XX SETTEMBRE

A 30 anni dalla Breccia di Porta Pia – Avanti! del 20 Settembre 1900 La data solenne si celebra sotto il patronato di Francesco Crispi. C’è chi si meraviglia. Non noi. A noi la commemorazione ufficiale, così com’è ordinata, appare sincera e degna: sincera in quanto esprime il senso di corruzione e di scadimento ch’è nelle cose e che il Crispi simboleggia; degna di Roma patriottica e pretesca, non ancora italiana. Anche pretesca. Sia perché il governo d’Italia, ponendo di suo in Roma l’unico istituto nazionale veramente solido: la burocrazia, ha rispettato l’infingardaggine aristocratico e il parassitismo chiesastico, gemme e gloria della Roma papale. Sia perché la politica dei nostri anticlericali di governo fu sempre dubbiosa e timida nei riguardi del cattolicesimo. Il nostro governo è di volta in volta pettegolo e settario, non mai francamente anticlericale. Toglie la ricca mensa a qualche vescovo o vieta la carnevalata di qualche dimostrazione, reputando di avere con questi dispettucci da curato campagnolo risposto convenientemente all’alto ufficio di educazione civile, che gli italiani ebbero l’ingenuità di attendere dalla Roma dei patrioti sfruttatori e delle banche depredate. Ma la scuola è cattolica; ma la politica è teocraticamente reazionaria; ma il costume è rimasto loiolescamente ipocrita. Che importa se il Crispi giacobino destituisce un sindaco clericale o il ministro dell’istruzione rende facoltativo l’insegnamento della dottrina cristiana delle scuole elementari? Nelle scuole non si sgrana il rosario né si scodella la dottrinetta; ma, quel che è peggio, si muove guerra alla filosofia positiva, si lesina la scienza moderna, e per contro le discipline insegnate e più i metodi in uso danno ai giovani il cibo cattolico in quello che ha di sostanza, di anima, di veleno. E fuor della scuola, nella vita cittadina, osservate il triste fenomeno che si ripete sempre. Vedetelo nella sua ultima edizione. La battaglia ostruzionista e le elezioni politiche, che elevarono il partito socialista dallo stato di adolescenza alla maggiorità, portarono sgomento nel petto dei conservatori. Questi si fecero piccini piccini e tacquero così la loro impotenza come il nostro vigore. Avevano necessità di apprestare le difese, ma non volevano e non sapevano scendere in campo aperto. Il Bresci fu il loro santo protestatore. Sorsero allora come un sol uomo attribuendo a noi il regicidio, ossia riconnettendo l’azione socialista, non alle battaglie schiette e forti che seguirono alla reazione del maggio sanguinoso, ma al fosco dramma di Monza, argomentarono di poter riprendere l’offesa con la guerriglia delle imboscate usata prima. E si illusero per alcuni segni puramente formali, di avere alleata la chiesa. Andarono a Canossa. Sperarono in Matilde. La regina madre doveva ottenere il perdono di Dio. Vecchi induriti bestemmiatori fecero abiura; dissero e scrissero intorno alla necessità di congiungere il sentimento religioso alla forza dello Stato per conferire virtù di resistenza agli ordinamenti istituiti. Ma il vecchio pontefice accolse i nuovi penitenti con uno schiaffo villano. Quelli stessi che imploravano la grazia di un Dio gendarme ora inneggiano a Roma capitale d’Italia. Ed il Crispi li guida. C’è sincerità anticlericale? Né con Dio né col diavolo, né coi preti né coi patriottardi, ma contro tutti: ecco la risposta dei socialisti. I socialisti sono i soli e i veri anticlericali. Per combattere i preti rifiutano le armi che ai preti son care: non la forca, non l’indice, non leggi d’eccezione: ma diffusione di idee, con la parola e la stampa e la libertà per se e per i nemici. La civiltà nuova si annunzia contenendo, pur nell’azione preparatrice, quel tanto di pensiero e di libertà che le è consentito dalla teocrazia laica di palazzo Braschi. Si annunzia nelle forme civili della lotta e nella sostanza buona della dottrina: alla morale cristiana ch’è rinunzia alla vita, noi socialisti opponiamo l’affermazione e l’esaltazione della vita terrena; allo spirito castrato di rassegnazione sovrapponiamo, in nome della dignità umana offesa, la ribellione del pensiero e la virtù del combattere.   SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

PREGIUDIZI E CONTRADDIZIONI DELLA SINISTRA

L’ultimo intervento di Lombardi nel giugno del 1984, a pochi mesi dalla sua morte: individuare le cause del raffreddamento del dialogo, Riccardo Lombardi tenne il suo ultimo discorso pubblico a Roma il 29 giugno 1984, al Convegno di “Socialismo Oggi” su “Il PSI e l’alternativa riformista”. Poche settimane prima, aveva anticipato la sostanza delle sue considerazioni in una conversazione con Simona Colarizi, pubblicata su”Socialismo Oggi”, che riproduciamo integralmente. Nel clima di tensione tra comunisti e socialisti di queste ultime settimane, l’alternativa sembra farsi sempre più lontana. Riccardo Lombardi, leader storico del PSI, mi guarda sorridendo: di rotture, di lacerazioni, di momenti di crisi è intessuta tutta la storia della sinistra italiana, fin dal lontano 1921, e lui ne è stato uno dei protagonisti. Oggi, di nuovo, PSI e PCI sono divisi; la polemica è aspra. Tuttavia, l’attuale dissenso è solo l’aspetto più appariscente e formale del problema complessivo. Se la strategia dell’alternativa, come proiezione nel futuro, si è allontanata, dice Lombardi, bisogna individuare cause più profonde del raffreddamento del dialogo tra i due partiti. Oggi, la proposta dell’alternativa non è più sostenuta da un’impostazione progettuale e culturale sufficiente a darle credibilità e quindi successo. L’alternativa fu lanciata in un periodo di svolta nel sistema economico e nella società italiana, che aveva messo in crisi gli equilibri di governo tradizionali. Era un’occasione, per la sinistra, di intervenire come protagonista diretta e di porre con forza la questione dell’alternanza democratica, candidandosi a governare il cambiamento in atto. Un’occasione che non si può ancora considerare perduta dalla prima formulazione di questa strategia, dell’alternativa sembra rimanere solo un’eco sbiadita. Il processo di trasformazione non si è arrestato; anzi, prosegue velocemente, palesando sempre più il ritardo politico a gestirlo e il ritardo culturale a interpretarlo. E’ questo il nodo della questione. Entrati in crisi molti dei parametri consolidati attraverso i quali si valutava nel passato una politica di sinistra, socialisti e comunisti palesano una carenza progettuale che, secondo Lombardi, trova in alcuni pregiudizi – li chiama dei veri “tabù” – un importante ostacolo. Il primo pregiudizio sta nella persuasione che il progresso tecnico (informatica, elettronica, telematica) crei inevitabilmente disoccupazione. Ciò non è necessariamente vero:”Un effettivo progresso tecnico continuativo che renda anche la produzione competitiva, e sia motore propulsore per l’economia, ha bisogno di essere garantito dalla piena occupazione non solo per ragioni di consenso sociale, ma anche per le esigenze della stessa produttività. Il francese Rosan Vallon ha scritto recentemente che la “disoccupazione è nella testa dei decideurs, non è iscritta nei rapporti di produzione”. Insomma, la disoccupazione trae origine nell’incapacità di concepire una politica di piena occupazione”. Il secondo pregiudizio è quello della fine della fine dello stato assistenziale, dello stato-provvidenza. “Io non nego“, dice Lombardi, “che oggi l’accelerazione delle spese sociali sia più rapida di quella della produzione, col rischio di arrivare in futuro ad un momento in cui neppure tutta la produzione nazionale sarà sufficiente a pagare i servizi sociali. Ciò nonostante non penso che l’unica ricetta sia quella di Reagan: abolire lo stato sociale. La questione vera, che la sinistra non ha il coraggio di porre, è che non possono continuare a coesistere valori elevati di salario diretto e salario indiretto, cioè i servizi dello stato assistenziale; questa sovrapposizione diventa insostenibile da qualunque regime, ivi compreso quello socialista”. Del resto, quanto sta succedendo nel mondo del lavoro in materia di evasione degli oneri sociali ce lo dimostra: il lavoro nero, il sommerso, il parziale, il sottobanco, il lavoro a domicilio, ecc. Poi c’è un terzo pregiudizio, quello dell’austerità, la cui sola parola suscita il timore di una catena di restrizioni insopportabili. Si tratta di un falso problema: una politica di austerità non significa diminuzione delle risorse, ma uso diverso delle risorse. Per dirla con uno slogan: “consumare di più, ma consumare diversamente”. Si deve puntare alla qualità per far si che le eventuali restrizioni di reddito vengano largamente compensate da un miglioramento qualitativo della vita. Infine l’ultimo tabù che le sinistre hanno timore ad affrontare: la difesa del posto di lavoro. “Anche in questo caso”, dice Lombardi, “si tende a sfuggire dal problema reale: la necessità di farsi carico della mobilità del lavoro, che è un’esigenza iscritta proprio nei processi di trasformazione in atto nel sistema economico. Organizzare e governare il lavoro è un onere a cui la sinistra non può sottrarsi se non vuole che anche questa volta prevalgano distorsioni e forme perverse a danno delle masse lavoratrici, ma anche a danno dell’economia di tutto il paese”. Se questi sono i tabù che ostacolano l’elaborazione di un progetto di governo alternativo della sinistra, ci sono però anche pregiudizi politici da rimuovere e da superare. Non è facile trascinare Lombardi su questo terreno, cos’ cerca proprio di provocarlo. Cito una frase di Nenni del 1945: “Socialisti e comunisti sono alleati o sono nemici. Non c’è via di mezzo”. Lombardi mi risponde in maniera altrettanto lapidaria: “Quanto più si è vicini, tanto più, per evitare confusioni, per non essere assorbiti e condizionati, si tende a marcare gli elementi di diversità”. Basterebbe, dice, considerare quanto è avvenuto e avviene tra le diverse sette di una stessa confessione. La ricerca della propria identità da parte dei socialisti e dei comunisti che sono forze vive e attive in una società a sua volta in movimento, si pone come un processo continuo. E dinamico è dunque il loro confronto che non può non avere anche fasi di scontro e di tensione. Questa dialettica non è, per Lombardi, un fatto negativo: “Io ho sempre pensato che la divisione nella sinistra sia un elemento positivo. Non dico l’ostilità permanente; ma la pluralità delle posizioni, la specificità delle singole vicende arricchiscono il patrimonio della sinistra e finiscono col diventare una ricchezza comune ai due partiti”. La sinistra si impoverisce solo quando la capacità di elaborazione politica delle sue componenti diminuisce, e ciascuna tende ad arroccarsi su posizioni di consolidamento dell’esistente. Socialisti e comunisti appaiono oggi preoccupati soprattutto di preservare il terreno di consenso già acquisito, caso mai di …

