tascheil pane dell’ultima cena,e nella gola il pianto dell’ultimo addio. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

FAUSTO VIGEVANI, SOCIALISTA

di Davide Vanicelli | Nato nel 1939 a Perino di Coli sull’Appennino piacentino, fu allievo e amico di Riccardo Lombardi, Fernando Santi e Alberto Jacometti, uomini di cui condivise l’impegno politico e sindacale nel Partito Socialista e nella CGIL.Guida giovanissimo la Camera del Lavoro di Piacenza e successivamente quella di Novara, mentre negli anni settanta e ottanta diviene dapprima segretario generale dei chimici della CGIL, membro della segreteria generale e infine segretario generale dei metalmeccanici della FIOM, il primo socialista dopo Bruno Buozzi. Ho conosciuto Fausto Vigevani nel 1994 e ho condiviso con Lui l’ultima parte di un percorso politico e culturale che lo aveva portato come Parlamentare e uomo di governo ad un impegno in quelle Istituzioni che già aveva servito in tanti anni di impegno sindacale, conducendo il movimento dei lavoratori al loro interno per rafforzarle sulla base di un consenso democratico, formale e sostanziale. È opportuno ricordare di questi tempi come non esitò – di fronte ad un documento di sostegno alle BR da parte di alcuni quadri di un importante ente statale – ad espellerne gli autori dalla CGIL, ottenendo in cambio un volantino di condanna a morte che lo costrinse a vivere sotto scorta per diversi mesi. Ed è sempre per le istituzioni e per i lavoratori che nel 1992-93, come segretario della FIOM, è uno dei principali protagonisti degli accordi interconfederali sul costo del lavoro sottoscritti coi Governi Amato e Ciampi; accordi passati alla storia per aver posto le basi del risanamento finanziario, dell’ingresso nell’Unione Economica e Monetaria e della sconfitta dell’inflazione.L’impegno diretto nelle istituzioni comincia nel 1994, quando viene eletto al Senato della Repubblica. Presiede la delegazione progressista in Commissione Finanze, ma il sostegno convinto e leale del Governo Dini non gli impedisce di condurre, da solo ma con una tenacia e una convinzione non comuni, una battaglia per la restituzione delle cosiddette “quote prezzo”, indebitamente richieste dall’ENEL agli utenti privati dopo l’abbandono del nucleare. Serietà, onestà intellettuale, rigore etico e scientifico nell’analisi dei problemi e delle relative soluzioni portano Fausto Vigevani ad assumere incarichi di governo come Sottosegretario di Stato al Ministero delle Finanze dal 1996 al 1999. Gli vengono affidate deleghe importanti come quelle al personale, alla Guardia di Finanza e ai Monopoli di Stato; di questi ultimi avvia la riforma e la successiva privatizzazione. Spesso chiamato a sostituire il Ministro nelle discussioni parlamentari, si distingue per la competenza tecnica, per la fermezza delle posizioni politiche espresse e per l’apertura al confronto leale, costruttivo e mai fazioso con le opposizioni.Sono anche gli anni in cui, nonostante l’impegno parlamentare e di governo, percorre l’Italia intera per presentare e discutere la riforma delle pensioni del 1995 e i numerosi provvedimenti economici e fiscali che portano a compimento il risanamento dei conti pubblici. A questo proposito mi piace ricordare che Fausto Vigevani, pur essendo stato per tanti anni dirigente sindacale, non amava i comizi: “ragioniamo” era l’espressione che preferiva e questo voleva che avvenisse in assemblee pubbliche dove chiunque potesse intervenire e confrontarsi sugli argomenti in discussione. La riforma delle pensioni – o meglio del Welfare, come amava precisare – era ovviamente per Lui, sindacalista e socialista, uno degli argomenti che più gli stavano a cuore: invitava a ragionare sul fatto che il sistema di protezione sociale italiano, se confrontato con quello degli altri paesi europei, si distingue per la preponderanza che in esso ricopre la spesa previdenziale e che le economie di scala realizzabili con la riforma delle pensioni avrebbero dovuto finanziare altri settori pesantemente deficitari, quali la tutela della disoccupazione involontaria, le politiche attive del lavoro, la scuola. Il tutto in una logica generale in cui il sistema del welfare, fatte salve le sue compatibilità macroeconomiche e il suo carattere di universalità, potesse consentire al singolo individuo quali percorsi di vita e di lavoro scegliere