DALLA LOTTA PARTIGIANA ALLE RIFORME DI STRUTTURA

La storia  La vicenda politica di Riccardo Lombardi si è sviluppata attraverso un’epoca di grandi mutamenti e sconvolgimenti nella storia del paese. Ha 18 anni nel 1919, quando comincia l’ascesa del movimento fascista: la severa educazione religiosa ricevuta in famiglia influisce sulle sue prime scelte politiche, portandolo a simpatizzare con la sinistra cattolica di Miglioli, che lo squadrismo sta combattendo con lo stesso furore impiegato per sconfiggere il movimento socialista. 1922-1942 La crisi dello stato liberale, la marcia su Roma e il delitto Matteotti, che preparano l’avvento della dittatura mussoliniana, lo trovano già attivo nella prima opposizione antifascista. Il legame con i cattolici si è indebolito col declinare della solidarietà dei popolari all’antifascismo, e poi con la scomparsa del partito di Sturzo. Si è rafforzato, invece, il suo rapporto con i gruppi democratici, socialisti e comunisti che non si piegano al fascismo. I quindici anni che seguono, sono un periodo di lotta clandestina, vissuta con uno spirito unitario che prescinde dalle divisioni e dalle dispute ideologiche degli antifascisti esiliati. Troppo giovane nel ’19-’21 per aver condiviso le lacerazioni tra i partiti della sinistra, Lombardi compie le sue prime scelte politiche ed ideologiche in questa tormentata stagione politica. Si accosta al movimento di “Giustizia e Libertà ” di cui diventa esponente di primo piano e nel ’42 è tra i promotori del partito d’azione. 1942-1948 Militante attivo nella Resistenza, membro dei CLN, Lombardi vive questa esperienza di lotta come un momento di rinascita nazionale in cui vengono gettate le basi della nuova democrazia italiana. La rottura col passato, che è stata la molla del suo antifascismo, diventa il tema dominante del suo impegno politico quando, nel ’45, con la presidenza dell’azionista Parri, si forma il primo governo dell’Italia libera. La sua battaglia politica contro le forze della continuità è impostata fin dall’inizio sul problema delle riforme di struttura che rimarranno la chiave della strategia di Lombardi anche negli anni successivi. Per far uscire il paese dalle distruzioni morali e materiali di vent’anni di fascismo e di sei anni di guerra, per procedere alla rifondazione dello stato, bisogna intervenire sui mali antichi che hanno distorto il suo sviluppo economico e sociale, indebolendone contemporaneamente le istituzioni politiche. Il rinnovamento strutturale passa per la soluzione del divario nord-sud, per la riforma agraria, per il controllo pubblico dell’apparato produttivo industriale e finanziario, per un’azione programmata dello stato finalizzata ad un intervento riformatore in ogni settore della società. Il prevalere di un indirizzo di politica economica liberista, opposto alle istanze pianificatrici di Lombardi, segna una sconfitta di tutta la sinistra, che appare, in questa prima esperienza di governo, incapace di impostare una strategia unitaria. Dopo lo scioglimento del partito d’azione, Lombardi aderisce nel ’47 al Psi in un momento di profonda lacerazione all’interno del socialismo italiano: la questione comunista ha diviso la componente socialdemocratica dalla maggioranza socialista guidata da Nenni. 1948-1964 Per Lombardi, il rapporto con i comunisti conosce momenti anche di aspro dissenso, ma non altera la sua convinzione ferma nel compito storico delle forze della sinistra di costruire la nuova società. In seguito alla sconfitta del fronte popolare nelle elezioni del ’48, diventato direttore dell’Avanti!, si batte per la ripresa dell’autonomia politica del partito socialista dai vincoli di un’unità d’azione con il Pci, che ha contribuito alla polarizzazione della situazione politica nel paese. Le tensioni internazionali della guerra fredda e l’offensiva delle forze reazionarie e conservatrici in italia, consolidano invece i legami tra i due partiti, accentuando la tendenza egemonica del Pci su tutta la sinistra. L’opposizione al frontismo, che Lombardi esprime negli anni successivi, sta soprattutto nel suo impegno costante a mantenere viva un’elaborazione socialista originale, capace di riportare il Psi ad un ruolo di protagonista della vita politica italiana. È un periodo fecondo, in cui il suo discorso riformatore si arricchisce di contributi e di significati nuovi alla luce delle profonde trasformazioni in atto nella società italiana che aprono, anche nel quadro politico, nuovi spazi di intervento. Lombardi vede nel dialogo che è cominciato tra socialisti e cattolici la possibilità di avviare le prime riforme, approfittando anche della congiuntura economica particolarmente favorevole. 1964-1984 L’involuzione del centro-sinistra e ravvicinamento del partito socialista e del partito socialdemocratico, che porterà ad una breve stagione di unificazione, spostano Lombardi all’opposizione nel partito. Il suo “riformismo rivoluzionario”, impostato sulla trasformazione degli equilibri societari, non è compatibile con il disegno di stabilità perseguito dalle forze di maggioranza. Tanto più che l’immobilismo del sistema è in pieno contrasto con una società in movimento, ormai alla vigilia della svolta del ’68. La necessità di un’alternanza democratica nel quadro politico bloccato dall’egemonia trentennale della democrazia cristiana, rilancia il problema della sinistra di governo. È questa la condizione necessaria per la realizzazione di quella strategia dell’alternativa diventata, dagli anni ’70 in poi, il fulcro dell’elaborazione politica di Lombardi. In questa chiave, la politica di compromesso storico del Pci lo trova in posizione critica: il disegno che emerge con il governo di unità nazionale nel ’76, tende ancora una volta alla conservazione degli equilibri sociali e politici esistenti, garantiti dall’accordo tra i due massimi partiti. La fine di questa fase e il forte rilancio dell’identità politica del Psi ridanno vigore alla strategia dell’alternativa socialista che poggia sulla dinamica pluralista delle forze democratiche e sul dialogo paritario nella sinistra. Ma l’autonomia dalla Dc e dal Pci rivendicata dai socialisti, rilancia un’alleanza di governo che pur nel passaggio del ruolo guida prima ai laici e poi agli stessi socialisti, rinvia i tempi dell’alternativa. Per Lombardi è solo un rinvio, un momento di transizione verso un cambiamento che proprio nelle difficoltà dell’oggi trova le ragioni politiche della sua ineluttabilità. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

LOMBARDI, UNA VITA SOCIALISTA

di Claudio Signorile Le cose fatte e dette dai militanti della politica sopravvivono per essere ogni giorno discusse, accettate, respinte, interpretate; per suscitare nuove idee, per determinare nuovi fatti. Riccardo Lombardi ha aperto la sinistra italiana ad una cultura di governo, quando le tematiche che la sinistra affrontava erano tematiche difensive; quando si affidava agli anni a venire il crollo e la fine della società nella quale si viveva. Lombardi parlò allora della strategia delle riforme, e attraverso l’analisi lucida e concreta delle riforme di struttura, della loro importanza, della loro capacità di determinare nuove aggregazioni sociali, di realizzare una qualità diversa del tessuto economico e degli equilibri del Paese, portò la sinistra sul terreno di una sinistra di governo. Una sinistra, cioè, capace di vedere i problemi reali della società, non secondo un’ottica parziale e partigiana, non secondo la difesa di interessi soltanto di classe, ma seguendo una visione complessiva di moderna democrazia industriale, governata e diretta dalle forze popolari, dagli esponenti degli interessi prevalenti del mondo del lavoro e della intelligenza, in sostanza da quella sinistra di progresso e di nuova democrazia che egli aveva sempre fortemente voluto. In questo senso Lombardi è stato l’uomo di tutta la sinistra; in questo senso Lombardi ha dato ad un partito socialista che dopo la Resistenza si presentava come un insieme di eredi turatiani, di massimalisti di ritorno, di superstiti azionisti, un filo rosso di congiunzione e una linea di riferimento alla quale gradualmente, prima o poi, tutti hanno ceduto. Lombardi aveva ben chiaro il pericolo delle riforme dimezzate, della strategia di intenzioni e non di fatti, e quindi della necessità del protagonista politico, del soggetto collettivo in grado di essere portatore di questa strategia riformatrice; garante della sua attuazione; difensore rispetto ai contraccolpi della forze restauratrici oggettivamente espresse dallo sviluppo di questa linea. Per questo Lombardi è stato l’uomo dell’alternativa di sinistra. Alternativa che non è un mito, una generica aspirazione, che non assume i caratteri escatologici della rivoluzione sociale, ma diventa più concretamente e più limpidamente individuazione di quel quadro di forze sociali e di quel sistema di alleanze politiche in grado di esprimere una comune strategia di riforme e una qualità nella cultura di governo da tradurre poi nei fatti e nelle azioni, nel governo del movimento e nel governo delle istituzioni. Su questo terreno Riccardo è stato costantemente presente, non in forme declamatorie. La polemica con i comunisti che egli ha sviluppato – e poteva sviluppare proprio perché profondamente e consapevolmente convinto del ruolo della sinistra e della sua unità in una strategia di democrazia rinnovata – aveva questo obbiettivo: non una polemica antagonista, ma una polemica di cambiamento; non una conflittualità fine a se stessa, alla ricerca di spazi generici nella società italiana, ma la conflittualità nella individuazione di quale sinistra fosse necessaria per dare al Paese e alla democrazia italiana una credibile guida di progresso. L’alternativa in Lombardi, quindi, è una politica funzionale al governo della democrazia; funzionale alla attuazione della strategia riformatrice; non una somma di schieramenti – si ricordi la polemica lombardiana sul 51% – ma un obbiettivo politico in grado di dare quei risultati pratici cui è finalizzato. Ed in questo senso il ruolo del partito socialista, così come Lombardi lo ha concepito, non poteva essere un ruolo subalterno o, viceversa, legato ad una sorta di orgoglioso isolamento. Il partito socialista che Lombardi sentiva da autentico autonomista, con geloso senso della sua indipendenza e delle sue potenzialità, non poteva essere “partito di parte“; non poteva legare la propria esistenza alla gestione del potere, i propri confini alla avara amministrazione del consenso acquisito. Il partito socialista, nella concezione e nella strategia di Lombardi, è sempre stato un partito del movimento, un partito la cui forza consisteva proprio nell’esprimere un progetto di società, di disegnare costantemente, continuamente, un sistema di alleanze funzionale a questo progetto di nuova società. Un partito, quindi, e in questo Lombardi si avvicinava molto e trovava molti punti di somiglianza con alcuni temi della politica nenniana – in grado di far muovere costantemente e continuamente il sistema politico, le altre forze politiche, farle cambiare, determinare via via processi di trasformazione finalizzati al progetto di fondo: una democrazia di qualità economica e di equilibri sociali coerenti ad un governo della sinistra; una sinistra di governo, perché capace di sentire e di capire i processi di riforma necessari a dare benessere e stabilità ad una moderna democrazia industriale. In realtà Lombardi era assai più pragmatico e concreto di quanto comunemente si pensi. Pragmatico e concreto non soltanto per la forte capacità di analisi economica per la piena consapevolezza dell’importanza dei legami internazionali e delle compatibilità nell’economia internazionale di un paese come il nostro; ma anche perché capace di cogliere i passaggi di un processo politico, di capire le ritirate necessarie, i necessari momenti di attesa. Ma di saper cogliere coraggiosamente i punti di attacco quando essi si presentano inevitabili e indispensabili. Probabilmente il momento lombardiano della politica si sta gradualmente avvicinando perchè una fase politica tende al tramonto. Abbiamo la convinzione che parlare di socialismo non è un’utopia; la convinzione che bisogna pensare grande, che non bisogna avere timore dei grandi disegni e delle grandi strategie; che la politica vive nella concretezza dei fatti di ogni giorno, ma vive nel legame che questi fatti quotidiani hanno con i grandi valori attraverso i quali il bisogno dell’uomo di giustificare se stesso e la sua storia si esprime. Lombardi ha detto che una società è socialista, quando consente a ciascun individuo la più ampia possibilità di decidere della propria esistenza, di costruire la propria vita. Il socialismo non è quindi annullamento dell’individuo, ma al contrario, piena esaltazione di ciascun uomo. La libertà non è un astratto valore da ricordare in momenti particolari, ma la condizione stessa della vita dell’uomo. La libertà è il valore concreto che si vive ogni giorno essendo consapevoli protagonisti della propria storia. E quando questa scelta la compiono, uno, dieci, mille, centomila, milioni di uomini, ecco che la democrazia …