nella corso della propria esistenza. E pur essendo un laico, Fausto Vigevani veniva apprezzato anche da chi proveniva da altre culture riformiste di impronta cattolica, giacché in tema di politiche per la famiglia riteneva che queste non potessero fare riferimento a modelli standard o a generiche forme di finanziamento, ma che dovessero essere calibrate e differenziate a seconda delle difficoltà e delle specificità delle situazioni familiari. Ho già ricordato come ebbi modo di conoscere Fausto Vigevani nel 1994, allorché venne candidato nel nostro collegio senatoriale: insieme a tanti altri compagni di strada ci colpì da subito, prima ancora della sintonia su alcune questioni politiche fondamentali, il Suo senso dell’amicizia, la capacità di conversare con tutti su temi complessi in modo semplice, la generosità, la sobrietà dei costumi e dei modi di vita, che rivelavano quelle origini montanare dalle quali proveniva e delle quali era orgoglioso. Veniva sempre molto volentieri a Fidenza e nei comuni vicini, un territorio per il quale – parole sue – si era “messo a disposizione” e che seppe valorizzare non con logiche clientelari, che erano quanto di più alieno potesse esserci per un uomo della Sua statura morale, ma attraverso la concertazione e la collaborazione fra diversi livelli di governo, ciascuno nell’ambito delle proprie competenze e della propria autonomia. L’istituzione dell’Agenzia delle Entrate a Fidenza è uno dei Suoi tanti meriti e il nostro auspicio è che il Suo lavoro non sia vanificato dagli attuali progetti di riorganizzazione delle strutture periferiche del Ministero dell’economia.Terminato l’impegno parlamentare nel 2001, volle dedicarsi a tempo pieno all’attività culturale, attraverso quella Associazione Labour che aveva creato nel 1993 e il contributo, sia concreto che intellettuale, ad alcune riviste di approfondimento politico. Due i temi principali: l’unità sindacale e il proseguimento del processo di ricomposizione della sinistra italiana sulla base del riformismo socialista di stampo europeo, una cultura politica della quale era uno dei più lucidi interpreti. Per concludere, ricordare Fausto Vigevani significa per me affermare che se ho l’onore di far parte di questo Consiglio Comunale, lo devo anche e soprattutto a Lui, al Suo sostegno, ai Suoi continui inviti a non dimenticare mai, neppure nei momenti più difficili, l’impegno civile nei confronti di quei cittadini che …

ROCCO SCOTELLARO: LA POLITICA TRA PASSIONE E MILITANZA

Partito Socialista Italiano. Il sottoscritto Scotellaro Rocco fu Vincenzo domiciliato in Tricarico via Roma, 65 di professione studente in legge CHIEDE l’iscrizione al Partito Socialista Italiano. Data 4 dicembre 1943. Rocco Scotellaro Il Partito Socialista lucano fu fondato ufficialmente con il Congresso di Potenza del 1902, fin da subito si erano creati al suo interno due aspetti originali: da una parte un socialismo intransigente di tipo «rurale» che aveva nella zona di Melfi edi Matera i suoi centri di irradiazione, dall’altra un socialismo riformista di tipo«urbano» attorno alla città di Potenza. Nonostante oltre ad Attilio Di Napoli ci fossero esponenti socialisti di primo piano come gli avvocati Enzo Pignatari aPotenza e Vincenzo Milillo a Matera; il problema dei socialisti lucani fu sempre quello di non riuscire ad unire le due «anime» del partito e di non avere la forza di organizzare in modo organico i movimenti spontanei di quegli anni delle massecontadine, ma di tentare piuttosto di frenarli. Di fronte alle richieste di ridimensionamento del latifondo da parte dei contadini e dei numerosi braccianti e di fronte all’occupazione delle terre, il Partito Socialista lucano non seppe rispondere in modo chiaro dando il suo appoggio; né riuscì a trovare un punto di accordo con il Partito Comunista regionale. Anzi, dopo la scissione nel Congresso Nazionale del 9 gennaio 1947 del PSIUP in PSI e PSLI, la Basilicata diede nel meridione la più alta percentuale di adesione alla socialdemocrazia di Saragat. Le vicende politiche della Basilicata a partire dall’immediato dopoguerra fino agli anni ’50 si intrecciano con le vicende personali del giovane Scotellaro. Lo scrittore lucano partecipò in prima linea ai cambiamenti in atto nella sua regione. La politica, da lui considerata inizialmente soltanto una pura e semplice