LE SCELTE DELL’8 SETTEMBRE

di Franco Astengo Il ricordo dell’8 settembre, crocevia decisivo per la storia d’Italia, deve accompagnarsi necessariamente con la rappresentazione della Resistenza. La memoria della Resistenza è direttamente connessa con le scelte compiute in quella giornata. Scelte individuali e collettive. La più importante fra queste scelte fu adottata il giorno dopo l’annuncio dell’Armistizio e l’abbandono completo dello Stato da parte di chi avrebbe dovuto rappresentarlo e costituirne l’autorità: la Monarchia e il Governo. Il Comitato di Liberazione Nazionale (CLN) nasce il 9 settembre 1943 a Roma. L’indomani della “fellonia” della casa reale e del governo Badoglio. È il momento più difficile della storia nazionale unitaria: il territorio italiano, dopo lo sbarco alleato in Sicilia, quello in Calabria e quello a Salerno – che avviene lo stesso 9 settembre – è diventato una delle aree di guerra in cui le truppe anglo-americane e quelle tedesche si affrontano direttamente. L’annuncio dell’armistizio, il giorno 8, non è stato preparato in alcun modo e le forze armate italiane si trovano completamente allo sbando. E’ la scelta più difficile, i partiti si sono appena ricostruiti dopo venti anni di dittatura. Eppure si trova la forza di proclamarsi rappresentanza e guida dell’intero popolo italiano. La costituzione del CLN. Il CLN unisce in un unico organismo i diversi partiti dell’antifascismo storico, ognuno con un suo rappresentante. Sotto la presidenza di Ivanoe Bonomi rappresentante di Democrazia del Lavoro antico socialista riformista e futuro presidente del Consiglio, ci sono esponenti del Partito Comunista (Mauro Scoccimarro e Giorgio Amendola), del Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria (Pietro Nenni e Giuseppe Romita), del Partito d’Azione (Ugo La Malfa e Sergio Fenoaltea), della Democrazia Cristiana (Alcide De Gasperi), della Democrazia del Lavoro (Meuccio Ruini) e del Partito Liberale (Alessandro Casati). Il Comitato, che fungerà da “direzione politica” della lotta di Liberazione, si prefigge il compito di «chiamare gli italiani alla resistenza» contro il nazifascismo e «riconquistare all’Italia il posto che le compete nel consesso delle libere nazioni». Era la giornata del 9 settembre 1943, mentre la divisione Granatieri era impegnata nella difesa ad oltranza del ponte della Magliana, nella città, abbandonata a se stessa, in mezzo alla ridda delle voci contrastanti, i gruppi politici antifascisti cercavano faticosamente d’orientarsi sulla situazione e di prendere contatto con gli organi del governo Badoglio. Il Comitato delle opposizioni delega a questo scopo nelle prime ore del mattino Bonomi e Ruini, i quali si recano al Viminale e vi apprendono la notizia della fuga del re. Li ha preceduti una missione dell’Associazione combattenti richiedendo la distribuzione di armi per potersi battere a fianco dell’esercito. La richiesta, benché appoggiata dagli emissari del Comitato delle opposizioni, è «respinta con un no freddo. Anzi qualcuno, da parte monarchica, aggiunge che non bisogna esasperare gli invasori». Posto di fronte alla più drammatica delle situazioni, con la sensazione di avere dinnanzi a sé il vuoto più assoluto d’ogni «autorità costituita» il Comitato delle opposizioni reagisce immediatamente; constatando la frattura decisiva determinata dall’8 settembre e traendo da questa constatazione l’indicazione delle sue nuove responsabilità, alle ore 14,30 esso approva la seguente mozione: “Nel momento in cui il nazismo tenta restaurare in Roma e in Italia il suo alleato fascista, i partiti antifascisti si costituiscono in Comitato di Liberazione Nazionale, per chiamare gli italiani alla lotta e alla resistenza per riconquistare all’Italia il posto che le compete nel consesso delle libere nazioni.” Si trattò del passaggio decisivo questo della costituzione del CLN perché si verificasse l’indispensabile connessione tra l’individuale e il collettivo in una dimensione politica plurale: una grande novità dopo l’imposizione ventennale del totalitarismo fascista. Si può ben dire che in quell’occasione si cominciò a costruire l’Italia repubblicana superando anche i limiti del Risorgimento (la gramsciana “rivoluzione mancata”) dai tanto vituperati, in seguito, partiti: fra i quali i grandi partiti di massa, -il cui modello è stato incautamente abbandonato per abbracciare l’idea dei partiti personali-, della governabilità esaustivamente intesa quale unica cifra dell’agire politico nell’omissione della necessità di rappresentanza come si sta pericolosamente imponendo in questa difficile fase storica. La costituzione del CLN corrispondeva a un insieme di scelte individuali che le donne e gli uomini stavano compiendo in tutto il Paese: al Nord si andavano già costituendo le prime formazioni partigiane. Migliaia di militari sbandati si concentrano in zone di montagna con le armi di ordinanza pronti a difendersi, soprattutto in Piemonte per la dissoluzione della IV Armata dal rientro dalla Francia. Era il momento delle scelte. Prima di tutto non si può affermare che l’8 settembre rimanga come un nodo irrisolto nella storia d’Italia: atti, ruoli, protagonisti, responsabilità sono chiari e restano incontrovertibili nel delineare l’identità del nostro Paese per un’intera fase storica. Si verificano passaggi storici che quasi “costringono” a prendere coscienza di verità che, in precedenza, apparivano come latenti o la cui piena consapevolezza sembrava riservata a pochi. In quel drammatico frangente emerse la necessità di esplicitamente consentire o dissentire: il sistema stava crollando e gli obblighi verso lo Stato non costituivano più un sicuro punto di riferimento per i comportamenti individuali. In questo senso Claudio Pavone, nel suo fondamentale “Una guerra civile, saggio storico sulla moralità della Resistenza” cita opportunamente Hobbes, riferendolo direttamente all’Italia del 1943: “ L’obbligo dei sudditi verso il sovrano s’intende che dura fino a che dura il potere, per il quale esso è in grado di proteggerli, e non più a lungo, poiché il diritto che gli uomini hanno per natura di proteggere se stessi, quando nessun altro può proteggerli, non può essere abbandonato a nessun patto.” La scelta doveva, infatti, esercitarsi fra una disobbedienza per la quale apparivano altissimi i prezzi da pagare e le lusinghe della pur tetra, “normalizzazione” nazifascista. Il primo significato di libertà che assunse la scelta resistenziale fu implicita nel suo rappresentare un atto di disobbedienza. Non si trattò tanto di ribellione a un governo legale, perché su chi detenesse la legalità non c’erano dubbi e la legalità non stava certo dalla parte dei nazifascisti, ma di ribellione verso chi disponeva, in quel momento, della forza per farsi obbedire. …

RICORDO DEL 25 LUGLIO 1943

di Franco Astengo Il 25 Luglio 1943, settanta cinque anni or sono, cadde il regime fascista. E’ necessario ricordare questa data (come altre della nostra storia più recente) perché la memoria non può essere smarrita, ma coltivata per avere sempre presente, noi che abbiamo già raggiunto quella che si definiva “una certa età” e soprattutto per i giovani, le motivazioni di fondo su cui è sorta la nostra democrazia repubblicana. Democrazia repubblicana al riguardo della quale è necessario nuovamente lanciare segnali di pericolo circa la sua tenuta nell’ambito della Costituzione: respinto un ennesimo assalto grazie all’esito del voto popolare il 4 dicembre 2016, adesso siamo addirittura – da parte di esponenti di un partito di governo – ai proclami di “inutilità del Parlamento”. Per questo motivo ogni richiamo possibile alla lotta antifascista e per la democrazia deve essere tenuto in gran conto, coltivato, espresso ogni qualvolta possa essere possibile. Un resoconto schematico, quello compilato per l’occasione, che principia ricordando come, tra la fine del 1942 e gli inizi del 1943, quando le sorti della guerra fascista apparivano ormai definitivamente compromesse, gli antifascisti fossero ancora troppo deboli per rappresentare una concreta alternativa politica. I partiti democratici (PCI, PSI, DC, Democrazia del Lavoro, Partito d’Azione, PLI) ancora in clandestinità in Italia in quei mesi erano privi di strutture organizzative, senza poter comunicare con il paese: soltanto i comunisti avevano conservato una presenza organizzata, in particolare nelle grandi fabbriche del triangolo industriale, dove nel mese di Marzo 1943 erano riusciti a organizzare scioperi basati, essenzialmente, sul grande malcontento scatenato dalla guerra, che aveva ridotto in miseria e portato nel pericolo, per via delle incursioni aeree, le grandi masse popolari. Gran parte dei quadri dirigenti delle formazioni politiche si trovavano ancora in galera, al confino o in esilio. La monarchia godeva, invece, di maggiore libertà d’azione, avendo conservato per tutto il ventennio il suo potere legittimo grazie ad una totale compromissione con la dittatura. Quando il carro del dittatore si fece traballante, il Re disponeva ancora dell’autorità e della forza per abbatterlo. Soprattutto, all’interno di casa Savoia (in particolare da parte della principessa ereditaria Maria Josè del Belgio) si sentiva l’urgenza di distaccarsi dal fascismo, nel timore che un suo crollo rovinoso trascinasse nel medesimo destino anche la dinastia regnante. Era stato Vittorio Emanuele III, infatti, nel lontano 1922, al momento della Marcia su Roma, a nominare Capo del Governo il Duce; era stato lui, nel 1924, a respingere l’appello degli antifascisti che chiedevano le dimissioni di Mussolini dopo la scoperta del delitto Matteotti; e sempre lui, non aveva elevato alcuna protesta, allorquando nel 1925 – 26 il fascismo aveva compiuto la distruzione delle fondamenta dello Stato liberale. Per tutti gli anni seguenti il Re aveva avallato ogni scelta del regime, comprese le leggi razziali nel 1938, dopo aver accettato il titolo di Imperatore d’Etiopia dopo la banditesca impresa (con tanto di uso dei gas asfissianti) tra il 1935 e il 1936. Si arrivò così all’alleanza con la Germania, fino alla precipitazione dell’Italia nel secondo conflitto mondiale (10 Giugno 1940). Vittorio Emanuele III si mosse, allora, soltanto nel 1943, quando la sconfitta bellica appariva ormai ineluttabile, rischiando di trascinare la monarchia nel crollo della dittatura fascista. Il crescente distacco del Paese dal Regime, l’opposizione sempre più evidente della Chiesa che, a partire dalla svolta razzista del ’38 aveva preso le distanze dal dittatore dopo aver stipulato con esso il Concordato del 1929, il formarsi, all’interno delle gerarchie fasciste, di un consistente movimento di fronda da parte di un gruppo di gerarchi deciso a garantirsi un futuro anche senza Mussolini, infusero al Re il coraggio necessario per arrivare alla resa dei conti. Lo sbarco in Sicilia degli anglo – americani e il primo bombardamento di Roma, il 19 Luglio 1943, fecero rompere gli indugi. Nella notte tra il 24 e il 25 Luglio, al Gran Consiglio del Fascismo, passò a maggioranza l’ordine del giorno Grandi contro Mussolini che, il pomeriggio seguente, fu fatto arrestare dal Re nel cortile di Villa Savoia. A poche ore di distanza (l’annuncio fu dato alla radio alle 10,45 del 26 Luglio) l’intera popolazione scese per le strade plaudendo al colpo di Stato della Monarchia e cancellando i simboli del Regime, dalle strade e dai palazzi. Il Re, dunque, sembrava uscire vincitore da questo primo rimescolamento di carte: aveva abbattuto il dittatore e formato un governo di militati e tecnici fedeli alla Monarchia, presieduto dal maresciallo Badoglio. Il nuovo Governo si preparò, così, nonostante gli annunci formali (la guerra continua…) a trattare la resa, con gli anglo – americani. La successione al fascismo si venne, però configurando come assai meno radicale del previsto. Il nuovo Regime, infatti, apparve incamminarsi sulla strada dell’autoritarismo, non escludendo una volta patteggiata la resa alcune caute aperture democratiche, ma sempre nell’ambito del patrimonio di ordine, di pace sociale, di autorità centralizzata che, agli occhi della Monarchia e degli esponenti del nuovo Governo, rimaneva in ogni caso il maggior pregio del fascismo. Insomma, la prospettiva della democrazia continuava a far paura nel 1943, come nel 1922. La tumultuosa ascesa delle classi subalterne nella vita dello Stato, che aveva ripreso corpo con gli scioperi del Marzo 1943, terrorizzavano i ceti dominanti. L’obiettivo della monarchia restava , sostanzialmente, una volta usciti dalla guerra, quello di un fascismo senza Mussolini. Un disegno complicato da due variabili fondamentali: da un lato rimaneva irrisolto il problema della pace; contemporaneamente il nuovo Governo dichiara di voler continuare la guerra al fianco dei Tedeschi e apre trattative per la resa agli alleati. Una situazione di ambiguità, che causò danni enormi al Paese. Dall’altro lato l’antifascismo, ancora privo al 25 Luglio della forza necessaria per abbattere il Regime, nei giorni immediatamente successivi compì un vero e proprio balzo in avanti, rappresentando un punto di riferimento per le manifestazioni di protesta che si succedettero in tutto il Paese, maledicendo i fascisti e chiedendo con forza la pace. Il piano di successione al fascismo, così come casa Savoia lo aveva progettato nel luglio del 1943, durò …

FIGURE DEL SOCIALISMO RIFORMISTA TRA LOMBARDIA E PIEMONTE

Gli iscritti al circolo giovanile socialista del quartiere operaio di Borgo San Paolo a Torino nel 1914   Tratto da un’opera di Giovanni Artero: APOSTOLI DEL SOCIALISMO SCHEDE BIOGRAFICHE GIUSEPPE LIBOI Nasce nel 1863 a Besozzo (Varese); dopo la seconda elementare inizia a lavorare come muratore. Nel marzo 1901 per la Prefettura di Milano: “ aveva molto ascendente nel settore dei lavoratori edili nel partito … a Milano e nelle provincie limitrofe. Ha rapporti con Angiolo Cabrini e soprattutto con Silvio Cattaneo” con cui il 14 maggio 1898 ripara in Svizzera perché sospettato di essere fra i promotori dei moti di Milano: infatti fu spiccato mandato di cattura nei suoi confronti, poi decaduto per insufficienza di prove. Molto attivo nell’organizzazione della Federazione Italiana arti murarie e impegnato a costituire sezioni della “Associazione Mutua e miglioramento fra muratori”, è “un efficiente propagandista anche se si esprime per lo più in dialetto lombardo”  Nel 1896 tiene in molti paesi del circondario milanese delle conferenze di propaganda per l’Associazione e per far aderire quelle già esistenti alla Federazione Muraria e alla Camera del Lavoro. Nel 1900 con Silvio Cattaneo e Pietro Bellotti ricostruisce la Camera del Lavoro dopo lo scioglimento dandole indirizzo socialista rivoluzionario. Prende la parola ai comizi di esponenti socialisti fra cui Cabrini e Dino Rondani e nel 1902 è nominato delegato della Carnera del Lavoro per le arti edilizie. Nel 1905 cambia posizione e appoggia l’area riformista, con cui si presenta alle elezioni della Commissione Esecutiva della Camera del Lavoro, ma non è eletto. Il 29-30 settembre 1906 partecipa al congresso della Resistenza a Milano che delibera di trasformare il Segretariato Nazionale della Resistenza nella Confederazione Generale del Lavoro (CGdL) con sede a Torino e in cui è eletto componente del Comitato di Vigilanza. Nel 1907-8 è molto attivo e partecipa a conferenze e manifestazioni in tutta la Lombardia: a Como è presidente della commissione per la costituzione di due Leghe: delle arti tessili ed edilizie, nelle provincie di Como e Bergamo tiene conferenze in molti paesi a volte interrotte dagli organi di polizia presenti “per accenni vivaci ai conflitti tra operai e forza pubblica“. A Como è eletto anche delegato della locale “Società Umanitaria”. Il 3 aprile 1910 interviene alla riunione degli scalpellini e marmisti di Viggiù in sciopero consigliando prudenza. Il 22 gennaio 1911 si presenta alle elezioni amministrative nella lista dei partiti popolari ma non è eletto; dal 1913 al 1917 vive a Milano lavorando come Segretario della Cooperativa muratori e tenendo qualche conferenza. FONTI: Archivio Centrale dello Stato, Casellario Politico Centrale. www.umanitaria.it “voci di quartiere, storie di vita vissuta”  p.3, 14; M. Antonioli, J. Torre Santos Riformisti e rivoluzionari : la C.d.L. di Milano dalle origini alla Grande guerra, 2006, pag. 145   UGO OSVALDO MAFFIOLI Nasce nel 1871 a Castellanza. Operaio tessile, riesce a mettersi in proprio sino ad impiantare una piccola fabbrica di cravatte. Iscritto al partito socialista dalla fondazione e attivo propagandista nell’ambito della Camera del lavoro di Milano, massone e di tendenza riformista, al XIII Congresso nazionale del PSI (Reggio Emilia, 1912) si schiera con i riformisti di sinistra, vota il documento di Francesco Ciccotti sulla tattica elettorale e, sull’espulsione della destra riformista di  Bissolati e Bonomi, interviene perché sia limitata e motivata individualmente. Alle elezioni politiche del 1913, nel terzo collegio di Milano, supera al ballottaggio il radicale Manfredini, con un’intensa campagna centrata sulla necessità che il proletariato scelga i propri rappresentanti nelle proprie fila, rifiutando i tradizionali legami con la borghesia più avanzata. Eletto nel giugno 1914 anche consigliere al comune di Milano, sull’intervento si pronuncia in un primo momento a favore delle posizioni di Mussolini interventista, ma rifiuta poi di seguirlo fuori dal partito, come ribadisce sia in una riunione con Majno e Caldara, sia in una assemblea di dirigenti del socialismo milanese (Turati, Caldara, Sarfatti, Ferrari, Allevi e Marangoni) in cui viene votato un documento di «simpatia» per le «democrazie occidentali». Come amministratore comunale propone la municipalizzazione dei servizi di approvvigionamento e  distribuzione del carbone e del gas per battere la manovra speculativa conseguente all’intervento in guerra. Nel 1917 si allinea con Turati e Treves nell’auspicare l’appoggio del Gruppo Parlamentare Socialista  al governo «nazionale» e  partecipa ad una delle «commissioni» create per sostenere lo sforzo bellico. Attaccato da Luigi Repossi per il suo «collaborazionismo» al XV Congressö nazionale del PSI (Roma, 1918), replica che solo grazie alla presenza socialista all’interno delle commissioni si erano evitate manovre antiproletarie e si erano potuti sapere particolari «altrimenti inconoscibili». In tale occasione appoggiala mozione di G.E. Modigliani favorevole al rinvio della discussione sulla adesione alla III Internazionale. Nel maggio 1919 compie un viaggio personale a Budapest e in un colloquio con Béla Kun dichiara che il programma del PSI ed i suoi dirigenti sono rivoluzionari solo a parole. A Costantino Lazzari che condanna sull’Avanti! la «leggerezza» di queste dichiarazioni strumentalizzate dalla stampa borghese, precisa il carattere strettamente personale dei giudizi espressi nel corso di una visita informale e presenta le dimissioni dal partito, che la sezione socialista milanese respinge a maggioranza. Ma “l’Avanti!” continua gli attacchi personali insinuando essersi in più occasioni servito del mandato parlamentare e delle relative agevolazioni, come la tessera ferroviaria, per i propri interessi privati di industriale manifatturiero. Il «caso», momentaneamente accantonato di fronte all’urgenza di altre scadenze, come il XVI Congresso del partito (che vi accenna solo di sfuggita) e le elezioni politiche del novembre 1919 (in cui non viene ripresentato), è risollevato nel gennaio 1920, quando in una riunione della sezione socialista milanese si ricorda che l’ex-deputato ha mantenuto un comportamento «corretto, da galantuomo» e da sette mesi aspetta una delibera definitiva. Nella successiva riunione del 17 febbraio Serrati ricorda che la stampa borghese ha sfruttato l’incidente per attribuire al caso il carattere di una sconfitta dell’”Avanti!” e di tutta la corrente massimalista, che pur essendo la maggioranza aveva «ceduto» alla volontà della destra riformista. Egli riconferma le proprie dimissioni ed esce dal partito ma rimane in contatto con i riformisti milanesi e alla loro …