passione, divenne a poco a poco vera e propria militanza. Non mettendo mai da parte la sua vocazione di scrittore, riuscì a creare tra questi due aspetti della sua vita una vera epropria simbiosi. Nella primavera del 1946, alla vigilia delle elezioni per l’Assemblea Costituente, conobbe lo scrittore Carlo Levi che si era recato a Tricarico per un comizio essendo candidato all’Assemblea Costituente per la circoscrizione materana. Scotellaro aveva avuto il compito di introdurre il comizio dello scrittore torinese e dipresentarlo agli abitanti del paese. Negli stessi giorni, a Matera, invece, lo scrittore lucano ebbe la possibilità di conoscere Manlio Rossi-Doria. Anche Rossi-Doria si trovava in Basilicata per la campagna elettorale in occasione delle imminenti elezioni. Immediatamente si strinse tra i tre un legame di profonda amicizia e di reciproca stima, che negli anni andò pian piano maturando. Sia Rossi-Doria che Levi rimasero immediatamente affascinati dal carisma e dalla forza del giovane intellettuale, che con le sue ottime doti di oratore riusciva ad attirare molta gente attorno a sé. Entrambi capirono di trovarsi di fronte ad una persona dalle qualità eccezionali. L’attiva partecipazione di Scotellaro alla vita politica del PSIUP lucano, di cui instancabilmente seguiva il dispiegarsi dell’azione politica sia locale che nazionale, è testimoniata anche dalla sua partecipazione dall’11 al 17 aprile del 1946 al CongressoNazionale del partito tenutosi a Firenze. Il Congresso, indetto alla vigilia delle elezioni per l’Assemblea Costituente e del referendum per la forma costituzionale, era un appuntamento importante per capire gli umori e gli orientamenti generali dei socialisti italiani. Inoltre, nel corso del 1946 si indirono le prime democratiche elezioni amministrative dell’Italia liberata. A Tricarico si votò il 20 ottobre 1946. Si presentarono due schieramenti: quello del Fronte Popolare Repubblicano che era una coalizione tra PSIUP, PRI e PCI e quello della DC. La coalizione del Fronte Popolare Repubblicano con Scotellaro capolista vinse le elezioni ed elesse 16 consiglieri di maggioranza. Alla DC ne toccarono 4. Nel corso del primo consiglio comunale tenutosi il 29 ottobre del 1946, con 15 voti su 20, Scotellaro divenne ufficialmente il primo sindaco di Tricarico del dopoguerra eletto a seguito di elezioni democratiche. Il 24 novembre 1946 poté entrare nel pieno esercizio delle sue funzioni. Il primo problema che il neo-sindaco dovette affrontare fu quello della realizzazione di un ospedale civile. Il problema era eredità della precedente amministrazione, la quale si era vista respinta dal prefetto di Matera la delibera comunale con cui il Comune di Tricarico si impegnava a concorrere alle spese per l’esecuzione dei lavori che sarebbero serviti a trasformare i locali del Seminario Vescovile in ospedale. Scotellaro, prendendo in mano la situazione, riuscì ad ottenere il 18 dicembre 1946 l’assenso per la messa a disposizione dei locali da parte del Vescovo Monsignor Raffaello Delle Nocche e l’autorizzazione da parte del prefetto. I primi mesi dell’amministrazione Scotellaro furono caratterizzati dall’ampio dibattito costituitosi attorno al problema ospedale. La sua gestione fu affidata ad un ente morale che a sua volta affidò ad un Comitato promotore la raccolta di un fondo minimo di un milionedi lire necessario per farlo nascere. La mobilitazione messa in moto da Scotellaro ebbe esito positivo e non mancò neppure il contributo economico della DC locale. Finalmente il 7 agosto del 1947 l’ospedale poté essere inaugurato e Scotellaro fu nominato presidente onorario. In una terra dove tra le principali cause di mortec’erano la malaria e la tubercolosi, la costruzione di un ospedale significava aver raggiunto un risultato non indifferente. Come dimostra la vicenda dell’ospedale, fin da subito l’azione amministrativa di Scotellaro fu caratterizzata dalla concretezza delle azioni e da una capacità di forte mobilitazione di tutti i livelli della società, dote che gli riconoscevano anche i suoi avversari politici. La prima amministrazione Scotellaro, però, non affrontò solo la questione dell’ospedale ma anche altri aspetti della gestione della cosa pubblica. La seconda guerra mondiale aveva avuto effetti devastanti su un piccolo comune come Tricarico. Bisognava riorganizzare la struttura burocratico-amministrativa e la gestione del patrimonio comunale. Era necessario trovare soluzione ai problemi della vita di ogni giorno: migliorare i servizi scolastici, la viabilità e la vivibilità generale della struttura urbana, fornire assistenza ai lavoratori. E’ Scotellaro stesso all’interno della relazione in cui motiva le dimissioni da sindaco a riferire sul delicato e complesso lavoro svolto dalla sua prima amministrazione, e …