ALBERTO JACOMETTI, VITA DI UN SOCIALISTA “SCOMODO”

FIGURE DEL SOCIALISMO RIFORMISTA TRA LOMBARDIA E PIEMONTE Tratto da un’opera di Giovanni Artero: APOSTOLI DEL SOCIALISMO Con l’aggettivo “scomodo” si è voluta indicare la coerenza delle scelte di vita di  Alberto Jacometti, ispirate a principi etici e politici che prescindevano da opportunità personali: pur provenendo da una famiglia di affittuari della pianura padana, che come ceto appoggiarono il movimento fascista, sposò la causa dei lavoratori e, contrariamente alla maggior parte dei giovani socialisti della sua generazione, sposò il riformismo anziché il massimalismo e il comunismo. Rinunziò agli affetti familiari e ad un lavoro interessante per non piegarsi al regime, affrontando i disagi e le difficoltà dell’emigrazione. Si caricò dell’ingrato compito di reggere la segreteria nazionale del PSI dopo la sconfitta del Fronte Popolare e, con una Direzione che comprendeva Riccardo Lombardi, Vittorio Foa, Ferdinando Santi, anticipò temi (l’alternativa democratica, la strategia delle riforme, la programmazione democratica) ripresi nel decennio successivo. Dopo la generazione dei pionieri (i Lazzari, Turati, Treves, Morgari, Prampolini…), dopo quella dei Matteotti, Serrati, Nenni, la terza generazione socialista ha espresso militanti, passati attraverso il carcere e l’esilio, della tempra  di  Pertini, Colorni, Mazzali, Basso, Morandi, e non ultimo Alberto Jacometti.   Gli anni della formazione (1902-26) L’infanzia in cascina e l’influenza tolstoiana Alberto Jacometti nacque il 10 marzo 1902 alla Grampa, un cascinale del comune di S. Pietro Mosezzo, in mezzo alle risaie della Bassa novarese[1], ultimo dei quattro figli di  Giuseppe, già proprietario di una macelleria e allora affittuario di una grossa tenuta coltivata a riso di proprietà di una famiglia della nobiltà  milanese, i marchesi Crivelli. Suoi compagni di gioco e di scuola nell’infanzia furono i figli dei salariati che lavoravano nell’azienda paterna, e proprio la constata-zione delle differenze  tra la sua vita e quella dei suoi compagni, del comportamento ossequioso dei contadini nei confronti del padre – figura autoritaria con cui entra presto in conflitto nonostante l’affetto filiale – che si manifesta­rono in lui i primi dubbi, si imposero quelle domande a cui rispose aderendo al socialismo. L’adesione al socialismo è mediata dall’incontro con Tolstoj negli anni dell’adolescenza: quando aveva tredici anni il preside dell’Istituto tecnico da lui frequentato, che aveva l’abitudine il sabato di distribuire agli allievi i libri della biblioteca scolastica, gli diede da leggere “La vera vita”[2]: “Tolstoi mi sconvolse. Mi faceva ritornare al Cristo dei miei primi anni e nello stesso tempo mi slargava davanti orizzonti immensi, risolveva dubbi. Con gran sorpresa di amici, compagni, familiari, la mia vita cambiò da cima a fondo: smisi di bere vino, rinunciai a tutti gli oggetti d’oro, vestii dimes­samente e non so che ancora. Feci un bagno d’umiltà. Ne nacquero spiegazioni difficili e situazioni assurde. Come tutti i neofiti cercavo l’assoluto. Una grande parola fiammeggiava nel mio cervello: amore. Sorsero i primi problemi concreti; ritornando a ca­sa in campagna mi guardai attorno per la prima volta. I miei coetanei, quelli che avevano frequentato la scuo­la con me al paese, erano diventati contadini e manzo­lai: erano scarni, scamiciati, scalzi, avevan le dita dure come artigli. Perché io e non loro? Perché io ero vestito da «signore» e loro no, potevo continuare gli studi e loro no, avevo tre mesi di vacanza e non loro, mi sedevo, il mezzogiorno e la sera, accanto a una ta­vola con tovaglia di bucato e cibi svariati e copiosi, e loro trangugiavano una ciotola di minestra serrata tra i ginocchi sulla soglia di casa? Tra di noi, ero io che dovevo vergognarmi e curvare la fronte, il privilegiato. Si possono rifiutare molte cose, il privilegio te lo porti attaccato alla pelle come la rogna. Non restavano più, in cascina, [nel 1915] che vecchi e ragazzi, i miei fratelli, entrambi, erano al fronte, il camparo era stato mobilitato nella territoriale. Mio padre tra­scorsi appena pochi giorni [dalla fine della scuola] m’invitò a dargli una mano…D’altra parte, fin lì, m’era piaciuto l’andare nei campi con in mano il bastone di castagno, ch’è un po’, da noi, lo scettro del comando. Avevo imparato a comandare naturalmente, come naturalmente s’impara a bestemmiare e ad accarezzare le spalle alle ragazze. Adesso mi domandavo: perché? Che cosa, che me­riti, che qualità, mi avevano messo a quel posto? La qualità di essere figlio di mio padre. Era poco. Era avvilente. Trovai una scappatoia che non era del tutto una viltà: non rifiutai, ma decisi di assumermi, anch’io, la mia parte di lavoro” [3]   Lo sciopero agrario del 1920 La provincia di Novara (che allora comprendeva il vercellese) con  70.000 ettari coltivati a riso (con rese per quel tempo molto elevate di 30-40 quintali all’ettaro) forniva quasi metà della produzione nazionale. Nella pianura irrigua era quasi scomparsa la piccola proprietà, sostituita da aziende agricole intensive condotte dall’affittuario (figura corrispondente all’imprenditore industriale) con la formazione di un vasto proletariato composto da obbligati (residenti nelle cascine), giornalieri, stagionali assunti per la monda, mungitori, organizzatisi in società di mutuo soccorso e poi in leghe di resistenza. Nel novarese il rapporto città-campagna era vicino al modello classico delle zone bracciantili, nelle quali il capoluogo lungi dall’esprimere una vita culturale e politica in grado di influenzare il circondario, subiva il condizionamento di quest’ultimo. E’ nelle campagne che si svilupparono prima e più rigogliosamente le organizzazioni proletarie della cooperazione e delle leghe.[4]  Le tensioni accumulate durante la guerra, che si aggiunsero alla proletarizzazione delle campagne, fecero del novarese un epicentro della lotta di classe in cui alla conquista socialista delle amministrazioni locali nel 1920 e soprattutto allo sciopero delle campagne, si contrappose uno squadrismo fascista  che vide scontri feroci culminati nella battaglia di Novara”[5] svoltasi dal 9 al 24 luglio 1922. “Con i soldati delle trincee traboccò nel paese la febbre … Si sostanziò di una serie di scioperi. Ci furono, per la prima volta da lunghissimi anni, gli scioperi della campagna, dei braccianti e dei salariati. I salariati e i braccianti si facevano, si costruivano una mentalità nuova, un nuovo modo di pensare; si met­tevano probabilmente a pensare per la prima volta; si costruivano un nuovo aspetto fisico. Questa …