IL GRANELLO DI SABBIA

di Fulvio Papi | Per tradizione le analisi di cultura politica socialista hanno sempre privilegiato spazi politici nazionali o eurocentrici. Oggi questa limitazione non è più possibile perché, se pure in maniera indiretta, ciascuno è collegato ad uno spazio economico politico molto più vasto. Un bambino che manipola un qualsiasi giocattolo si può trovare in relazione con un mercato molto più ampio di quanto lo scarso valore dell’oggetto non possa far pensare. L’esempio è molto povero, ma il flusso dei capitali e del capitale non è differente se non per i mezzi di transito. Per il resto noi abbiamo nozioni molto importanti: per esempio possediamo inquietanti modelli di incremento demografico, così come la certezza che la terra in cui viviamo, a causa di tutte le conseguenze dei mezzi di produzione subirà, per l’innalzamento delle acque dei mari una catastrofe che colpirà direttamente mezzo miliardo di uomini, ma indirettamente non potrà non avere ripercussioni più o meno rilevanti su tutto il pianeta. A questo proposito non si può fare alcuna teoria scientifica valida, ma una buona immaginazione può suggerire che vi saranno una nuova distribuzione delle classi sociali, un nuovo senso storico degli stati, un conflitto violento intorno ai poteri sociali, politici e tecnologici. Una molto parziale anticipazione l’abbiamo anche oggi con la costruzione dei muri, con i quali, anche al di là della contingente migrazione, essi sembrano segnare un mondo che vuole restare identico a sé anche di fronte alle drammatiche aspettative future. Se esaminiamo, con uno sguardo lungo, la politica sostanzialmente isolazionista di Trump in tutte le sue iniziative, non possiamo non ritrovare un simile criterio di difesa dell’area nord- americana. I dazi all’importazione, il disimpegno ecologico e quello militare, a livello mondiale, hanno lo stesso segno. Quello che accadrà non lo possiamo sapere, quello che vediamo è che la storia, a livello mondiale, è mutata dal tempo dell’enfasi della “globalizzazione” che ha lasciato conseguenze molto gravi in quella che possiamo dichiarare zona eurocentrica.  Il mercato americano, alla luce di famosi principi neoliberisti della Scuola di Chicago, non ha alcuna conseguenza rilevante. A livello europeo il dominio del mercato come un dio capace di creare nel proprio funzionamento il migliore dei mondi possibili, ha messo in crisi una civiltà che aveva trovato, dopo la tragedia storica dei nazionalismi di massa, un equilibrio sociale che certamente aveva i suoi problemi aperti, come sempre capita nella storia, ma, come disse un importante leader di sinistra, aveva assimilato nel proprio corpo sociale alcuni elementi di socialismo. Di solito, a questo proposito, si parla di un compromesso tra le classi sociali di tipo keynesiano, ma il suo vero senso sociale di quel periodo andrebbe esplorato nella sorte dei singoli bilanci dello stato di cui farò cenno. E credo che si possa dire già ora che, a livello del debito pubblico, non si sarebbe potuto sostenere a lungo la situazione sociale che si era creata. Tanto più che a livello mondiale la globalizzazione, come tutti sanno, aveva favorito lo sviluppo (ma anche qui: quale sviluppo?) di paesi come la Cina e l’India e aveva, al contrario, contratto il livello economico-sociale delle classi medi, desiderose fra l’altro, e qui si vede il livello politico, di ripetere il proprio passato.  