FIGURE DEL SOCIALISMO RIFORMISTA TRA LOMBARDIA E PIEMONTE

Tratto da un’opera di Giovanni Artero: APOSTOLI DEL SOCIALISMO La tradizione del socialismo riformista, corrente che occupa nel Partito socialista italiano, dalla fondazione nel 1892 al 1912, un posto centrale che ne fissa i caratteri fondamentali [1] è il filo che lega questi personaggi[2] che appartengono a generazioni diverse. All’accusa di “opportunismo”, di “trascurare la propaganda e la formazione della coscienza socialista“, di caratterizzarsi solo in iniziative imbevute di spirito utilitario, i riformisti contrappongono esperienze come quella  reggiano-emiliana[3] e quella genovese[4], presentate come un modello, dove i dibattiti ideologici, “ampolle di alchimia politica così cara agli anarcoidi senza oriente“, non intaccavano l’attività di organizzazione e l’incremento costante delle istituzioni di classe, un modello di crescita civile non faziosa o turbolenta a cui si opponevano le teorie velleitarie di “quello scarso socialismo catastrofico” che trova la sua origine nel “mezzogiorno feudale..dove non resta che giocare un terno al lotto della rivoluzione e aspettare“[5]..   Fausto Pagliari: tracce per una biografia politica Nato a Cremona nel 1877, si forma negli ambienti della democrazia positivista lombarda; laureatosi in scienze economiche alla scuola superiore di commercio Ca’ Foscari di Venezia, si perfeziona a Vienna e nel 1902 Giovanni Montemartini[1] lo chiama a Milano  a collaborare all’Ufficio del lavoro della Società Umanitaria[2]. Nel 1905 vi costituisce l’Ufficio d’informazioni e traduzioni, poi cura gli Uffici di collocamento e la Cassa di sussidio alla disoccupazione, infine ne diventa Segretario nel 1911.  Quasi giornalmente interviene con articoli,  rubriche fisse, recensioni su “Critica Sociale” e la “Confederazione del Lavoro”. E’ questa imponente opera di documentazione sugli eventi e problemi del movimento operaio internazionale e italiano compiuta sulle riviste e i libri che pervenivano all’ Umanitaria, l’asse centrale della sua attività.   La Società Umanitaria e le riforme nella società industriale A cavallo tra XIX e XX secolo riformismo socialista, “scuole” universitarie di economia[3] e alcuni innesti della burocrazia giolittiana convergono nello sforzo di trasformare le istituzioni liberali in modo da farle convivere con la struttura conflittuale della società industriale, elaborando una teoria «aperta» del movimento operaio aperta ad una politica di riforme che includeva un certo tasso di conflittualità operaia. Attilio Cabiati[4] era stato il primo direttore dell’Ufficio del Lavoro dell’ Umanitaria e uno degli intellettuali della «Riforma Sociale»  mentre Montemartini negli anni ’90, tenutosi ai margini dell’eclettismo metodologico dell’«economia sociale» italiana di Achilli Loria[5]aveva tentato il recupero della «lotta di classe» nella sfera delle «precondizioni» dell’equilibrio economico generale: «Far progredire la scienza con ricerche che delineano con sempre maggior precisione le ‘leggi’ dell’economica ed insieme agire politicamente per ridurre ed eliminare progressivamente gli squilibri causati dalle coalizioni d’interessi che stanno dietro ai diversi fattori di produzione, questo, secondo il giovane professore di Pavia, il compito per chi volesse essere, nella pienezza di tutti e due i termini, economista e socialista».[6] Si instaurò una fattiva collaborazione tra Cabiati, Riccardo Bachi[7]  e Montemartini (che lo affiancò alla direzione dell’ Ufficio del Lavoro del Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio)  anche sulla questione delle municipalizzazioni dei sevizi pubblici comunali[8] Alessandro Schiavi[9], che sostituì Cabiati alla direzione dell’Ufficio del Lavoro, curava una rubrica sindacale  per «La Riforma Sociale» che come motivo portante aveva la regolamentazione legislativa dei conflitti tra capitale e lavoro.[10] Nel progetto del 1902 per l’Ufficio del Lavoro dell’Umanitaria si prevedeva il coinvolgimento diretto delle organizzazioni operaie nel processo decisionale della ricerca, che avrebbe dovuto svilupparsi seguendo la linea della «modernizzazione» delle relazioni industriali. Lo sforzo per la penetrazione dell’elemento «lavoro» nell’amministrazione dello Stato, per la professionalizzazione degli strumenti di analisi del movimento operaio, per la creazione di una rete di rapporti ed istituzioni in grado di mettere il fattore lavoro su un piede di parità col fattore capitale, accomunarono ancora a lungo economisti liberali e socialisti.    Il salotto della signora Anna e il sindacato di Rigola Apprezzato da Anna Kuliscioff [11] si inserisce rapidamente nell’ambiente riformista milanese. Da Turati deriva la concezione del socialismo come umanità che si riscatta dalle tare della società borghese e come riorganizzazione della società sulla base della superiore capacità tecnica, politica e morale dei lavoratori. Nella Confederazione del Lavoro (CGdL) diffuse le idee e le esperienze del laburismo e del fabianesimo e si adoperò perché la CGdL intervenisse anche sul piano politico, diventando ispiratore tra il 1907 e il 1910 del progetto di un «partito del lavoro»[12]. Si richiamava a Bernstein, ai laburisti inglesi e anche a Sorel, rivendicando al sindacato il compito di socializzare la fabbrica e di democratizzare lo Stato e la società e di preparare quella aristocrazia operaia che, per capacità tecnico-professionali, fosse in gradö di dirigere il movimento socialista. Un sindacalismo che «ricostruisce la società su basi tecniche; sostituisce alla democrazia politica la democrazia professionale».[13] Questo progetto testimoniava il carattere trasversale tra le tendenze revisionistiche di destra e di sinistra. All’inizio del 1907 si accese la polemica sul localismo delle Camere del lavoro, considerate frutto della «propaganda socialista» più che dello sviluppo industriale di un paese avanzato, organismi non riconducibili a funzioni economico-sociali e quindi passibili di far «degenerare degli organi del movimento di resistenza in organismi prevalentemente politici» [14]. Da seguire era il modello tedesco che proprio quell’anno era riuscito a battere il sindacalismo rivoluzionario restringendo gli spazi del localismo camerale, in quanto anche autorevoli membri della SPD (Bebel) avevano appoggiato le posizioni dej sindacati, isolando l’ala intransigente (Kautsky). In Italia invece «la frazione intransigente del Partito guardò fino a ieri cotesti sindacalisti con occhio di profonda simpatia e li guarda ancora oggi come figli ribelli per esuberanza e generosa giovinezza. Sono tutt’al più, una esagerazione del movimento operaio e socialista. Ma la«Confederazione del Lavoro » però anch’essa – secondo quegli intransigenti – una esagerazione nel senso del trade unionismo »[15]. Perciò é difficile battere il sindacalismo in Italia, perciò la CGdL deve usare tutti i mezzi a sua disposizione per rendere sterile il terreno ove può svilupparsi la pianta del rivoluzionarismo, perciò la centralizzazione deve essere integrale .[16] La proposta del partito del lavoro nasceva da una analisi severa del PSI, considerato responsabile di sacrificare ai …