Un abbassamento delle disponibilità economiche e dello squilibrio, precedentemente provocato, secondo un’idea sbagliata di sviluppo, tra ricchezza privata e ricchezza pubblica, ha costruito un modello che, semplificando all’estremo, si potrebbe anche dire che una serie di poteri, di interessi, di arricchimenti, di consumi, di identità collettive, di aspettative, di istanze, hanno condizionato una possibile politica economica dello Stato ed una selezione stessa della classe politica. La vittima, nemmeno più nominata, era la “programmazione economica”, ritenuta un rottame intellettuale che aveva burocratizzato l’economia impedendone la sua originaria capacità di sviluppo, quand’essa fosse affidata all’iniziativa privata. La società mercantile ristrutturava del tutto la figura intellettuale, etica e giuridica, aperta alla iniziativa economica, che aveva costituito il modello costituzionale di Stato. Sono ben lontano dal ritenere che l’iniziativa economica del re (per parlare storicamente) sia giusta ed efficace, ma sono dubbioso che il mercato erediti il potere del re, ed ottenga così i risultati positivi che il sovrano aveva mancato. Il problema è complesso, ma qui mi limiterò a dire che non esiste una economia politica che incarni materialmente l’idea platonica di bene. Esistono politiche economiche che coinvolgono valore sociale e possibilità oggettive e, nella ricerca di questo equilibrio, esiste una politica conservatrice e una politica socialista che, in ogni caso, devono conoscere da esperti la tecnica razionale di conduzione di una situazione economica, privandosi di proclami demagogici che, con la loro ignoranza, provocano un drammatico crollo del giudizio pubblico. Una domanda che non pochi si sono posti è come sia potuto accadere che una cultura come quella tradizionale della sinistra sia stata spazzata via dai luoghi comuni di un neoliberismo tanto banale quanto aggressivo e convincente. La cultura della sinistra era diventata di natura mitico-libresca. Mitica perché aveva diffuso per anni la convinzione che l’URSS fosse un paese guida così come il partito che ne costituiva l’ossatura politica. La sua caduta non solo mostrò le ragioni strutturali dell’economia del paese, le insostenibili spese militari, ma anche uno stile autoritario e violento del potere centralizzato e poliziesco opposto ai desideri di identità della popolazione. L’insostenibilità economica e l’oppressione sociale costituivano una unità insopportabile come forma di vita. Qui non posso andare oltre quelli che sono stati i totali effetti della caduta di un mito che hanno investito tutta l’area della sinistra e, nel gioco delle opposizioni immaginarie, hanno valorizzato come immediata terapia una svolta neo-liberista. Quale che potesse essere l’immagine pubblica socialista, considerando altresì le vicende tutt’altro che corroboranti di questo partito, essa era socialmente perduta. Fatto non secondario fu che un’élite politica transitò con convinzione verso una prospettiva neoliberista proprio perché era un ceto di pura rendita di posizione, privo di qualsiasi capacità di ricostituzione culturale e sociale che, con la ridicola concezione della modernizzazione, adottava comportamenti intellettuali e pratici identici a quelli che avrebbe dovuto contestare, …

RICORDANDO BETTINO CRAXI

di Roberto Giuliano | Come ogni anno, dal 2000, l’Associazione degli amici del Garofano Rosso e la Fondazione Craxi si ritrovano ad Hammamet il 19 gennaio per ricordare nel XIX anno della sua scomparsa un uomo, un politico, uno statista che ha subito in uno Stato democratico una grave ingiustizia. Parliamo di Bettino Craxi, il segretario del PSI e Presidente del Consiglio, che in un momento di grave crisi economica ha saputo risollevare le sorti del Paese dandogli un prestigio internazionale e facendo dell’Italia la V potenza mondiale superando l’Inghilterra. Molti considerano questa iniziativa, che si ripete nel tempo come un pellegrinaggio, un atto nostalgico di reduci o, per non dire peggio, di cialtroni che vanno a rendere omaggio ad un ladro. Questa vulgata in questi anni sta venendo meno perché la verità, prima o dopo, viene compresa anche dagli ingenui, ma certamente non da coloro che sono in malafede. Non solo, il pensiero politico di Bettino Craxi è ancora attuale e ci fa rendere conto delle opportunità perdute: dalla riforma delle istituzioni, alla riforma dell’Europa, la governabilità, il ruolo internazionale del nostro Paese nel Mediterraneo, la politica a sostegno dei ceti deboli, l’ammodernamento della PA e del Paese, il ruolo dei ceti intermedi per irrobustire la democrazia e potremmo continuare. No, le persone che si ritrovano ogni anno ad Hammamet per ricordare Craxi sono delle persone che compiono un atto politico perché nel nostro paese nel 1992 è avvenuto un golpe