GENERAZIONI E PERCORSI DEL MASSIMALISMO SOCIALISTA IN LOMBARDIA

Nella foto Maria Giudice (Codevilla PV, 27 aprile 1880 – Roma, 5 febbraio 1953) Tratto da un’opera di Giovanni Artero: APOSTOLI DEL SOCIALISMO   Origini del massimalismo socialista Impostazione della ricerca Profili biografici Ezio Riboldi Francesco Buffoni                                                        Giovanni Bitelli Ines Oddone Bitelli[1]                                        Riccardo Momigliano Alberto Malatesta                Maria Giudice Bruno Fortichiari   Abigaille Zanetta     “Sociologia” degli intransigenti La componente femminile Conclusione   Origini del massimalismo socialista “Il massimalismo socialista, che tanta parte ha avuto nel movimento operaio italiano, è tanto ricco di storia e di personaggi, quanto povero di studi d’insieme e di monografie”[2]; esso nasce dalla frazione “intransigente” formatasi al congresso di Roma del 1906 (si veda il paragrafo relativo nella biografia di Giovanni Lerda). Al congresso di Firenze del 1908 la corrente ha una buona affermazione in Lombardia (40%) con punte significative a Milano (63%), Como (86%), Bergamo (81%), Mantova (54%). Al congresso di Reggio Emilia (1912) in Lombardia la corrente passa da 400 voti a 1.300 con la conquista della sezione di Milano (420 voti) e una buona affermazione nel comasco, mantovano e pavese[3]. La guerra determina profonde modifiche all’interno del partito tanto nei quadri quanto nella stessa base sociale, per cui occorre distinguere tra intransigentismo e massimalismo (rispettivamente prima e dopo la guerra), perchè se il primo fu l’indubbia matrice del secondo, dell’originario gruppo dirigente della frazione solo pochi mantennero una posizione di primo piano (Serrati, Vella), alcuni concorsero alla formazione del PCdI mentre molti degli esponenti più rappresentativi dell’anteguerra confluirono su posizioni più  moderate alla fine del conflitto, anche in relazione alla rivoluzione russa. Impostazione della ricerca Abbiamo raccolto e messo a confronto le biografie (evidenziandone i tratti significativi specie negli snodi dell’epoca: grande guerra, fascismo…) di nove “massimalisti” che hanno operato in Lombardia nel periodo che va dall’età giolittiana al dopoguerra Gli esponenti del massimalismo socialista  in Lombardia erano naturalmente molto più numerosi di quelli qui trattati, e andrebbe proseguito un lavoro di “scavo” in ogni singola provincia utilizzando le biografie dei militanti di base (ma è di ostacolo la mancanza di strumenti quali un repertorio del movimento operaio come quello esistente in Francia[4]). Ci sembra comunque che la ricerca individui, come ipotesi di lavoro da verificare,  una tipologia di quadri intermedi a livello provinciale i quali, pur compiendo itinerari personali e politici quanto mai vari, presentano un denominatore comune che va al di la del mero intrecciarsi di percorsi che li vede svolgere lo stesso ruolo o ricoprire responsabilità negli stessi luoghi in tempi successivi. Gli elementi presi in considerazione sono: 1) il dato anagrafico, vale a dire l’appartenenza alla classe dei nati nel ventennio ’75-’95 dell’Ottocento; 2) l’ attività come organizzatori di strutture socialiste (Camere del lavoro, federazioni, giornali…) a livello provinciale e regionale, escludendo sia coloro che operarono  a livello nazionale, sia i militanti di base. Profili biografici Ezio Riboldi[5] Nato a Vimercate nel 1878 cresce in clima laico e democratico (il padre, artigiano sarto, radicale, aveva fondato la prima società di mutuo soccorso del suo comune); dopo le lauree in lettere e poi in legge (conquistate con sforzo per le sue modeste condizioni economiche) e l’adesione al socialismo nel clima dei moti del ’98, si trasferisce a Monza  per insegnare all’istituto tecnico commerciale. Qui trova una leadership già consolidata con cui deve confrontarsi e competere, rappresentata da Enrico Reina (nato nel 1871)[6], affermato organizzatore sindacale dei cappellai, segretario della Camera del lavoro e autorevole esponente riformista. Nella sezione monzese Riboldi si pone all’opposizione finché nel 1912 la corrente intransigente prende la guida sia del PSI al congresso di Reggio Emilia sia a livello locale, provocando la rottura dell’alleanza “bloccarla” coi radicali che reggeva il Comune. Le conseguenti elezioni vedono la vittoria dei clerico-moderati, ma la loro amministrazione non ebbe vita lunga per dissensi interni e si torna a votare nella primavera del 1914. La lista socialista, pur presentatasi da sola (ma giovandosi dell’assenza dei radicali) ottiene una brillante vittoria portando alla guida del Comune il Riboldi, che diede comunque spazio alla corrente riformista minoritaria affidando l’assessorato all’istruzione al Reina.[7] Direttore del settimanale socialista “la Brianza”, si impegna attivamente nella lotta contro la guerra diffondendo le parole d’ordine della conferenza di Zimmerwald. Eletto deputato nel 1919, al congresso di Livorno (1921) appoggia la mozione “comunista unitaria” di Serrati; è incaricato nello stesso anno, con Fabrizio Maffi (nato nel 1868 in provincia di Pavia, ma che non prendiamo in considerazione perché svolse la sua attività nel vercellese, dove esercitava la professione di medico condotto) e Costantino Lazzari (cremonese, ma della classe 1857, quindi di una generazione precedente), di perorare al terzo congresso dell’Internazionale Comunista le ragioni del PSI nel contrasto sulle condizioni di adesione. Fondata, in occasione del congresso di Milano dell’ottobre 1921 la frazione terzinternazionalista, che si proponeva l’espulsione dei riformisti e la fusione con il Partito Comunista d’Italia, egli ne è uno dei principali dirigenti, ed al congresso di Roma dell’anno seguente è eletto membro della direzione del partito epurato dei riformisti. Dopo la sconfitta subita dai sostenitori della fusione col PCdI al congresso di Milano dell’aprile 1923, con Serrati, Maffi, Francesco Buffoni e Mario Malatesta è redattore della nuova rivista “terzina” “Pagine Rosse”, la cui pubblicazione costò a lui e agli altri l’espulsione dal PSI[8]. Candidato nelle liste comuni tra terzini e comunisti per le elezioni dell’aprile 1924, è per la terza volta eletto nella circoscrizione lombarda. Entrato nel PCI con la fusione dell’estate dello stesso anno, dirige con il Buffoni l’ufficio giuridico del soccorso vittime politiche (conosciuto anche come Soccorso Rosso) e collabora al nuovo quotidiano del partito “L’Unità”. Arrestato nel novembre del 1926 e assegnato al confino a Pantelleria, viene condannato a 17 anni. La domanda di grazia inoltrata nel 1933 lo mette in libertà ma comporta l’ espulsione dal PCdI. Emarginato anche dal regime, che allo scoppio della guerra lo interna per alcuni mesi in Abruzzo, nel periodo 1940-43 collabora al periodico “La Verità” diretto dal già massimalista Nicola Bombacci (nato nel 1879) che svolse opera di fiancheggiamento del regime dal 1936 fino a …