mediatico giudiziario ed ancora oggi il paese ne è prigioniero. È stata eliminata una classe politica che ha difeso la democrazia dal comunismo, una classe politica che non era immune da pecche, ma aveva senso dello Stato e delle Istituzioni, una classe politica che amava il suo Paese e aveva una visione del ruolo dell’Italia nel mondo. Il decadimento del nostro Paese può essere facilmente verificato dai dati statici: inizia con la falsa rivoluzione di mani pulite, crollano gli investimenti, si svendono le aziende pubbliche, si elegge una classe politica “nuova” di incapaci e di vecchi ricattabili, dovevano diminuire i partiti e fioriscono quelli personali, il debito pubblico esplode senza aumentare occupazione e sviluppo e la corruzione, che prima era un finanziamento illecito ai partiti e comunque serviva alla sussistenza della democrazia, oggi dilaga a livello personale in disprezzo della democrazia e del bene comune. La malapianta della giustizia continua a dominare la politica e a bloccare la crescita del Paese. Craxi non era un profeta, ma uomo politico che, per quanto tardi, capì cosa stava succedendo al Paese: la fine del comunismo ha dato il via libera alla finanza speculativa, desertificando i valori e le idee della politica. Il 19 gennaio non è un giorno di lutto, ma di lotta per testimoniare che l’uomo può perire, ma le sue idee sono eterne e dalla Tunisia ricorderemo al Paese che ancora esiste una memoria storica che è consapevole della possibilità di coniugare sviluppo, benessere e democrazia e che il declino non è figlio del destino ma dalle scelte della comunità. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

ODIO IL CAPODANNO! FIRMATO ANTONIO GRAMSCI

Ogni mattino, quando mi risveglio ancora sotto la cappa del cielo, sento che per me è capodanno. Perciò odio questi capodanni a scadenza fissa che fanno della vita e dello spirito umano un’azienda commerciale col suo bravo consuntivo, e il suo bilancio e il preventivo per la nuova gestione. Essi fanno perdere il senso della continuità della vita e dello spirito. Si finisce per credere sul serio che tra anno e anno ci sia una soluzione di continuità e che incominci una novella istoria, e si fanno propositi e ci si pente degli spropositi, ecc. ecc. È un torto in genere delle date. Dicono che la cronologia è l’ossatura della storia; e si può ammettere. Ma bisogna anche ammettere che ci sono quattro o cinque date fondamentali, che ogni persona per bene conserva conficcate nel cervello, che hanno giocato dei brutti tiri alla storia. Sono anch’essi capodanni. Il capodanno della storia romana, o del Medioevo, o dell’età moderna. E sono diventati così invadenti e così fossilizzanti che ci sorprendiamo noi stessi a pensare talvolta che la vita in Italia sia incominciata nel 752, e che il 1490 0 il 1492 siano come montagne che l’umanità ha valicato di colpo ritrovandosi in un nuovo mondo, entrando in una nuova vita. Così la data diventa un ingombro, un parapetto che impedisce di vedere che la storia continua a svolgersi con la stessa linea fondamentale immutata, senza bruschi arresti, come quando al cinematografo si strappa il film e si ha un intervallo di luce abbarbagliante. Perciò odio il capodanno. Voglio che ogni mattino sia per me un capodanno. Ogni giorno voglio fare i conti con me stesso, e rinnovarmi ogni giorno. Nessun giorno preventivato per il riposo. Le soste me le scelgo da me, quando mi sento ubriaco di vita intensa e voglio fare un tuffo nell’animalità per ritrarne nuovo vigore. Nessun travettismo spirituale. Ogni ora della mia vita vorrei fosse nuova, pur riallacciandosi a quelle trascorse. Nessun giorno di tripudio a rime obbligate collettive, da spartire con tutti gli estranei che non mi interessano. Perché hanno tripudiato i nonni dei nostri nonni ecc., dovremmo anche noi sentire il bisogno del tripudio. Tutto ciò stomaca. Aspetto il socialismo anche per questa ragione. Perché scaraventerà nell’immondezzaio tutte queste date che ormai non hanno più nessuna risonanza nel nostro spirito e, se ne creerà delle altre, saranno almeno le nostre, e non quelle che dobbiamo accettare senza beneficio d’inventario dai nostri sciocchissimi antenati. Antonio Gramsci, 1 gennaio 1916, Avanti!, edizione torinese, rubrica Sotto la Mole. Fonte: Internazionale SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it